Milano, oggi

 

 

 

 

 

 

 

Nel febbraio del 2009 al San Siro si disputò il derby Milan-Inter. Per anni le due squadre milanesi avevano stipulato un trattato di pace e raramente i vari gruppi ultrà facevano ricorso alla violenza, eppure in quell’occasione uno striscione milanista venne appeso sulla parte superiore della curva degli interisti più in basso del dovuto, impedendo la vista della partita ai tifosi avversari che si trovavano proprio lì sotto. O perlomeno questa fu la scusa che trovarono per staccarlo e farlo a brandelli. Danneggiare uno striscione era un affronto al gruppo, e gli ultrà del Milan scesero rapidi dalle gradinate, alcuni avvolgendosi addirittura i grossi orologi intorno alle nocche per usarli a mo’ di tirapugni.

Luca Lucci, conosciuto da tutti come Il Toro, guidava la carica. All’epoca era un giovane di ventidue anni con il viso sottile, il naso a punta e una testa rasata piena di cicatrici. Ma caricava in modo degno del suo soprannome, proteso in avanti e a testa bassa. Si scagliò contro il capo della Banda Bagaj (“bagaj” in dialetto lombardo significa “ragazzi”), Vittorio Motta, che in quel momento stava proteggendo lo stendardo del gruppo. I pugni gli arrivarono alle spalle. Più tardi Motta ne avrebbe descritto uno in particolare con queste parole: «Il pugno era anomalo, un dolore fortissimo. Un dolore tremendo, tolgo la mano e guardo, ci trovo sangue, trovo molte lacrime, una sostanza gelatinosa». Motta aveva perso un occhio. Il Toro venne processato e condannato a pagare un risarcimento, ma tre anni dopo Motta si tolse la vita.

Nel 2018 Lucci era diventato uno dei capi indiscussi della Curva Sud del Milan. Lui e i suoi compagni si riunivano in un club chiamato Al Clan, a Sesto San Giovanni, un quartiere a nord-est della città. La polizia aveva messo una cimice nell’edificio, poiché sospettava che Lucci fosse coinvolto in un giro di spaccio e riuscì a filmarlo all’alba, proprio fuori dal Clan, mentre riceveva una consegna di marijuana e cocaina da una banda albanese che importava droga dalla Spagna. Venne arrestato nel giugno del 2018, si dichiarò colpevole di traffico di stupefacenti, e fu condannato a diciotto mesi con la condizionale.

Che un ultrà fosse coinvolto in giri di spaccio non era un fatto particolarmente insolito. Sotto certi aspetti, non c’era da sorprendersi. I loro convogli percorrevano regolarmente tutta la nazione, ben equipaggiati e praticamente intoccabili. Le retate antidroga erano comuni nel mondo ultrà. Nel 2016 i carabinieri arrestarono Davidino, un ultrà genoano che aveva due garage pieni di stupefacenti: ventisei chili di hashish, otto chili di marijuana, poco più di un chilo di cocaina e sette di ecstasy. La polizia trovò anche 18.000 euro in banconote false, insieme a proiettili, due pistole con i numeri di serie limati e dei silenziatori. Una teoria piuttosto diffusa sosteneva che gli ultrà venissero usati come manovalanza dalla Mafia: era gente che poteva essere utile per piazzare droghe o armi.

Ma c’era qualcosa di diverso nel caso di Luca Lucci, poiché l’apertura delle indagini sul giovane ultrà portò alla luce gli stretti rapporti che diversi politici, dai più noti a quelli semisconosciuti, intrattenevano con il suo mondo. Uno degli uomini che venne arrestato assieme a Lucci si chiamava Massimo Mandelli ed era il capo degli steward volontari di Inter-Milan e candidato di CasaPound alle elezioni locali. Pochi mesi prima dall’arresto di Lucci, durante i festeggiamenti per il cinquantesimo anniversario degli ultrà del Milan, il ministro dell’Interno nonché politico più influente del Paese, il milanista Matteo Salvini, scambiò una calorosa stretta di mano con lui. Salvini – che era anche vicepresidente del Consiglio – dichiarò: «Io, indagato tra gli indagati».

