Oggi: Venezia-Cosenza
Appena ci si lascia alle spalle piazza San Marco e il Ponte dei Sospiri, i turisti si diradano. Mancano due giorni a Natale e un gruppetto di cosentini con le sciarpe rossoblù cammina lungo la passeggiata sul lungomare che conduce al secondo stadio più vecchio d’Italia: il Penzo. Se immaginassimo Venezia come un pesce, lo stadio si troverebbe all’estremità della sua pinna caudale, superati l’Arsenale e i Giardini della Biennale.
Il Penzo è incastonato fra la marina – con i suoi yacht bianchi e affusolati – e un viale alberato di tigli spogli. La Tribuna Nord, riservata ai tifosi in trasferta, è costruita con dei tubi da ponteggio che da lontano sembrano poco più che fiammiferi. L’atmosfera è cordiale, in parte perché si avvicina il Natale, e in parte perché Venezia e Cosenza erano gemellati. «Come sta Padre Fedele?», chiede un veneziano. Ovunque vai, chiedono del frate.
Appena entri allo stadio c’è una costruzione di cemento con i bagni su cui qualcuno ha scritto con una bomboletta, in inglese e a caratteri cubitali: “Fight Fascists, Eat Nazis”. Sull’impalcatura della tribuna dai sedili verdi, neri e arancioni, il freddo è pungente. Sono presenti tutti i gruppi: gli Irrequieti, gli Amantea, gli Allupati, gli Anni Ottanta e tutti gli altri; ma anche le famiglie di cosentini che vivono al Nord, che vogliono dare ai loro figlioletti assiderati un assaggio dell’atmosfera che si respira nella loro città natale. Gli ultrà fanno amicizia, offrendo ai bimbi sciarpe e panini.
Come al solito è A’Lastica a dirigere i cori. Una canzone è una specie di scioglilingua – «Arancione-verde-nero-rosso-e-blu» – e visto che il vecchio gemellaggio col Venezia è stato ristabilito, viene cementato con una canzone che unisce i colori delle due squadre. Sembra un po’ la canzone Sing a rainbow, ma forse in parte è questa l’intenzione: la vicinanza fra i due gruppi di tifosi è l’inclusività racchiusa nella bandiera arcobaleno. È proprio qui, a Venezia, che nacque Noi Ultras, l’associazione che ha lo scopo di «difendere e valorizzare gli aspetti socio-aggregativi e culturali del tifo ultrà, dalle degenerazioni razziste e xenofobe».
Gli ultrà locali hanno raccolto migliaia di euro da destinare a enti benefici come Emergency, o per sostenere i terremotati dell’Aquila, la Croce Rossa e i genitori dei bambini malati. Durante gli anni Novanta uno degli ultrà più carismatici di Venezia era El Bae (Il Balle). Era un attivista di sinistra, anima del centro sociale il Rivolta – in cui lavorava come cuoco nel ristorante al suo interno, l’Osteria Allo Sbirro Morto – ma il suo sogno era andare in Messico, nel Chiapas, per prendere parte alla rivolta zapatista. Morì nel 2001, a soli quarant’anni, prima di poterlo realizzare. Poco dopo la sua morte, gli amici di oltre quaranta diversi gruppi ultrà indissero una raccolta fondi per ricostruire un villaggio nella Selva Lacandona del Chiapas. Il progetto, chiamato “Lo stadio di Bae”, contribuì a finanziare un acquedotto, un campo da basket e uno da calcio e un ambulatorio medico.
«Diffidati sempre presenti», cantiamo, battendo rapidamente. «Diffidati sempre presenti». Ogni volta che ci si deprime per questo mondo ottuso, si intravedono sbocciare fiori bellissimi in ricordo degli ultrà morti. Maurizio Alberti, un ultrà del Pisa, morì d’infarto sugli spalti poiché i medici, credendo che fosse solo ubriaco o fatto, non presero abbastanza sul serio le sue condizioni, nonostante l’uomo li avesse informati che aveva un pacemaker. Dopo la sua morte, avvenuta nel ١٩٩٩, la Curva Nord del Pisa diede vita a un movimento chiamato Mau Ovunque, dedicandogli un parco giochi per bambini disabili.
