Torino
Ci sono alcune squadre di calcio che hanno una lunga storia alle spalle, fatta non soltanto di trofei ma di tragedie che accrescono ancora di più la devozione dei loro tifosi.
Negli anni Quaranta il Torino vinse cinque scudetti consecutivi. E nello stesso periodo, dieci giocatori su undici della nazionale militavano nella squadra piemontese. Ma il 4 maggio del 1949, un aereo che riportava a casa i calciatori granata dopo un’amichevole in Portogallo si schiantò sulla Basilica di Superga, che ospita le tombe reali di Casa Savoia. Persero la vita trentuno persone, fra cui tutti i giocatori del “Grande Torino” (tranne un calciatore che non era andato a Lisbona a causa di un infortunio). Tra le vittime ci fu anche un inglese, l’allenatore Leslie Lievesley.
Al funerale, Giorgio Tosatti ricorda una città «sorda e muta, che respira dolore. Non vedrò mai più una folla così numerosa e in silenzio, non vedrò mai più una città soffrire come ha sofferto Torino quel giorno». Fu una perdita molto sentita, e non solo perché erano giocatori formidabili, in grado di battere la grande Roma per 7 a 1. Secondo Franco Ossola, quei giocatori «rappresentavano una serie di valori che il popolo aveva come dimenticato, perso per strada: la dignità, l’onore, la fierezza».
Ora Superga è diventata una meta di pellegrinaggio, un tempio dedicato alla perdita di persone care e al valore della lealtà. Ci sono sciarpe delle squadre di tutta Italia e di tutta Europa, legate intorno alle ringhiere che circondano il sito, ma quelle di gran lunga più numerose sono le sciarpe granata dei fan del Toro. C’è anche un toro di metallo, il simbolo della squadra, ricoperto di adesivi dei gruppi di tifosi. Il muro è costeggiato da fotografie, poster dalle grandi dimensioni che raffigurano le vittime, e un’enorme immagine di gruppo.
La vista dalla cima della collina è mozzafiato. Si vede la confluenza dei due fiumi, il Po e la Dora. Si riescono a scorgere i lunghi viali rettilinei, le bianche curve del campus universitario e i giganteschi capannoni industriali. In città è la Juventus la squadra che vince più trofei ma è il Toro a incarnare il significato profondo dell’essere tifoso. I tifosi del Toro soffrono in modi difficilmente immaginabili. Gigi Meroni, il loro spensierato folletto centrocampista, si muoveva dentro e fuori la trama della difesa come la spoletta di un tessitore. Fu investito da un’auto all’età di 24 anni, nel 1967, mentre attraversava la strada. Le coincidenze fra la tragedia di Superga e quella di Meroni sono sinistre: la basilica di Superga è il luogo di sepoltura dei membri di Casa Savoia e Meroni venne ucciso in Corso Re Umberto. Anche il cognome del pilota dell’aereo schiantatosi diciannove anni prima, nel 1949, era Meroni. L’uomo che investì per sbaglio il giocatore mentre attraversava la strada era un ultrà ante-litteram che aveva partecipato alle furiose proteste contro la cessione del suo eroe alla Juventus. Quarant’anni dopo, quel ragazzo divenne il presidente della società, portandola sull’orlo di una disastrosa bancarotta. Alcuni tifosi del Torino portano ancora le cicatrici di quella tragica scomparsa al punto che, ogni volta che la squadra vince, si recano nel luogo dov’è morto Meroni a rendergli omaggio. C’è una sorta di santuario di bronzo dedicato a lui con una foto appariscente. Sopra l’immagine c’è un campo da calcio inclinato con un’enorme palla nell’angolo.
