Pescara, oggi: Siena-Cosenza,
finale di Serie C

 

 

 

 

 

 

 

Ciccio Conforti scruta il ferro di cavallo formato dai 12.000 tifosi del Cosenza dalle gradinate superiori della curva. Ormai è un ultracinquantenne con i ricci grigi e gli occhiali da sole da aviatore. La sua compagna, incinta, è al suo fianco. Nei gloriosi anni Ottanta Ciccio era una delle menti organizzative degli ultrà del Cosenza e in qualsiasi altra città lo avrebbero chiamato capo, ma Cosenza è una città troppo anarchica ed egalitaria per averne uno. È semplicemente Zu Ciccio (Zio Ciccio).

Quasi tutti i membri della sua vecchia banda sono accorsi a Pescara per il grande match. È la tanto attesa finale, la partita che potrebbe permettere alla sua squadra di mettere piede nella terra promessa della serie B, traguardo che non raggiunge da quindici anni. È una calda sera di giugno e nell’aria si respira la sensazione che quest’anno, finalmente, la sorte volgerà a favore della piccola città calabrese. A supportare i tifosi del Cosenza sono arrivati perfino gli ultrà del Genoa e dell’Ancona, con cui sono gemellati. Mancano solo i diffidati, gli ultrà più violenti che vengono tenuti lontani dagli stadi per anni.

«Diffidati sempre presenti!», grida la curva in coro per tutta la partita, battendo le mani per fare eco a quelle parole.

Il gruppo di Ciccio si chiamava Nuclei Sconvolti, nome che richiamava volutamente a una cellula dormiente di fattoni dato che il loro stemma era quella foglia verde a sette punte tanto cara ai fumatori di marijuana. Ma a prescindere da tutte le provocazioni erano convinti che ci fosse qualcosa di profondo in ciò che facevano.

«Per me “ultrà” è una parola sacra», dice Ciccio in tono nostalgico. «Avrei fatto qualsiasi cosa in nome di quella parola, in nome di quel mondo. Ero un ultrà prima ancora di diventare un tifoso».

Il termine “ultrà” deriva dal latino ultra, che significa “oltre, al di là. E definire una persona un ultrà è sinonimo di ribelle, rivoluzionario, fuorilegge, partigiano, bandito, radicale e mascalzone. Per i borghesi, invece, gli ultrà sono delle figure inaccettabili, degli emarginati sociali se non addirittura dei criminali.

Marco Zanoni (una delle figure di spicco delle Brigate Gialloblù del Verona) una volta ha detto: «Secondo me uno che frequenta la curva è un idealista. In fin dei conti va a sostenere la squadra della sua città e sappiamo che un idealista in certe occasioni può diventare anche un duro, anche un estremista». E questo è proprio l’altro significato della parola ultra: estremo. Gli ultrà sono gli estremisti, i guerriglieri del calcio italiano.

Questa sera, fra le 12.000 persone in curva, probabilmente solo qualche centinaia sono ultrà (le stime ufficiali sostengono che ce ne siano circa 40.000 in tutto il Paese, nonostante siano gli ultrà stessi a dire che il numero sia in realtà molto più alto). Sono quelli al centro della curva, che cantano senza sosta per dissipare la tensione: «Oh, la vinciamo noi», continuano a ripetere.

Si batte il calcio d’inizio. Il Siena mette subito il Cosenza, che gioca con la maglia bianca con una fascia rossa e blu, sotto pressione. Il centrocampo del Siena si schiera dietro al suo attaccante, spingendo la difesa del Cosenza ad allargarsi.

«Sono puliti, cazzo», dice Ciccio.

Basta guardare come sono vestiti i tifosi per capire chi è un ultrà. “Non saremo mai come ci volete voi”, recitano le loro magliette. Gli ultrà sostengono di combattere la dura repressione dello Stato e che la loro ribellione è quasi un atto sacro: “La fede non si diffida”, è la scritta che campeggia su molte altre magliette che si vedono in curva. Molti dei loro slogan hanno un’aria incredibilmente spirituale e citano termini come: congregazione, sacrificio, presenza.

