2 febbraio 2007: muore Filippo Raciti

 

 

 

 

 

 

 

A Catania ricorreva il fine settimana della festa di Sant’Agata, una delle più grandi celebrazioni cristiane in Europa. Il centro storico era illuminato dalle luci delle candele e i ragazzi più giovani grattavano via dal selciato e dai muri la cera rappresa per ricavarne nuovi esemplari da vendere. I cittadini raffinati mangiavano dolci a notte fonda mentre i sobborghi esplodevano in una girandola di musica e fuochi d’artificio.

Non era di certo il momento migliore per disputare il più grande derby che la Sicilia avesse visto negli ultimi decenni: Catania-Palermo in Serie A. Le celebrazioni in onore a Sant’Agata sarebbero durate tutto il fine settimana quindi la questura aveva programmato l’incontro alle diciotto del venerdì, prima che le processioni religiose entrassero nel vivo.

Osservando i fatti col senno di poi, era una miscela d’ingredienti troppo esplosiva per non finire in tragedia. Giusto una settimana prima, il 27 gennaio 2007, il quarantunenne Ermanno Licursi, un dirigente della Sammartinese, era stato picchiato durante una grossa rissa alla fine di una partita contro la Cancellese. Stramazzò a terra e morì poco dopo negli spogliatoi.

Gli ultrà catanesi stavano godendo di quella che Spampinato definisce: «Un’epoca di massimo splendore: nel corso degli anni abbiamo chiarito il fatto che Catania non era una terra da conquistare, che non sarebbe stata una passeggiata al parco. Se arrivi qui, e io voglio venirti a cercare, sta’ pur sicuro che ti trovo». Tra Palermo e Catania c’erano stati un’infinità di precedenti. Tutti e due i gruppi di tifosi cercavano il “contatto”. Era quello che Spampinato «voleva, studiava, cercava e di cui si nutriva. E che cercava, partita dopo partita». Combattere contro gli ultrà del Palermo, per Spampinato, era «la regola per i rossoazzurri».

Dal punto di vista organizzativo la partita fu un disastro. Per anni parecchi catanesi erano entrati allo stadio strisciando al tornello la tessera della raccolta punti del supermercato. Quando la squadra venne promossa in Serie A i controlli furono intensificati ma molti riuscivano comunque a intrufolarsi senza pagare il biglietto. Alcuni conoscevano gli steward. Era questa una delle lamentele più comuni della polizia: i club erano complici degli ultrà, visto che il succoso contratto sulla sicurezza nello stadio era sempre frutto del compromesso tra gli interessi del presidente della società sportiva e quelli degli ultrà.

E quella stagione volevano andare tutti allo stadio. Non solo perché c’era il derby, e in Serie A per giunta, ma perché il Catania stava giocando bene. All’inizio di febbraio era quarto in classifica, in parte grazie alle prodezze di un attaccante del posto chiamato Giuseppe Mascara, un uomo che segnava dei gol che erano materiale da collezionismo.

Era dai tempi in cui Scoglio aveva scoperto Schillaci che la Sicilia non sfornava un capocannoniere così originale e in grado di far innamorare i tifosi. Ma a differenza di Schillaci, che aveva l’ardore negli occhi e calciava in porta con violenza, Mascara era un giocatore impertinente. La stagione precedente, durante una partita in trasferta contro il Catanzaro, aveva segnato un gol che assomigliava più a un chip di golf. Contro l’Inter, al San Siro, aveva sfogliato la palla con disinvoltura e l’aveva messa in rete con un pallonetto veloce, lasciando il portiere ad agitare le braccia come una mosca intrappolata nella tela di un ragno. Come se ci fosse bisogno di aggiungere pepe all’incontro, Mascara aveva giocato per il Palermo, segnando otto gol in trentaquattro partite.

