19 novembre 1994: Brescia-Roma
Era notte fonda e c’era qualcosa di strano. Alla stazione, tra i tifosi della Roma diretti a nord per la partita a Brescia, c’erano delle facce sconosciute. Tra queste, c’erano tifosi della Lazio come Corrado Ovidi e molte sciarpe erano nere, e non giallorosse. Maurizio Boccacci, un uomo dal viso sottile e le palpebre pesanti, stava impartendo ordini. Era il fondatore del Movimento Politico Occidentale (mpo) e non era tifoso di calcio. L’mpo era stato dichiarato fuorilegge con l’accusa di aver tentato di ricreare il partito fascista.
Molti tifosi della Roma erano membri di un gruppo ultrà chiamato Opposta Fazione, il cui slogan era “meno calcio, più calci”. Il suo leader, soprannominato Rommel, era stato arrestato di recente e condannato a causa di una rapina in banca compiuta insieme al suo complice Kapplerino (diminutivo di un comandante nazista di stanza a Roma durante la seconda guerra mondiale), in cui era rimasta uccisa una guardia giurata.
Anche altri due leader di Opposta Fazione, soprannominati La Rana ed Er Polpetta erano a bordo del treno. Il primo era un consigliere dell’msi, e il secondo un accolito di Boccacci nell’mpo. Era presente anche un uomo robusto di nome Daniele De Santis, insieme a Daniele Betti, un giocatore della Roma Primavera che aveva ricevuto una sospensione per la partita di quel fine settimana e aveva deciso di viaggiare insieme ai tifosi. Alla stazione la polizia di Roma notò qualcosa che non andava e chiamò la questura di Brescia per avvertirli del problema.
Gli uomini caricarono sul treno delle borse contenenti bandiere e striscioni, ma anche asce, coltelli, mortaretti, fumogeni e bombe artigianali. Quella domenica 20 novembre il treno partì alle tre e mezza, arrivando a Brescia verso mezzogiorno. I tifosi vennero fatti salire su dei pullman e scortati allo stadio. Appena scesi dai veicoli iniziarono a gridare slogan fascisti come “Boia chi molla” e attaccarono la polizia.
Per ore ci furono disordini in strada. Il vapore dei fumogeni si mischiava ai gas lacrimogeni delle forze dell’ordine. Vennero lanciate bombe carta. I manganelli si scontravano con le asce. Il vice commissario della città, Giovanni Selmin, fu accoltellato all’addome e trasportato di corsa all’ospedale. Un altro agente venne ferito da un ordigno rudimentale. Vennero lanciati sassi e pali della luce contro i carabinieri.
L’atmosfera all’interno dello stadio era appena più tranquilla. Vennero scagliati fumogeni in campo e sulle gradinate dei tifosi di casa. Saluti fascisti in ogni direzione, braccia tese che formavano una foresta di erezioni piatte. Durante la partita non vennero segnati gol ma nessuno la stava guardando. Durante quelle ore di scontri, il presunto comandante, il fascista Boccacci, si cambiò il giubbotto varie volte per rendere più difficile poterlo identificare.
Ovviamente episodi del genere erano già stati conditi da tafferugli e scontri in passato. Capitava quasi ogni settimana. Ma questa volta era molto diverso: era un feroce attacco pianificato ai danni della polizia, realizzato dai neofascisti provenienti sia dai gruppi tifosi della Lazio che della Roma. Era una dimostrazione di forza, una dichiarazione che da quel momento in poi la curva era territorio dell’estrema destra.
Le indagini che seguirono tentarono di svelare le ragioni dietro all’insurrezione. Gli inquirenti conclusero che era motivata in parte dal fatto che al vecchio patron della Roma ne fosse subentrato un altro. Il vecchio presidente Giuseppe Ciarrapico era un simpatizzante della destra, e aveva regalato agli ultrà dei biglietti dai quali avrebbero ricavato profitti. Il nuovo presidente Franco Sensi ruppe la tradizione, e la rivolta fu probabilmente un tentativo di minaccia per spingerlo a sottomettersi. Ma gli inquirenti credevano che i disordini fossero anche una risposta di Boccacci e i suoi soci, in seguito alla dissoluzione dell’mpo e di un’altra organizzazione equiparabile chiamata Base Autonoma. Era una sorta di punizione contro quello che percepivano come uno Stato repressivo. Furono elaborate anche altre teorie, secondo cui i neofascisti avevano scelto deliberatamente di mettere in scena una dimostrazione di forza di stampo nazionalista nel territorio della secessionista Lega Nord. Altri sostenevano si fosse trattato semplicemente di violenza nichilista.