Sembrava fosse più di una reiterazione della classica richiesta d’impunità permeata attraverso il concetto cattolico del «siamo tutti peccatori» («Nessuno è innocente, e dunque siamo tutti ugualmente colpevoli»). Era un siparietto studiato per dimostrare il sostegno di uno dei più alti funzionari dello Stato a un sottobosco che, in tanti modi diversi, incarnava la sua base elettorale e la sua filosofia politica: la difesa dei confini del proprio territorio e il rifiuto aggressivo di chiunque avesse un colore diverso. Nel marzo del 2019 si verificò un episodio simile prima del derby Inter-Milan: i responsabili della sicurezza di San Siro si rifiutarono di accordare il permesso ai Blood & Honour per una coreografia commemorativa nei confronti di Dede, morto nell’agguato agli ultrà napoletani il 26 dicembre del 2018. Per volere di Salvini il ministero dell’Interno respinse questa decisione e il risultato fu che la partita trasmessa da Sky conteneva un enorme omaggio a un gruppo neonazista. Due mesi dopo una casa editrice strettamente connessa a CasaPound, Altaforte Edizioni, pubblicò un’agiografia di Salvini sotto forma di libro intervista con le risposte del politico a cento domande.

 

Nel 2008 il consiglio di amministrazione della Juventus approvò il progetto di un nuovo stadio. I dirigenti avevano precedentemente ottenuto dal comune di Torino per novantanove anni il diritto di superficie sull’area in cui sorgeva il vecchio stadio che avevano condiviso con il Torino, il Delle Alpi. I lavori iniziarono nel 2009.

All’epoca la Juventus stava vivendo, secondo gli elevati standard del club, un brutto momento. La squadra non vinceva lo scudetto dal 2004 e la Champions League dal 1996, ma la dirigenza non agognava soltanto il successo sportivo, sperava anche in un rapporto più pacifico con le sue tifoserie. Il club decise che nel nuovo stadio i vari gruppi ultrà avrebbero dovuto sedersi tutti insieme in Curva Scirea. La Juventus avrebbe dato alle varie tifoserie centinaia di biglietti omaggio per quel settore a condizione che gli ultrà non creassero problemi. Considerati i soldi che gli ultrà facevano, difficilmente avrebbero fatto qualcosa per mandare tutto all’aria. Un capo ultrà – Andrea Puntorno dei Bravi Ragazzi – si vantò in seguitò di aver comprato due case, un’Audi e una pasticceria grazie ai proventi del bagarinaggio.

Per una squadra con un seguito così nutrito come la Juventus il nuovo stadio era insolitamente modesto. C’era spazio soltanto per 41.500 spettatori, quindi la domanda era sempre molto più alta dell’offerta. La moglie di Puntorno ricordava che il marito portava a casa fino a 30.000 euro dopo le partite importanti – vendendo trecento biglietti a cento euro l’uno, un gruppo ultrà poteva guadagnare in un giorno una cifra superiore al reddito medio annuo della maggior parte degli italiani.

Era un curioso quid pro quo. Anche dopo l’inaugurazione del nuovo stadio, nel 2011, lo sviluppo commerciale dell’area limitrofa, una circoscrizione chiamata Continassa, fu impedito da un campo nomadi. Il club aveva in mente di costruire una realtà chiamata J-village, che comprendeva un museo, strutture mediche e di allenamento e così via. La presenza dei nomadi nelle roulotte e nelle tende rappresentava chiaramente un ostacolo. Furono gli ultrà a occuparsi del problema. I Bravi Ragazzi costruirono la storia di un’adolescente italiana stuprata dai nomadi, sfruttando il pretesto per radunare una folla inferocita di qualche decina di uomini e dare fuoco all’accampamento. «Bruciamoli tutti», disse uno dei loro capi. Nessuno si azzardò a suggerire che gli ultrà fossero stati incaricati o incoraggiati dalle alte sfere del club, ma fu palese che le loro azioni – sgomberare letteralmente il campo – risultassero vantaggiose per la superpotenza sportiva.