Quando si pensa ai gruppi di tifosi, è impossibile non fare tappa a Torino e riflettere su cosa significhi avere dei martiri. La loro morte rende sacra la causa sportiva. La tristezza che affligge la squadra riflette il dolore dei singoli, ed è proprio in questo rapporto che risiedono la simmetricità e il senso di appagamento che provocano fare parte di un gruppo di tifosi: non ci si sente mai soli, neanche nel cordoglio. La squadra sfavorita fallisce sul campo da gioco proprio come il tifoso fallisce nella vita. La gloria è sfuggente, ma è esattamente la sua elusività a rendere glorioso anche solo provarci. In un mondo laico, razionale e atomizzato, riunirsi intorno a un unico colore che rappresenta la morte, il colore del sangue del Torino, abbraccia un trascendentalismo quasi folle.
Tutto questo spiega ciò che, agli occhi di chi non è un ultrà, risulterebbe incomprensibile: l’indignazione nei confronti di chi non onora la maglia, o i colori. I giocatori rappresentano qualcosa più grande di loro e comprenderanno quanto è importante la loro missione soltanto ascoltando i propri tifosi e le loro storie. Sacralizzare lo sport eleva i tifosi, e non i giocatori, al rango di alti sacerdoti del calcio. Come fu scritto una volta su uno striscione della Sampdoria: “La Sampdoria è una fede, gli ultrà i suoi profeti”. Un volantino delle brigate rossonere del Milan recitava con orgoglio: “Siamo noi le vere guide morali del Milan”.
Benché possa sembrare scontato, è abbastanza evidente che in Italia il calcio abbia assunto una dimensione religiosa. Il grande cantautore genovese Fabrizio De André disse che essere tifosi «è una sorta di fede laica». Pier Paolo Pasolini affermò invece che fosse «l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo». Lo stadio, come la chiesa, oggi sembra essere il posto più adatto per santificare e ricordare i morti perché, mentre si suppone che la chiesa abbia un carattere universale, le sette istituite dagli ultrà sono profondamente radicate nel territorio. È come se avessero compreso d’istinto che esiste un legame profondo tra un luogo specifico e le relazioni sociali.
Dopo la guerra, la solita frenesia delle partite di calcio continuò a ripercuotersi tra insulti e lanci di pietre, scazzottate e sparatorie. Nel 1950 durante un match tra Salernitana e Genoa i tifosi invasero il campo. Nel febbraio del 1952, il direttore di gara che arbitrò un incontro tra Legnano e Bologna venne picchiato a sangue alla stazione ferroviaria di Milano. A distanza di alcuni mesi, durante una partita tra Milan e Udinese vennero gettati in campo dei seggiolini. Un anno dopo, un arbitro annullò un gol nella partita tra Pro Patria e Sampdoria, e fu bersagliato dai tifosi con delle pietre.
Gli arbitri sono inevitabilmente oggetto di violenze, nonostante siano le uniche persone super partes degli stadi. Ogni anno scoppiavano rivolte furibonde contro le decisioni arbitrali e nel 1955, quando il Brescia vinse fuori casa contro la Salernitana per 1 a 0, un migliaio di tifosi insultarono e minacciarono il direttore di gara. Un rigore assegnato dall’arbitro in un Napoli-Bologna del novembre 1955 sfociò in una «sparatoria tra la folla e la polizia» che ebbe come conseguenza un centinaio di persone ferite e undici ricoverate in ospedale. I disordini finirono sulle pagine dei giornali del Paese, con delle foto di piccole unità di forze dell’ordine a cavallo che fronteggiavano migliaia di tifosi inferociti. A volte le edizioni della domenica pubblicavano immagini che offrivano un’affascinante panoramica degli scontri visti dall’alto.
All’origine dei tumulti c’era un senso di ingiustizia dovuto alle decisioni arbitrali. Le città di provincia che si sentivano ignorate e trascurate esplodevano quando si rendevano conto che un uomo era stato corrotto per penalizzarle ancora di più. La lista di arbitri che hanno accettato mazzette è piuttosto lunga, e molti rivoltosi – che possono sotto alcuni aspetti essere paragonati agli ultrà moderni – sentivano di dover difendere l’onore della propria città contro la corruzione di chi proveniva da fuori.