Palermo e Catania distano 190 chilometri. Agli ultrà palermitani venne assegnata una scorta che li accompagnò dall’altro capo dell’isola, ma alla polizia era stato ordinato di andare piano, perciò le pattuglie non superarono mai i sessanta chilometri orari. Il piano era di far arrivare gli ultrà a partita già iniziata, nella speranza che entrassero allo stadio impazienti di godersi lo spettacolo, scongiurando quindi la possibilità che si mettessero alla ricerca di pretesti per far scattare una rissa. Non fu però una strategia adeguata. Qualsiasi ultrà costretto a perdersi metà dell’incontro arriva allo stadio comprensibilmente infuriato. I soldi spesi, le sere passate a pianificare le coreografie, gli insulti da urlare, i posti in cui scovare i catanesi per dargli una lezione nella loro stessa città… solo per farsi accompagnare allo stadio dalla polizia a metà partita. Quando i palermitani arrivarono allo Stadio Cibali, non vedevano l’ora di distruggere tutto.

La partita era iniziata da un pezzo quando la polizia – stando ai testimoni oculari – sparò un lacrimogeno contro la curva di Spampinato, la Nord. Era l’inizio del secondo tempo, il momento esatto in cui stavano arrivando i palermitani. I tifosi in curva si sparpagliarono come un banco di sardine impaurite mentre gli ultrà più tosti si diressero, come sempre, verso l’uscita. Ben presto c’era così tanto gas lacrimogeno nell’aria, che la partita venne sospesa.

La parte inferiore della Curva Nord del Cibali è uguale a quella di tutti gli altri stadi: si vedono solo il retro delle gradinate di cemento, un immenso piazzale e qualche cabina di vetro. Dalle aiuole di calcestruzzo spunta qualche cespuglio e le pareti dell’edificio sono ricoperte di graffiti contro lo Stato. È lì che tutto ebbe inizio. Centinaia di catanesi armati erano fuori dallo stadio. I palermitani, furiosi per l’ingiustizia subita, erano diventati il nemico. Nel mezzo c’era la polizia, che entrambi gli schieramenti odiavano perchè li teneva separati.

Gli ultrà catanesi correvano avanti e indietro, lanciando pietre che superavano gli scudi trasparenti dei celerini e colpivano i palermitani. Il bagliore dei razzi scagliati dagli ultrà tingeva di arancione le nubi di gas lacrimogeno. La gente afferrava tutto quello che gli capitava a tiro: pietre, coperchi dei cassonetti dell’immondizia, pezzi di asfalto. Antonio Speziale, un ragazzone di un metro e ottanta per oltre cento chili di peso, era entrato nei bagni per sradicare la colonna di sostegno di un lavandino. I veicoli delle forze dell’ordine cominciarono ad arrivare sul posto a sirene spiegate e con luci blu lampeggianti. Era diventato un combattimento su tre fronti.

L’ispettore Filippo Raciti arrivò alle 19.07. Poco dopo Salvatore Lazzaro, l’autista della polizia, vide un bengala rotolare sotto la sua Land Rover Discovery. Fece subito retromarcia. Nella prima testimonianza, dichiarò: «Ho spostato il Discovery di qualche metro e in quel momento ho sentito una botta sull’autovettura e ho visto Raciti, che si trovava alla mia sinistra, portarsi le mani alla testa». Più o meno nello stesso momento, Speziale usciva dal bagno con la base del lavabo.

Alle otto e mezza venne chiamata un’ambulanza per Raciti, che lamentava stordimento e dolori al torace già da un’ora. Non era chiaro cosa lo avesse colpito, se il veicolo in retromarcia o il sanitario impugnato da Speziale. Poteva trattarsi di tutto. La visibilità era più ridotta che in riva al Po d’inverno e nel cielo continuavano a volare oggetti.

Quella sera l’ispettore Raciti morì, dopo aver detto a un collega: «Fagliela pagare a quel bastardo, quello con i capelli un po’ così, robusto, la Questura lo conosce». Raciti aveva dunque lasciato intendere di aver visto chi lo aveva ferito, ma non sapeva il nome del suo aggressore.

