Cosenza, 1987-88

 

 

 

 

 

 

 

Molti ultrà più anziani parlano della fine degli anni Ottanta come gli anni di gloria del movimento. In un’era precedente alle partite trasmesse in televisione e su internet, la folla di persone che andava in trasferta era così numerosa che quelle migrazioni umane che avevano luogo ogni domenica venivano definite oceaniche – lo stesso aggettivo che viene sempre usato in questi casi.

A Cosenza stava nascendo un altro gruppo, la Nuova Guardia. Claudio, il giovane dai capelli ricci che viveva nell’appartamento di fronte a quello di Piero, aveva riunito un gruppo di ragazzi: Pietro, Gianfranco, Roberto, Manolo e Arancino, chiamato così per via della sua stazza rotonda e dei suoi capelli rossi. Il padre di Claudio era morto di cancro e lui, ricorda, non «aveva più freni». La sua furia selvaggia si riversava sugli spalti.

Lo stesso accadeva per tanti di quei giovani. Paride aveva perso entrambi i genitori e a quell’epoca viveva, più o meno, con Luca, a cui era morto il padre, mentre la madre andava spesso a Milano. Luca e Paride iniziarono a stampare una rivista, prima chiamata «Voce Ribelle» poi «Urlo di carta». C’erano molti altri giovani rimasti orfani di padre sugli spalti che all’improvviso si sentivano in lutto e allo stesso tempo liberi, addolorati ma anche energici. Avevano trovato la loro figura paterna in Piero e in Padre Fedele.

La Nuova Guardia aveva assorbito l’idealismo e l’irriverenza della curva cosentina. “In tutte le occasioni rompere i coglioni”, diceva il loro striscione e le loro posizioni politiche erano le stesse dei colleghi della vecchia generazione dei Nuclei Sconvolti: ammiravano la sinistra “autonoma”. Gianfranco era un pugile adolescente che sognava di aprire una palestra per ragazzi problematici «per insegnare a questa società malata a dare a tutti una dignità». Avevano tutti la sensazione che la società in cui erano cresciuti fosse marcia: «L’alto livello di corruzione raggiunto dalle istituzioni della nostra città», ricorda Gianfranco, «ci impone di restituire qualcosa a chi non ha nulla». Claudio immaginava una Nuova Guardia battersi in difesa «dei malati di mente, degli invisibili, dei bambini, degli ultrà, dei ribelli, degli artisti…».

Di pari passo con quell’idealismo c’era la frenesia edonista della vita da ultrà: «Quelle odissee da ubriachi, quando fermavamo i treni, la monotonia della settimana spazzata dal rischio della trasferta». Non si lasciavano mai sopraffare e, ovunque, difendevano l’onore e i colori del Cosenza.

Era un periodo emozionante in cui seguire la squadra, che ora aveva il centrocampista ordinato Donato Bergamini. Originario di Ferrara, era soprannominato Denis. Era di bell’aspetto, con i capelli biondi, gli occhi incavati e uno sguardo determinato. Quando arrivò nel profondo Sud aveva solo ventidue anni, e sotto molti aspetti aveva un’aria molto più innocente rispetto ai suoi compagni di squadra. Il fatto che non sapesse giocare a carte era solo un esempio della sua mancanza di mondanità.

Si descriveva come una persona schiva. Non aveva altri passatempi al di fuori del calcio e delle macchine sportive. Era il tipo di giocatore pulito e diligente apprezzato sia dall’allenatore che dai tifosi.

Era una squadra unita ed efficiente. Alberto Urban era un centravanti con cui Franco Liguori, l’allenatore, aveva collaborato nella Cavese. Il portiere era un giovane di corporatura robusta di nome Luigi Simoni. Il club aveva schierato anche una punta di nome Michele Padovano, carismatico e amante della bella vita. «Padovano, segna per noi», cantavano gli ultrà sulle note della canzone di Bob Marley Buffalo Soldier.

Durante il campionato la porta del Cosenza era rimasta inviolata per ventidue giornate su trentaquattro. Ma non avevano segnato tanti gol. Tra dicembre e gennaio portarono a casa tre pareggi di fila, e poi in primavera ci furono altre quattro partite finite 0 a 0. C’era qualcosa di inevitabile in quella stagione. Già dal primo incontro in cui il Cosenza aveva battuto il Cagliari per 2 a 1 gli ultrà avevano esposto uno striscione che diceva: “Cosenza risorgi per noi”, e tutti ebbero la sensazione che dopo ventitré anni di delusioni, quello sarebbe stato finalmente l’anno della promozione in Serie B.