Molte volte il sospetto che gli arbitri sportivi fossero stati comprati si rivelava fondato. Nel 1955 il Catania fu retrocesso in Serie B perché un direttore di gara di nome Scaramella aveva ricevuto la somma di 5000 lire per aiutare il Catania nella partita in casa contro il Genoa (il risultato fu di 2 a 0). L’episodio di corruzione venne scoperto quando, sul traghetto di ritorno per il continente, un dirigente della squadra diede i soldi all’arbitro ma una delle banconote cadde in acqua e nacque una disputa sul colpevole dell’accaduto. La diatriba attirò l’attenzione della polizia e il Catania ne pagò le conseguenze.
Spesso vennero utilizzati metodi molto più sottili per fare pressioni sugli arbitri. Negli anni Cinquanta, i treni non arrivavano fino all’entroterra cosentino ma si fermavano a Paola, situata sulla costa. Di solito un dirigente della società dava un passaggio in auto all’arbitro, accompagnandolo allo stadio in un viaggio che durava mezz’ora. Che il direttore di gara si guadagnasse o meno il passaggio di ritorno, dipendeva dalle decisioni prese durante la partita. Se il risultato fosse stato favorevole, l’arbitro sarebbe stato accompagnato alla stazione con tutti gli onori che la società poteva permettersi di offrirgli.
Essere scortato fuori dal campo non era certo un incentivo da poco per un arbitro. Mezzochilo, un amico ultrà il cui soprannome ironico faceva riferimento alla sua stazza imponente, mi racconta una storia poco credibile di quando suo nonno era portiere del Cosenza. L’arbitro diede un rigore contro la squadra, che lui riuscì a parare. Poi lo fece battere di nuovo e il portiere lo parò ancora una volta. Quando l’arbitro vide che c’era un’irregolarità, fece ripetere il rigore per la terza volta, e a quel punto il nonno di Mezzochilo si avventò su di lui e gli strappò un pezzo di orecchio con un morso.
Nonostante sia una balla (si sentono parecchie versioni di questa storia a Cosenza), il fatto che persista nella tradizione orale dimostra quanto i tifosi adorino recitare la parte delle vittime di fronte alle autorità e quanto sperino di redimersi (anche solo immaginandolo nella loro mente) attraverso atti di violenza.
Spesso si verificarono incidenti mortali. Nel novembre del 1958 il figlio diciassettenne di Giordano Guarisco, ex giocatore dell’Inter, venne ucciso, calpestato da una folla di tifosi senza biglietto che irruppero nello stadio. Poi, nell’aprile del 1963, durante la giornata delle elezioni politiche per la iv legislatura, la Salernitana affrontava il Potenza nei playoff per la promozione in Serie B. La Salernitana perdeva 0 a 1 (il gol, secondo i tifosi, era in fuorigioco). Quando all’ultimo minuto l’arbitro non assegnò un rigore alla squadra campana, i tifosi scavalcarono la transenna che li separava dal campo. Ciò che accadde subito dopo fu destinato a diventare fin troppo comune negli anni a venire: uno scontro brutale tra la polizia e i tifosi. La maglietta di uno dei sostenitori era diventata rossa a forza di manganellate ricevute dalla polizia, e l’uomo ritornò di corsa sulle gradinate per chiedere aiuto. I tifosi balzarono in avanti, abbattendo la transenna che li separava dal campo da gioco, e vennero esplosi dei colpi d’arma da fuoco. Un tifoso della Salernitana, il quarantottenne Giuseppe Plaitano, era ancora sugli spalti, accanto a suo figlio Umberto. Morì quasi all’istante. La polizia sostenne che non era stato dato l’ordine di aprire il fuoco e che gli spari provenivano semplicemente dalle esplosioni delle bombolette di gas lacrimogeno. L’autopsia, al contrario, dimostrò che Plaitano era stato ucciso da un proiettile calibro 7.65, le cartucce in dotazione delle forze dell’ordine. Quel giorno rimasero ferite sessantasette persone: trentasette civili e ventiquattro addetti alla sicurezza, tre carabinieri e tre vigili del fuoco. Nel 1968, in un almanacco sportivo venne raccontato di uno scontro durante una partita tra Livorno e Monza: «…se andiamo avanti così, gli archeologi del quarto millennio ritroveranno ad Ardenza [un sobborgo di Livorno] le ossa degli arbitri e dei guardalinee».
