Primi anni Ottanta, Cosenza
Il Cosenza fu promosso in Serie C2 nella stagione 1979-80. Il calcio italiano di allora non era molto entusiasmante, poiché il metodo di gioco si basava per lo più sul catenaccio, una tattica quasi completamente difensiva.
La squadra aveva totalizzato cinque pareggi di fila, mantenendosi costantemente sullo 0 a 0 (punteggio che secondo il grande giornalista sportivo Gianni Brera era la definizione della «partita di calcio perfetta»). La promozione in serie C1 avrebbe previsto delle sfide impegnative da parte della squadra, e gli ultrà del Cosenza avrebbero dovuto affrontare dei tifosi avversari di prima scelta, come quelli della Reggina, della Salernitana, della Nocerina e molti altri. «Non andavamo a rompere le palle a nessuno» ricorda Ciccio. «Ma non eravamo non-violenti. Se dovevamo difenderci, lo facevamo, e anche piuttosto bene».
Una delle metafore ricorrenti nel mondo ultrà paragonava la curva a una «palestra di vita», che ti prepara a tutte le eventualità nel corso dell’esistenza. A volte la lezione più importante non consisteva solo nel sopravvivere alle battaglie, ma evitarle quando possibile. Dovevi incutere timore, in modo che nessuno avesse il coraggio di sfidarti; ed essere tutti uniti, così da impedire che qualcuno si staccasse dal gruppo per commettere una stupidaggine. Bisognava trovare un equilibrio tra l’apparire minacciosi ed essere allo stesso tempo organizzati; non provocare una rissa ma, se ci si trovava in mezzo, era d’obbligo colpire per primi. Come dicono a Cosenza, «chi mena per primo, mena per tre».
Questo strano equilibrio infondeva un’atmosfera tesa ma emozionante alle giornate di trasferta nelle grandi città. La minima parola fuori posto poteva far riversare sul gruppo la rabbia di una città intera, motivo per cui gli ultrà ospiti dovevano essere più cauti e trattenersi dalle loro solite pagliacciate. Oltre alle interminabili storie di risse di gruppo, molti dei loro aneddoti preferiti dalla fine degli anni Settanta in poi raccontavano di quando ci si incontrava per caso tra bande rivali senza passare alle mani: si rimaneva in silenzio, guardandosi in cagnesco, ma con una strana forma di rispetto reciproco. Il fatto che ogni città avesse il proprio dialetto, e che fosse incomprensibile perfino tra città distanti solo cinquanta chilometri, aiutava a mantenere il distacco. Potevi impartire ordini senza che nessuno ti capisse. Alcuni affermano che la mancanza di settori dedicati ai tifosi ospiti e l’assenza di polizia rendeva i tifosi più cauti, anziché il contrario. «Durante le trasferte», ricorda uno di loro, «te la facevi sotto».
Spesso però il Commando Ultrà Prima Linea del Cosenza era troppo esuberante. Essere liberi di sfogarsi dopo una settimana di lavoro, di seccature a casa e a scuola, significava trascorrere i giorni delle trasferte a ubriacarsi, a fumare e a cantare, e dopo aver valutato attentamente la situazione, scatenare anche una rissa. Una volta, verso la fine di marzo, dopo essere retrocesso in Serie C2, il Cosenza stava disputando una partita contro il Turris. Tre pullman con a bordo centocinquanta cosentini avevano percorso trecento chilometri fino a Torre del Greco, cittadina situata tra il golfo di Napoli e il Vesuvio. Arrivati allo stadio, molti di loro erano già completamente ubriachi o strafatti, e cominciarono a cantare, gridare e insultare la gente del posto. Di colpo giunsero qualche centinaio di tifosi locali armati di catene, spranghe e bastoni di legno. Addirittura, la vecchia signora dietro al bancone del bar alle spalle dello stadio aveva dato delle bottiglie vuote ai tifosi del Turris, che le ruppero e le usarono come armi da taglio improvvisate, per poi caricare i cosentini. Dopo l’assalto, gli ospiti si riunirono in silenzio e fecero il conto delle ferite e delle costole rotte, guardando la loro squadra perdere per 3 a 0.