Sembrava che le varie tifoserie della Juventus avessero stipulato un’inedita pax ultrà. Le organizzazioni mafiose italiane avevano sempre saputo che la guerriglia aperta comprometteva gli affari e l’anonimato, e le varie famiglie criminali ormai interconnesse agli ultrà juventini li incoraggiavano a mettere da parte le faide per salvaguardare gli affari. Alcuni di questi clan ormai investivano ingenti somme di denaro per permettere agli ultrà di acquistare in blocco i biglietti. Gli insegnavano anche a fornire delle scuse convincenti per giustificare questo nuovo flusso di entrate: alcune sale scommesse conniventi avrebbero fornito biglietti della lotteria vincenti ma non avrebbero pagato la vincita. Era un alibi sufficiente a spiegare decine di migliaia di euro in contanti. In una sala scommesse di Cuneo, vicino a casa sua, Ciccio Bucci vinse così tante volte che nel giro di quattro anni risultò aver accumulato oltre 200.000 euro.

Nel 2013 due calabresi parteciparono a una serie di riunioni per ottenere il permesso di fondare il loro gruppo ultrà. Saverio Dominello e suo figlio Rocco erano sospettati di appartenere al clan di Rosarno, coinvolto nelle estorsioni perpetrate nei paesi di provincia tra Milano e Torino. Erano invischiati con i night club, lo spaccio di droga e persino accusati di tentati omicidi. Saverio era un uomo di poche parole e Rocco veniva spesso descritto come “garbato”.

Dalle intercettazioni telefoniche effettuate nella primavera di quell’anno, gli inquirenti si resero conto che la famiglia Dominello aveva in programma di entrare nel giro del bagarinaggio a Torino, e creare un loro gruppo ultrà chiamato i Gobbi (il nomignolo spesso affibbiato ai tifosi della Vecchia Signora). Visto che la territorialità era un fattore importante sia nel mondo ultrà sia in quello dello spaccio di droga, Saverio e Rocco Dominello sapevano di dover stare molto attenti. «Se il piatto è tondo», disse Saverio Dominello in una conversazione registrata, «verrà diviso in cinque». Era una spartizione in vecchio stile: i proventi venivano divisi tra i vari clan.

Pian piano venne sentito il parere delle altre parti interessate. Loris Grancini, leader dei Viking Ultras, concesse il suo benestare e così fecero anche le roccaforti della ’ndrangheta al Sud. L’uomo a capo del nuovo gruppo ultrà, sorvegliato dalla polizia, si vantava al telefono di avere l’appoggio dei clan mafiosi: «Abbiamo le spalle coperte, e tutti i cristiani che contano. Che cazzo vuoi di più?». Mancava soltanto la benedizione di un altro uomo, quello che la polizia chiamava la Primula Rossa del mondo ultrà, Pino Fridd n’Pitt dei Drughi.

Il 20 aprile del 2013 i Dominello e i loro scagnozzi incontrarono Fridd n’Pitt. I Dominello, con ostentata umiltà, arrivarono a bordo di una Fiat 500, e Fridd n’Pitt su una bmw Serie 1. Si incontrarono alla Caffetteria del Portico di Montanaro. La riunione durò quasi due ore. In una delle macchine degli scagnozzi era stata piazzata una cimice, e la polizia li sentì vantarsi dei nascenti Gobbi: «Avete avuto l’onore di sedere al tavolo con Fridd n’Pitt […] nessuno può toccarvi. Siete i numeri uno […] se qualcuno si comporta male potete dettare legge».

L’indomani, il 21 aprile del 2013, in una partita decisiva contro il Milan, il nuovo gruppo annunciò la sua presenza allo stadio con un enorme striscione. Le B di Gobbi erano rovesciate e sembravano un 88, quello che molti neofascisti usavano come in codice per HH, ovvero “Heil Hitler” – essendo la “h” l’ottava lettera dell’alfabeto. La ’Ndrangheta aveva finalmente la sua rappresentanza nello stadio della più grande squadra italiana.