Qualunque fosse la causa, la violenza di Brescia del 1994 fu una delle prime avvisaglie che il movimento ultrà si stava evolvendo. Tutti i movimenti cambiano o confluiscono in realtà diverse, realtà che hanno una chiara relazione – ma anche una sottile repulsione – nei confronti delle precedenti. Con un movimento frammentario e caotico come quello degli ultrà, fu inevitabile che, decenni dopo la fondazione dei primi gruppi, il fenomeno subisse un’alterazione. Dopotutto, la radice “alter” è etimologicamente cugina della parola “ultrà”. Questa sottile e lenta mutazione era cominciata perché in qualche modo, a partire dal 1994, gli ultrà avevano gradualmente perso la loro raison d’être. Nella società della fine del ventesimo secolo le trasgressioni degli ultrà – l’abuso di sostanze illecite, vestirsi bene e allo stesso tempo male, viaggiare in città lontane – aveva subito un processo di normalizzazione. Non avevi più bisogno del sostegno del branco per viaggiare e trasgredire. Ciò che scrisse Umberto Eco sul carnevale si applicava, allo stesso modo, all’altro contesto carnevalesco, quello della curva: «La comicità del carnevale, il momento di trasgressione, può esistere solo su uno sfondo di indiscutibile osservanza».
Il dilemma di rimanere fuorilegge in un mondo indulgente fu risolto in maniera chiassosa ed eloquente dagli ultrà dell’estrema destra. I «gesti, le azioni e gli slogan» del fascismo erano ancora ufficialmente illegali secondo la legge Mancino del 1993. Questa legge venne applicata di rado ma la sua esistenza convinse gli ultrà neofascisti di essere ora gli unici esclusi, e il disprezzo mostrato da parte della società tradizionale ogni volta che quei gesti venivano fotografati, filmati e pubblicizzati, non faceva altro che rafforzare questa percezione. Solo fra i gruppi fascisti, sostenevano, ci si poteva svincolare dalla borghesia. Mentre il mondo occidentale sembrava entrare in una fase di «fine dell’ideologia», questa nuova generazione di ultrà sarebbe diventata ancora più ideologica. In un periodo di profonda confusione politica, le curve iniziarono a offrire l’opposto: certezza e assolutismo. E se la società tradizionale si stava globalizzando, con popolazioni sempre più miste e una crescente secolarizzazione degli Stati, questi ultrà rappresentavano l’esatto contrario: patriottismo regionale e fedeltà alle loro cause perse.
Giocare con i simboli del nazifascismo era stato, da tempo, un modo usato dai ribelli contrari per indispettire la società – come disse Hunter S. Thompson riguardo al feticismo degli Hells Angels per la svastica – «un espediente per mandare fuori di testa i bigotti». La diffusa sensazione di disgusto da parte dei media ogni volta che determinati gruppi ultrà cantavano inni fascisti o ostentavano il saluto romano si traduceva in una denigrazione e in una pubblicizzazione di quei gesti, ed era esattamente ciò che i fascisti volevano. Molti eloquenti sociologi degli stadi italiani come Giorgio Triani pensavano che quei simboli fascisti fossero più il risultato di una messinscena che di una profonda convinzione ideologica, con il fine di «creare un effetto shock, soggiogare con il potere della paura, evocare scene brutali e cruente». Molti ultrà ragionavano in maniera molto simile: si trattava solo di mandare a quel paese il sistema, nient’altro. Il mondo ultrà, dicono gli apologisti, era sempre stato pieno di bricoleurs, un miscuglio e un abbinamento di simboli provenienti da tutto il pianeta. Non c’era nulla di proibito, dicevano, e non c’era mai stato. Ora c’erano semplicemente ulteriori saluti romani e immagini dell’uomo che chiamavano Mascellone.
Anche gli ultrà di estrema sinistra a volte furono lenti ad arrestare la la deriva fascista. Molti si riferivano alla curva con il nome di “conca”, uno spazio così ospitale da accogliere tutti gli emarginati della società, perfino gli estremisti di destra. Se ogni tanto, una volta al mese, compariva qua e là quello strano e sinistro simbolo, almeno non era un segno dell’intolleranza della curva, ma l’opposto. Molti tardarono ad accorgersi che dalla metà degli anni Novanta il movimento venne deliberatamente monopolizzato da un’estrema destra molto determinata e con nessun interesse nei confronti della tolleranza.