Verso la fine del campionato, il 17 aprile del 1988, il Cosenza giocava fuori casa con la Salernitana. Per anni, fra gli ultrà rivali di entrambe le città erano scoppiati degli scontri furiosi, e i giocatori del Cosenza vennero scortati in campo dalla polizia. Anche in quest’occasione ci furono delle risse tra le due tifoserie, e gli stessi sportivi giocarono un calcio sporco. I giocatori del Cosenza furono travolti, falciati da dietro e presi a gomitate sul volto. Poi tutto cambiò. Da un calcio di punizione dalla distanza, prima della linea della metà campo del Cosenza, il pallone fece un doppio rimbalzo e all’improvviso Padovano andò in rete. Con un tiro potente di sinistro la infilò alle spalle del portiere. Ci furono altri scontri, persino all’interno della tribuna stampa. L’atmosfera era così tesa che il telecronista del Cosenza Federico Bria, in estasi, dovette sussurrare al microfono della radio: «Il Cosenza ha segnato. Scusate se non urlo ma la situazione qui è un po’ brutta. Voi però potete esultare», disse con il tono di voce più basso che poté. «Padovano ha segnato al venticinquesimo del primo tempo». Il Cosenza mantenne il risultato e vinse per 1 a 0.

Dopo tutti quei pareggi in cui non venne realizzata nessuna rete, il Cosenza vinse sei delle nove partite che rimanevano alla fine del campionato. L’impeto e l’emozione si fecero sempre più grandi ogni volta che vincevano. L’ultima partita in casa della stagione fu contro la Nocerina. Vennero appesi striscioni rossi e blu tra i vicoli del centro storico. Le macchine e i garage furono dipinti con i colori della squadra, insieme ai balconi ricoperti di bandiere degli stessi colori. Le auto circolavano per tutta la città con le casse sul tettuccio, e i clacson suonavano senza sosta. “Forza Lupi”, era scritto sulle sciarpe e sulle lenzuola. Veniva sventolata ogni bandiera che avesse gli stessi colori del Cosenza, come quella della Norvegia o della confederazione degli Stati del Sud.

Durante la partita, la voce dello speaker dello stadio era talmente sovrastata dal chiasso della folla che dovette ripetere le formazioni più e più volte. In quegli anni non esisteva il tunnel che collegava gli spogliatoi e il campo, e quindi le squadre facevano il loro ingresso in mezzo a una densa massa di massaggiatori, riserve e giornalisti sull’erba a bordo campo, come se fossero appena arrivati dal parcheggio. Fumogeni rossi e blu rendevano invisibili metà degli spettatori. “Mai più prigionieri di un sogno”, diceva lo striscione.

La partita fu vinta facilmente per 2 a 0 dal Cosenza. Alberto Urban arrivò a rimorchio e segnò il primo gol e poi Maurizio Lucchetti fece un pallonetto potente da fuori area. Ma non bastava. Gli altri risultati indicavano che la squadra aveva bisogno di ulteriori punti per la promozione in Serie B.

L’ultima partita di campionato si svolse il 5 giugno del 1988 a Monopoli. Ottomila cosentini accorsero ad assistere all’evento. Fu un’invasione rossoblù. Qualcuno aveva aperto i cancelli che consentivano l’ingresso e gli ultrà del Cosenza rubarono gli striscioni, portandone a casa qualcuno ma bruciando tutti gli altri. Il fischio d’iniziò tardava ad arrivare e Padre Fedele dovette prendere l’altoparlante e chiedere alla massa di tifosi di calmarsi. La partita finì in pareggio e il Cosenza venne finalmente promosso.

I tifosi entrarono in campo e abbracciarono i giocatori. Mentre si dirigevano verso le loro macchine e alla stazione del treno, i cosentini in festa dovettero schivare i vasi e i piatti che la gente del posto gli lanciava addosso. Uno di loro salì a bordo del treno con ancora in mano un registratore di cassa che aveva rubato in un negozio. I festeggiamenti continuarono per tutta l’estate. Cosenza, almeno per i suoi standard, era tornata ai tempi d’oro.

 

Paolo “l’armiere” aveva creato un nuovo gruppo dell’Inter chiamato Skins. Il loro amore per la violenza brutale aveva portato gli scontri a nuovi livelli di degrado. Nell’ottobre del 1988 un tifoso dell’Ascoli era stato picchiato a morte una settimana prima del suo matrimonio. Gli Skins furono i primi a rivolgersi ai loro avversari del Milan con insulti a sfondo antisemita, come scritto su uno striscione che recitava: “Milanisti ebrei: stessa razza, stessa fine”. Stava accadendo qualcosa di sinistramente familiare. Quell’odio inebriato ricordò agli osservatori che l’estrema destra non era mai uscita di scena. Negli anni gli sfottò e le provocazioni si erano trasformati in insulti a sfondo apertamente razzista e antisemita.

Ma più i mezzi di informazione gridavano allo scandalo, più pubblicità ricevevano i gruppi. Nel luglio del 1989 l’Udinese era sul punto di acquistare il centrocampista israeliano Ronny Rosenthal dallo Standard Liège. Quell’estate i muri della città vennero imbrattati di vernice spray con slogan antisemiti da parte di vari ultrà: “Rosenthal vai a casa” e “Via gli ebrei dal Friuli”. Non avendo alcuna intenzione di andare contro gli ultrà, il club decise di non comprarlo. (Dopo pochi mesi, avrebbe giocato con il Liverpool segnando una tripletta contro il Charlton Athletic, vincendo il campionato).