Sembra bizzarro a dirsi, ma un altro modo per individuare un ultrà è notare chi non presta attenzione alla partita. Il magrolino che guida i cori col megafono si chiama A’Lastica (Elastico) e sta tutto il tempo di spalle al campo, come fa la maggior parte dei suoi luogotenenti. Guardano le truppe. I più anziani trattano la curva come se fossero i padroni di casa durante una festa: chiacchierano, discutono sulle gradinate e spesso danno solo una rapida occhiata di sfuggita alle loro spalle per capire a cosa è dovuto il marasma di fronte a loro. Essere un ultrà ha poco a che vedere col guardare una partita di calcio, è piuttosto guardarsi l’un l’altro: ammirare il carnevale della curva, non lo sport che si gioca sul prato.

Il contrasto fra la percezione che hanno di se stessi e l’opinione che hanno di loro i benpensanti non potrebbe essere più marcato. La maggior parte degli italiani considera gli ultrà dei coglioni degenerati che non hanno un vero scopo nella società, descrivendoli spesso come dei sub-umani (animali è l’insulto più diffuso, ma anche pezzi di merda). Il presidente del Genoa, Enrico Preziosi, in una lunga invettiva, disse una volta che «gli ultrà dovrebbero essere spazzati dalla faccia della terra». «Nel calcio italiano», si lamentò Fabio Capello, «comandano gli ultrà». Nei loro cinquant’anni di storia gli ultrà sono stati, dicono i critici, violenti criminali mascherati da tifosi che distruggono le città a ogni partita in trasferta. Incarnano tratti distintivi pericolosi o comunque sospetti – cieca lealtà, affiliazione tribale, omertà nei confronti della polizia, mascolinità cavernicola e muscolatura possente – e nel peggiore dei casi sono diventati per loro stessa scelta gli scagnozzi della criminalità organizzata o dei gruppi fascisti, che negli ultimi anni sono tornati in auge in Italia.

Eppure il mondo degli ultrà è talmente contraddittorio che c’è del vero in entrambe le descrizioni. E queste contraddizioni vengono messe in luce di continuo. Gli ultrà sono tifosi a cui il calcio non interessa più di tanto. Sono fermamente convinti che la politica dovrebbe tenersi a distanza dagli spalti, ma allo stesso tempo alcune tifoserie sono profondamente politicizzate. È un mondo tossico che però ha aiutato molte persone a rimanere pulite. L’ambiente ultrà in alcuni casi ha coinciso con quello della Mafia, ma è un mondo che, in altre occasioni, ha permesso alla gente di allontanarsene. Gli ultrà sono intolleranti ma possono essere anche aperti a tutti. Sono per natura violenti, ma allo stesso tempo sanno essere altruisti. Sono capaci di compiere azioni di beneficienza nei momenti in cui, come molto spesso accade, lo Stato italiano è assente. Gli ultrà incarnano molte delle tematiche che troviamo intriganti in quanto esseri umani: sono ossessionati dalla lealtà e dal senso di affiliazione e di appartenenza; rispecchiano i valori di solidarietà e di coesione tanto quanto le piaghe del crimine, della violenza e dell’avidità. Sembrano domandarsi di continuo cosa significhi essere uomini in un mondo in cui i muscoli e la mascolinità vengono, per ragioni comprensibili, visti con sospetto.

 

All’improvviso, un gol. Lo stadio è in delirio. Una valanga umana si accalca sulla parte degli spalti più vicina al campo, facendo cadere in avanti i tifosi che si aggrappano gli uni agli altri stringendosi in un abbraccio. Il gol era al limite dell’area, un semplice retropassaggio di Tutino (un giocatore preso in prestito dal Napoli) e Bruccini ha infilato il pallone in porta. Gli spettatori saltano, ricominciando a intonare daccapo il repertorio dei cori.

«Che bello è, quando esco di casa», cantiamo, «per andare allo stadio, a tifare Cosenza…». Questa musica semplice e coinvolgente è ripresa dal ritornello di una banale canzone pop, cantata da Noemi.