Quell’indifferenza iniziale fu rimpiazzata dalla paura. Alessandro Dal Lago fu uno degli osservatori più perspicaci degli ultrà italiani. Nel 1990 aveva pubblicato un libro chiamato Descrizione di una battaglia, in cui, contro il pensiero comune, suggeriva che la violenza degli ultrà fosse ampiamente ritualizzata, non reale. Ora, però, ammetteva di percepire
gruppi di estrema destra […] che usano gli ultrà come bacino elettorale. Stiamo parlando di un’atmosfera di plumbea, rune, svastiche, saluti romani, belligeranza, striscioni razzisti e via discorrendo che hanno ampiamente marginalizzato sia il ritualismo originale, ma anche ciò che rimane o rimaneva della simbologia di sinistra.
L’errore era stato paragonare l’aspetto rituale con quello superficiale e presumere, con sufficienza, che gli ultrà fossero così ottusi da non sapere veramente ciò che stavano facendo. In realtà, nel loro mondo quasi religioso, l’aspetto rituale era l’opposto di quello superficiale. Era la conseguenza di radici profonde. Chiunque abbia partecipato a delle riunioni ultrà sa che l’iconografia delle curve non è mai involontaria o casuale, ma è il risultato di dibattiti e discussioni feroci. Una parte fondamentale della cerimonia domenicale allo stadio era la rivelazione e la venerazione dei simboli. È così che ha avuto vita il circolo vizioso in cui la segregazione di un gruppo deviante ha generato ulteriore radicalizzazione, stigmatizzazione e isolamento, che a sua volta ha accresciuto i fenomeni di devianza. Il disprezzo della società ha fatto sì che i neofascisti fossero sempre più convinti delle loro idee, aumentando la produzione di graffiti, striscioni e slogan, che non hanno fatto altro che creare ulteriore sdegno e attrarre accoliti, i quali vedevano in quei simboli e in quegli slogan un riflesso delle loro idee politiche.
Per chi credeva nei valori di destra, era come se il mondo degli ultrà avesse l’occasione per esprimere la sua vera natura. Uno degli esponenti della nuova generazione degli ultrà del Torino, Roberto Lospinoso, disse una volta (in un documentario chiamato Ultras, nel bene o nel male): «Il fenomeno in sé è di destra, e anche come idea è di destra». Un ultrà dell’Hellas Verona affermò che «essere un ultrà significa essere di destra, di sicuro fascista. È proprio il gruppo che lo richiede. Siamo fascisti e sugli spalti non c’è posto per i democratici. Le curve sono il posto dove si riconoscono i capi, dove ci sono sergenti, luogotenenti e capitani. Ha un’organizzazione militare e gli ultrà sono dei militari».
Una volta espresso il rifiuto adolescenziale nei confronti degli anziani, questa nuova generazione di estremisti si fregiò del titolo di guardiani del passato, o almeno, la loro versione di passato. I nomi dei gruppi ultrà avevano sempre espresso in maniera eloquente il modo in cui il movimento vedeva se stesso, con nomi come Tradizione o (come nel caso del gruppo della Roma) Tradizione Distinzione. C’erano altre parole chiave che esprimevano la loro affiliazione – “onore” e “lealtà” – e nuovi cori i cui testi descrivevano “braccia tese verso il cielo”. L’abbigliamento paramilitare divenne più comune come il vestirsi in maniera identica: quasi sempre felpe nere col cappuccio o bomber verdi, in parte perché l’omogeneità rendeva più difficile l’identificazione da parte della polizia, ma più che altro dava apparenza militare e una compattezza che doveva incutere timore. Quando per la prima volta nella sua storia l’Italia cominciò a trovarsi testimone dell’immigrazione di massa (prima dall’Albania e dall’Est Europa, poi da tutto il pianeta), un movimento che sembrava basato sul disprezzo per l’altro era allettante per la nuova generazione.
All’estremismo delle curve fu data risonanza perché, dopo l’incrollabile certezza dell’antifascismo della Prima Repubblica, l’Italia si ritrovò alle prese con dibattiti storici risalenti alla seconda guerra mondiale. Il giudizio storico preminente, secondo il quale i partigiani erano moralmente superiori a quegli italiani che erano rimasti fedeli a Mussolini, fu messo in discussione dai revisionisti storici e i politici di destra. L’arresto di un criminale di guerra tedesco fece scaturire un dibattito immediato. Nel 1994 un’emittente televisiva americana rintracciò un ex capitano delle ss che aveva vissuto in Argentina per più di mezzo secolo. Erich Priebke era di stanza a Roma durante la seconda guerra mondiale ed era considerato tra gli ufficiali responsabili di una delle peggiori atrocità avvenute al tempo del conflitto sul suolo italiano: l’esecuzione di 335 italiani nelle Fosse Ardeatine – delle cave poco fuori Roma – il 24 marzo del 1944.