È una bella partita. Il Cosenza attacca costantemente ma nel giro di pochi minuti prende una traversa e un palo in rapida successione. Durante l’intervallo, saliamo in cima alle gradinate alla ricerca di U Lisciu, che si è fatto un viaggio di duemila chilometri nonostante la diffida. Ma non lo vediamo. «Sarà andato a bere in qualche bar», suggerisce MonSicca.
«Be’, se n’è fatta di strada per farsi un drink», replica U Rimastu.
Nel secondo tempo i giocatori del Venezia pressano per il gol, ma la partita sembra naufragare verso lo zero a zero. Tra una canzone e l’altra, Vindov mi racconta di una lite avvenuta nel 2012 qui in città. C’era stata una brutta scazzottata fra due tifoserie del Venezia – tra il gruppo di estrema sinistra Gate 22 e quello di estrema destra Vecchi Ultrà – in cui un giovane dei Gate 22 venne sfregiato da un uomo col tirapugni. Qualche mese dopo il fratello del giovane andò in curva a cercare l’uomo che lo aveva ridotto in quello stato e lo aggredì con un martello, mandandolo in coma. «Da allora cercano di tenere la politica fuori dagli spalti», mi dice Vindov.
«Lo credo bene», commenta U Rimastu.
Mentre stiamo parlando, il pallone arriva a Domenico Mungo che rilancia a destra in direzione di Jaime Báez. Subito parte un improvviso contropiede e il Venezia rimane scoperto. Báez tocca e lancia in diagonale verso il limite dell’area, dove Tommaso D’Orazio, senza nemmeno rallentare, colpisce la palla di sinistro e la infila nell’angolo più lontano. Nel momento di estasi vengono abbattute tutte le barriere che ci separano. Ci abbracciamo, ci baciamo, ci diamo il cinque. La folla spinge da dietro e ti trascina verso il basso, facendoti quasi cadere a terra. Sembra di essere un unico organismo vivente, incapace – anche se per poco – di autonomia propria. (In seguito mi sono imbattuto in un passaggio del meraviglioso libro di Elias Canetti, Massa e potere, nel quale l’autore allude proprio a questo senso di unione estatica. «Soltanto assieme», scrive, «gli uomini possono liberarsi dal fardello della distanza; ed è questo, esattamente, che avviene in una folla. Durante la carica le distinzioni si dileguano e ci sentiamo tutti uguali. In quella densità, dove resta a malapena qualche briciolo di spazio interstiziale e i corpi si premono contro gli altri corpi, ogni uomo è vicino all’altro quanto è vicino a se stesso; e ne deriva un sentore di enorme sollievo. È per amore di questo momento benedetto, dove nessuno è più grande di nessun altro, che la gente si aggrega in una folla»).
Quella compattezza e quell’uguaglianza permangono per oltre un’ora dalla fine della partita. E visto che siamo a Venezia, che è Natale, e che abbiamo vinto, ci ritroviamo a cantare per le calli a centinaia, sentendo il suono rauco e uniforme del nostro coro rimbalzare sull’acqua e sui muri. «Che bello è», cantiamo di nuovo, «quando esco di casa, per andare allo stadio a tifare Cosenza». Incrociamo i nostri amici veneziani e intoniamo brevemente la canzone “dell’arcobaleno”, per poi tornare ai vecchi classici. Saliamo su un battello senza pagare il biglietto, travolgendo il controllore con un misto di umorismo e minacce. Mentre attraversiamo il Canal Grande cantano tutti, picchiando forte su qualsiasi cosa a portata di mano. Bandiere rossoblù – con su scritto “Cosenza” in orizzontale – pendono dai finestrini, e più i turisti ci guardano sconcertati più noi vogliamo fare casino. Non solo per dimostrare che il Cosenza ha conquistato questa antica città, ma per continuare a sentirci compatti, uniti. Perché nel momento in cui andremo ognuno per la sua strada il mondo sembrerà di nuovo più freddo e solitario.