Il garbato Rocco Dominello divenne presto un personaggio straordinariamente influente tra i dirigenti della Juventus e dei diversi gruppi ultrà. Venne presentato a Stefano Merulla, il responsabile della biglietteria della Juventus, e a quanto pare divenne amico intimo del manager della sicurezza, Alessandro D’Angelo. Lo chiamava “Ale”. Nel giugno del 2013 era lui a dargli gli ordini. Quando D’Angelo disse a Dominello che l’assegnazione di biglietti al gruppo rivale dei Vikings era stata ridotta, Dominello disse con arroganza: «Come ti avevo detto di fare». Dominello si vantò con il manager della sicurezza dicendo: «Le persone hanno paura di me». Una volta ricevette persino i suoi biglietti direttamente dal direttore generale e organizzò un incontro faccia a faccia.

La Juventus non fece nulla per arrestare l’ascesa di Dominello. Nel gennaio del 2014 un cittadino svizzero denunciò al club di aver pagato 620 euro per un biglietto che sui canali ufficiali ne costava 140. Controlli interni svolti dalla società dimostrarono che il biglietto era stato fornito a Dominello da D’Angelo. Una settimana dopo la denuncia del tifoso svizzero, D’Angelo risolse la situazione, dicendo a Dominello che avrebbero trovato un modo di dargli i biglietti usando “un altro codice”. Merulla, l’amico di Bucci, cominciava a nutrire sospetti su Dominello: «No so che lavoro faccia, non so che influenza abbia». Sembrava, affermò, un tipo «misteriosamente potente» – che in Italia è spesso sinonimo di mafioso.

Parte del problema era che il manager della security della Juventus non sembrava gestire bene la sicurezza. Il lavoro gli era stato assegnato in parte perché era un amico d’infanzia del presidente Andrea Agnelli (erano cresciuti assieme visto che il padre di D’Angelo lavorava come autista per Umberto Agnelli, il padre di Andrea). Gli inquirenti intercettavano le sue telefonate, e, leggendo le trascrizioni dei discorsi sciatti e volgari di D’Angelo, risulta evidente che stesse facendo poco per prendere le distanze dagli ossi duri fra gli ultrà, e che stesse chiudendo un occhio sui loro affari loschi. In seguito un giudice scrisse che D’Angelo e la Juventus sembravano comportarsi con «soggezione e sottomissione» nei confronti di Rocco Dominello.

Nel corso del 2014 gli ultrà diventarono più minacciosi. Al derby Juventus-Torino, quella primavera, Pino Fridd n’Pitt indisse uno sciopero dei tifosi come dimostrazione di potere ai vertici della società bianconera. Il pretesto per lo sciopero furono le diffide ricevute da vari ultrà dopo gli scontri con i tifosi dell’Atalanta, ma in realtà i Drughi volevano ottenere più biglietti e a prezzi inferiori. Per anni, D’Angelo si era rivolto a Ciccio Bucci come intermediario per sostenere il compromesso tra la Juventus e gli ultrà, ma in quell’occasione chiamò invece Rocco Dominello: «Vorrei che voi [ultrà], e anche noi [Juventus] ci dessimo una calmata, e viaggeremo assieme».

Bucci probabilmente fiutò che la sua influenza stava scemando. Dominello era diventato l’interfaccia principale tra il club e gli ultrà. Alla fine di quella stagione Bucci venne pestato da Pino Fridd n’Pitt. Nessuno conosce il motivo, anche se sembra logico ipotizzare che Pino avesse scoperto che Bucci era un informatore, o che più semplicemente volesse toglierlo di mezzo. Bucci si spaventò così tanto per quel pestaggio che decise di andarsene da Torino e tornare per un anno in Puglia. Perse otto chili e disse all’ex-moglie che stavano provando a “farlo fuori”. Il suo telefono non squillava più e, tornato a San Severo, passava quasi tutto il tempo a occuparsi e litigare con gli anziani genitori. Sembrava stesse perdendo tutto ciò che amava.