Le esecuzioni avvennero come rappresaglia in seguito a un attacco partigiano contro le truppe tedesche in via Rasella a Roma, in cui avevano perso la vita trentatré soldati tedeschi. Adolf Hitler aveva ordinato che trenta italiani (ridotti poi a dieci) venissero giustiziati per ogni tedesco ucciso. Priebke, in qualità di ufficiale della Gestapo, venne incaricato di selezionare 330 italiani e ne aggiunse altri cinque, sparando personalmente ad almeno due di loro. Fuggì dal campo per prigionieri di guerra a Rimini nel 1946 e con l’aiuto di alcuni preti emigrò in Argentina.
Nel 1995 Priebke venne estradato in Italia e sottoposto a processo per crimini di guerra. Il caso si protrasse per tre anni e la causa del tedesco fu impugnata con entusiasmo da coloro che vedevano in quel processo un’opportunità di riscrivere la storia italiana. Priebke fu descritto da questi revisionisti come un soldato leale, mentre i partigiani italiani come dei terroristi assassini. Molti ultrà che erano stati a Brescia nel 1994 furono in prima linea per quella campagna. A gennaio del 1996 portarono delle targhe commemorative a via Rasella in onore dei soldati tedeschi caduti (“vittime del massacro degli antifascisti e dei partigiani perpetrato da vili assassini”). Nell’aprile del 1996 deturparono i memoriali delle vittime dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. Furono minacciati i partigiani sopravvissuti e i testimoni. Sotto molti aspetti la posizione dei neofascisti era assurda: la loro ideologia aveva distorto l’idea di patriottismo a tal punto che si ritrovarono a difendere un criminale di guerra tedesco e a sminuire la memoria di centinaia di italiani. Ma non furono solo dissidenti ed eccentrici isolati a difendere Priebke. Il suo avvocato difensore, Carlo Taormina, era un politico di spicco del partito di Forza Italia di Berlusconi.
Per tutto il 1995 a Roma si verificarono ripetuti attacchi apparentemente casuali ai danni dei cittadini stranieri – un bengalese nel quartiere di Portonaccio e un russo che indossava la kippah nei giardini di Primavalle – ed episodi sempre più frequenti di graffiti a sfondo antisemita nei cimiteri. Nel 1996, dopo che il Bologna si guadagnò la promozione in Serie A, in città ci furono dei linciaggi anti-immigrati in cui otto nordafricani finirono in ospedale. Uno di loro aveva ricevuto una coltellata a un rene. Era chiaro che il vento della politica soffiava in tutt’altra direzione.
Benché fosse presente durante il match Brescia-Roma, Maurizio Boccacci non era un ultrà, e sarebbe stato assurdo suggerire che l’ascesa dei movimenti di estrema destra fosse unicamente dovuta al fenomeno delle tifoserie organizzate. Eppure molti movimenti politici estremisti – prima Movimento Politico, Meridiano Zero e Base Autonoma, e poi Forza Nuova e CasaPound – trovarono terreno fertile in mezzo agli ossi duri delle curve. Il 25 aprile del 1999, in occasione della Festa della Liberazione, gli ultrà della Roma esposero uno striscione durante un match tra Roma e Parma con su scritto: “25 aprile 1945 – quando i codardi si proclamarono eroi”.
Gli osservatori di sinistra spesso avevano espresso il proprio timore che il calcio, più che la religione, fosse l’oppio domenicale del popolo, e che le due ore di furia contenuta all’interno di una gabbia potessero compromettere l’opportunità di una vera insurrezione o liberazione. Ma molti pensavano che il disprezzo degli intellettuali di sinistra nei confronti delle curve creasse in un certo senso un vuoto che veniva riempito dall’estrema destra. «Se oggi molte curve sono orientate verso l’estrema destra», scrisse Andrea Ferreri, «parte della responsabilità sta nell’indifferenza e nella criminalizzazione che le forze politiche di sinistra hanno espresso nei confronti del mondo degli ultrà». Mentre i partiti di destra avevano visto nelle curve una potenziale base elettorale e un terreno per la loro propaganda, la sinistra si era comportata in maniera stranamente elitaria nei confronti di coloro che sedevano nei posti a buon mercato.