Ci sono decine di gruppi ultrà a Cosenza, ma confluiscono tutti sotto l’egida di due organizzazioni più grandi: la Curva Sud 1978 e gli Anni Ottanta (un omaggio a quel periodo di gloria). Durante l’ultima stagione i litigi e gli scontri tra i due gruppi sono stati frequenti. Claudio – una delle teste più sagge della città – che vanta amici in entrambi gli schieramenti, dice che la parola ultrà significa “superunismo”. Ciò nonostante, in quasi tutti gli stadi ci sono diversi settori occupati da altrettante fazioni agguerrite che tifano per la stessa squadra. Le spaccature all’interno dei vari gruppi si verificano per i motivi più disparati. Il fattore principale risiede nei tratti distintivi intrinsechi a questo stile di vita: è fondamentale essere intransigenti, risoluti e non scendere mai a compromessi. Mai tirarsi indietro. “Mai in ginocchio”, è un altro slogan. E in questo modo, come accade nella politica italiana, i gruppi si frammentano e si scontrano tra di loro. Oggi c’è un accordo di pace. In questa corsa al montepremi tanto ambito, vige una tregua armata tra i gruppi rivali.

All’inizio del secondo tempo succede una cosa davvero sbalorditiva. L’azione si svolge al limite dell’area, dove il Siena guadagna un calcio di punizione. L’occasione viene sprecata e all’improvviso Tutino, in posizione avanzata all’interno della sua metà campo, stoppa la palla con l’esterno sinistro e corre verso di noi. È completamente smarcato. Due, tre tocchi, avanza. È ancora solo. Un altro paio di tocchi ed è fuori dall’area di rigore ma, cazzo, tira una cannonata così forte di esterno sinistro che finisce sotto l’incrocio dei pali. Il punteggio è 2 a 0.

È un’intensa scarica di adrenalina, d’amore ed estasi. U Lisciu mi agita il pugno davanti, come se mi stesse rimproverando per la mia poca fede. Si abbracciano tutti, cantano, prendono i cellulari in mano per chiamare gli amici e mandargli dei video, cercando di immortalare questo evento più unico che raro in cui il destino ha deciso di sorridere anche ai derelitti.

Il momento non dura a lungo. Al Siena è stato concesso un rigore e in un batter d’occhio siamo sul 2 a 1. «Questa squadra è una puttana», dice l’uomo dietro di noi, «ci ha tradito così tante volte che sappiamo già come andrà a finire». I giocatori del Siena in maglia nera continuano a fare pressione contro la porta avversaria, e sono così lontani che a malapena riusciamo a vedere cosa succede.

All’improvviso l’atmosfera si fa tesa, ma non come dovrebbe. Gli ultrà cantano senza sosta e riesco a scorgere U Rimastu, che urla con quanto fiato ha in gola. È il loro modo per esorcizzare la paura di vedere il proprio sogno sfumare. Credevano davvero che questa fosse la stagione decisiva. E ora che l’obiettivo sta sfuggendo, non gli rimane altro che far sentire la loro presenza facendo sempre più chiasso.

La nuova canzone è un classico, che a quanto pare venne introdotta dagli ultrà del Torino (benché la provenienza e le date delle invenzioni degli ultrà siano ancora oggetto di discussione). Sulle note di Sloop John B dei Beach Boys, cantiamo quello che è stato l’inno dell’intera stagione: «Sembra impossibile, che seguo ancora te, è una malattia che non va più via. Vorrei andar via, andare via di qua, ma non resisto lontano da te». È una canzone che rappresenta in pieno il significato della vita da ultrà: è una dipendenza o una malattia, qualcosa di cui non puoi fare a meno. La frase “Sono ancora qua” si riferisce non tanto alla squadra quanto alla curva.

Tutti affermano che essere un ultrà sia uno stile di vita. Ma è uno stile di vita che ha subito un’evoluzione, che si è rigenerato, e si è saputo reinventare. Ed è questa evoluzione del mondo degli ultrà a rendere Ciccio così malinconico.

«Mi fa male, molto molto male vedere quello che succede in curva. Mi fa soffrire molto», dice, ignorando la partita. «Perché so che ne siamo responsabili. Siamo noi ad aver costruito questo mondo. Ma la situazione ci è sfuggita di mano. C’è stata un’escalation di violenza, e siamo passati dalle scazzottate ai coltelli, dai coltelli ai fumogeni, dai fumogeni alle imboscate, alle molotov, fino alle bombe e alle pistole. E continua a peggiorare».