In parte è così che si moltiplicavano gli episodi di rappresaglia. Se un gruppo di ultrà ti dava una lezione nel suo territorio, dovevi fargliela pagare in occasione della partita di ritorno. Fino a poco tempo fa le prime due lettere sulle targhe italiane indicavano il luogo di provenienza dell’auto. Durante le giornate di campionato era usanza comune andare a caccia del veicolo nemico per squarciargli le ruote, rompergli i finestrini e scrivere “merda” con la vernice spray sulla carrozzeria. Come risultato, l’atmosfera della trasferta successiva sarebbe stata ancora più tesa.
Durante la stagione 1981-82, il Cosenza arrivò secondo in classifica e venne di nuovo promosso in Serie C1. La tifoseria organizzata della squadra bruzia attraeva sempre più persone. Sergio era alto più di un metro e novanta, ed era un ragazzo magro, il più giovane di sette figli. Suo padre aveva origini siciliane ed entrambi i suoi genitori lavoravano come custodi della scuola. Era cresciuto a via Popilia, la lunga strada ai piedi del centro della città vecchia, parallela al fiume Crati e alle rotaie del treno. Era un duro, di bell’aspetto, comunista convinto e aveva la scritta “Prima Linea” tatuata sull’avambraccio. Nunzio, sempre molto rapido quando si trattava di affibbiare soprannomi che ti rimangono addosso per tutta la vita, chiamò Sergio “Canaletta”.
Paride era alto quanto Sergio, ma più spigoloso e con gli occhi da rapace. Assomigliava a un punk, perché indossava sempre degli abiti bizzarri e colorati. Insieme a Luca, la mente del gruppo, partorivano idee originali e facevano sempre nuove conoscenze. Vincenzo, un tipo paffuto e dalla folta capigliatura, era in qualche modo il meno problematico tra tutti. Oltre a Piero, era l’unico che non fumava. Veniva sempre viziato da sua madre, che durante le trasferte gli preparava teglie di lasagne a cui teneva più del suo portafogli. Quando Nunzio lo soprannominò Pastachina – che ricordava un ragazzo grassottello amante del cibo – ognuno sapeva di chi si stava parlando senza doverlo chiedere.
Piero era come un fratello maggiore per tutti loro. Lello, il ragazzo che era dovuto tornare da Roma, era spesso lontano da casa: nessuno sapeva dove fosse. Quindi, fu Piero a diventare il capo di quella marmaglia, ed era un tipo allo stesso tempo saggio e irriverente. I ragazzi ricevevano spesso delle ramanzine da parte dei loro genitori. Ciccio, espulso da scuola e in perenne conflitto con un padre severo, era scappato di casa, e l’unica cosa che aveva portato con sé erano dei vestiti di ricambio e la sua collezione di foto della curva. Andò a Roma per qualche giorno ma poi se ne pentì e tornò indietro. Piero era sempre accanto a lui, e fu capace non solo di ascoltarlo, ma anche di parlare con i suoi genitori. Ma Piero insisteva di non essere un capo. Era l’opposto di tutto ciò in cui credeva. Come diceva spesso, in dialetto stretto, «Nua sim’i’ Cusenza e capi unni vulimu».
Molti di quei giovani ultrà erano dei ragazzi sbandati che cercavano semplicemente un senso alla propria esistenza. Sentivano che il mondo intorno a loro era pericoloso e corrotto. Le Brigate Rosse, i nar e la Mafia continuavano a mietere vittime in tutto il Paese. Nell’estate del 1980 un aereo di linea venne abbattuto sopra l’isola di Ustica, mentre un Mig23 dell’aeronautica libica si schiantò vicino Cosenza e fu ritrovato tra le montagne della Sila: un altro mistero italiano rimasto irrisolto.