L’omicidio di Giuseppe Plaitano, così come il colpo sparato ai danni di Augusto Morganti nel 1920, fu opera di un poliziotto dal grilletto facile. Significava che l’odio tra i tifosi e le autorità non era più dovuto soltanto alla corruzione degli arbitri e, da quel momento, si sarebbe concentrato sulla polizia e sui carabinieri. Oggi, uno dei più importanti gruppi ultrà di Salerno si chiama Ultras Plaitano. Durante quel decennio di instabilità sociale e di ribellioni sempre più frequenti, preludio della rivoluzione degli anni Sessanta, c’era uno scetticismo sempre più diffuso nei confronti dei celerini (i poliziotti antisommossa) che provavano a mantenere l’ordine durante le partite a colpi di gas lacrimogeni, manganelli e armi da fuoco.
In quegli anni, diverse società calcistiche contribuirono alla nascita di associazioni per i loro tifosi, chiamandole con il termine inglese “club”. Molte volte queste associazioni venivano create e finanziate dalle stesse società: venivano aiutate a organizzare le trasferte e la compravendita di biglietti e a trovare un bar vuoto da usare come ufficio. È al grande allenatore argentino Helenio Herrera che viene attribuita la paternità di questi club per tifosi (il direttore tecnico voleva avere dei sostenitori che negli anni Sessanta appoggiassero l’Inter durante i match fuori casa) ma in realtà ne erano già stati fondati alcuni negli anni precedenti. Negli anni Trenta la Lazio aveva i suoi Aquilotti, e successivamente il Circolo Biancoceleste, il Torino dal 1951 aveva i Fedelissimi Granata, mentre la Fiorentina contava sul Club Vieusseux e il Club Settebello.
Queste associazioni di tifosi facevano occasionalmente delle concessioni ai giocatori e ai dirigenti della squadra. Carlo Petrini – un ex giocatore di calcio, morto nel 2012 – dopo essersi ritirato svelò nei suoi libri i segreti e il lato più oscuro di questo sport, ricordando come alcuni tifosi erano soliti mettere degli appartamenti a disposizione dei giocatori per stare con le amanti. A volte, le associazioni di tifosi fungevano anche da strumenti di propaganda politica: i gruppi interisti erano organizzati da Franco Servello, membro del comitato dell’Inter e deputato del partito neofascista msi. Di frequente le associazioni delle squadre più importanti avevano a disposizione centinaia di uffici (e centinaia di migliaia di membri) in tutta la penisola, rendendole delle lobby molto potenti a livello politico e finanziario.
A partire dal 1964, il piccolo stadio del Cosenza, l’Emilio Morrone (dedicato all’omonimo portiere morto negli anni Quaranta durante una partita) era stato sostituito da una nuova struttura, il San Vito, a circa un paio di chilometri a est. Il viaggio a piedi verso lo stadio, ogni domenica pomeriggio, si trasformava in una processione. Un tale Giacomo Gigliotti, soprannominato Il Barone, andava a prendere gli orfani da piazza dei Bruzi per accompagnarli alla partita dopo pranzo. Durante il tragitto erano soliti cantare Dove sta Zazà?, una canzone napoletana del 1944 che parlava di un uomo che aveva perduto il suo amore.