Agli occhi di molti giovani, il mondo era un ambiente marcio. I sogni di una rivolta operaia erano svaniti durante il decennio precedente, e il 1980 era l’inizio di una contro-rivoluzione. Nell’autunno di quell’anno la fiat licenziò almeno venticinquemila lavoratori, ma la cosiddetta “maggioranza silenziosa” manifestò contro i sindacati. Il Paese era dominato dalla corruzione e da organizzazioni clandestine. Vennero svelati i piani della loggia massonica P2, e il Paese venne messo al corrente del coinvolgimento da parte di alti esponenti della politica e dell’imprenditoria all’interno di una società segreta che aveva come scopo la sovversione dell’ordine democratico. Neanche il calcio era immune agli affari illeciti, che consistevano nella compravendita di partite a opera di grandi squadre come Milan e Lazio. Anche gli scontri avevano preso una piega più drammatica: in un torneo del 1981 tra Inter, Milan, Feyenoord, Peñarol e Santos, ci fu una rissa a colpi di pistole e coltelli tra le fazioni rivali di Inter e Milan. Ci furono parecchi feriti gravi, e un tifoso dell’Inter di nome Vittore Palmieri morì in ospedale. (Nel 1983 fu stipulato un accordo di pace, ancora in vigore, tra i due club milanesi).
In confronto, gli ultrà di questa cittadina calabrese sembravano degli idealisti. Facevano continui esperimenti con il nome da dare al gruppo. Il Commando Ultrà Prima Linea era diventato Ultrà Cosenza, ma Ciccio chiamò la sua cerchia ristretta, in inglese, i Mad Band. Le dispute erano piuttosto accese. Si discuteva su soldi, mezzi di trasporto, giocatori e sulle nuove reclute ma il gruppo era come una fratellanza, e insultare un membro significava insultare tutti. Si battevano l’uno per l’altro, e quel sentimento di lealtà – non cieca, ma nata dall’affetto reciproco – attirava inevitabilmente altri giovani. Claudio, il ragazzino che abitava di fronte a Piero, aveva ormai undici anni. Intelligente, sfacciato e loquace, con una montagna di capelli ricci, frequentava piazza Kennedy insieme agli altri ragazzi e aspettava con ansia il giorno in cui anche lui sarebbe potuto andare in trasferta in treno con loro e visitare città lontane, tornando a casa con le proprie storie da raccontare.
A quel tempo non c’erano barriere che dividevano gli spalti e il terreno di gioco. I “cheerleader” del Cosenza, Piero, Ciccio e gli altri, potevano stare sull’erba a dirigere l’orchestra. Quando Pastachina si unì a Piero nella posizione di fronte alle gradinate, la curva iniziò a cantare per scherzo una canzone sulle note di Alouette, gentille alouette: «Pastachina, cocaina, eroina», una battuta sulla sua dipendenza dalle lasagne della madre.
Vincenzo – Pastachina – amava tutta quell’attenzione su di sé ma allo stesso tempo si sentiva in imbarazzo. Era diventato la mascotte del gruppo, il classico ragazzo di indole mite che potevi prendere in giro perché ossessionato dalla fede nei colori rossoblù. A volte quando la squadra giocava una buona partita, si emozionava a tal punto che stringeva le mani a pugno e si colpiva la fronte come se non riuscisse a credere a quello che vedeva. In un paio di occasioni venne talmente sopraffatto dall’eccitazione che dovettero chiamare l’ambulanza perché era svenuto. Un calo di pressione, disse lui.
Poi, nel 1982, apparve sugli spalti un uomo che avrebbe cambiato per sempre le loro vite. Allora, gli stadi italiani erano un covo di personaggi eccentrici e stravaganti, pittoreschi e anche un po’ criminali. Ma nessuno aveva mai visto un tipo del genere. Fu lui, più di ogni altro, a trasformare la curva del Cosenza in un fenomeno nazionale e ad aprire un dibattito su cosa significasse essere un ultrà e vivere oltre la norma.