Il funerale si tenne lunedì 5 febbraio. Gli ultrà catanesi esposero un grosso striscione che diceva: “La vera Catania è quella che piange per un suo figlio, non quella che lo uccide. Catania siamo noi”. Eppure in privato molti ultrà affermavano l’esatto opposto. Molti ripeterono le parole dette schiettamente da un ultrà in Tifo estremo di Giuseppe Scandurra: «Quello che ho da dire su Catania è poco ma molto chiaro: Ultras 1-Polizia 0. Noi, e siamo in tanti, non ci siamo dimenticati di Carlo [Giuliani, il ragazzo ucciso al G8 di Genova] e di tutte le altre porcherie che ci hanno fatto. Spero sia solo l’inizio. […] Morte alle guardie».

La reazione della polizia fu immediata. Vennero arrestati quindici tifosi, tra i quali quattro minorenni. Uno era attivista dell’organizzazione neofascista Forza Nuova. Un gruppo ultrà, l’anr (Associazione Non Riconosciuta), venne trovato in possesso d’armi. Venne perquisita la casa del custode dello stadio, nella quale furono rinvenute mazze da baseball e una felpa con la scritta “acab” (All Cops Are Bastards). Il custode era così arrabbiato per la loro irruzione che cominciò a urlargli: «Andate via pugno di bastardi e infami, guardie da mille euro al mese, hanno fatto bene a buttarvi le bombe: vi devono uccidere tutti».

Questo atteggiamento di sfida venne ribadito da altri ultrà intervistati in seguito alla morte di Raciti. «Quello che ci frega è dire a tutti quelli che si comportano come se non esistessimo: eccoci qua», disse un tifoso. «Non solo esistiamo ma siamo in grado di spaccarvi il culo come e quando ci pare». Un altro sottolineò quanto ora la polizia fosse diventata, più che una rivale, il nemico intenzionale: «Noi allo stadio vinciamo sempre perché non ci andiamo per vedere la partita, ma per aggredire i poliziotti».

Da questo punto di vista gli ultrà catanesi non erano diversi dalla maggior parte degli altri. In quel periodo, fra i tifosi più risoluti d’Italia, si era diffusa una diffidenza viscerale nei confronti dello Stato e della polizia. L’acronimo acab era diffuso in tutto il Paese, soprattutto nei pressi degli stadi. Gli sbirri erano diventati bersaglio di migliaia di graffiti, e chi di loro scortava i tifosi allo stadio si era ormai abituato a sentirsi strillare in faccia la solita canzone militaresca: «Ma appena arriva in questura, lo sbirro tremare dovrà. La legge non ci fa paura, lo stato non ci fermerà, infatti non ci fermeremo, la vita degli ultrà si sa, conosce soltanto due leggi, violenza e mentalità». Quest’odio per le forze dell’ordine era particolarmente nocivo in un’isola dov’era sempre difficile combattere la regola mafiosa del silenzio antagonista. A molti sembrava che gli ultrà stessero provando a seminare discordia nel fragile rapporto di collaborazione tra popolo e polizia. Nonostante si dichiarassero diversi dal crimine organizzato, gli ultrà sembravano asservirne lo scopo, seminando un odio e un sospetto per la polizia che finivano soltanto per ostacolare la lotta contro la Mafia. Mostravano una sovrapposizione fra tifo organizzato e crimine organizzato.

Le autorità erano impazienti di trovare un responsabile. Avevano visionato tutti i filmati di sorveglianza dei disordini del 2 febbraio notando Antonio Speziale – con la sua felpa della Champion – che usciva dal bagno con il sostegno del lavabo. Quando indagarono sul suo passato, gli sembrò il perfetto capro espiatorio. Era una presenza abituale intorno allo stadio, visto che frequentava un istituto tecnico a meno di cinquanta metri di distanza da lì. Faceva parte di un gruppo chiamato gli Skizzati, e sul braccio destro aveva tatuato un elefante, il simbolo del Catania Calcio. Speziale, che all’epoca aveva diciassette anni, venne arrestato con l’accusa di omicidio involontario.

Non erano soltanto gli ultrà a credere che la polizia avesse preso la persona sbagliata. Non era un maniaco del calcio, ma un giocatore di rugby, e a detta dei suoi amici «tutta ciccia e niente cervello». Aveva un viso enorme e butterato e nel suo gruppo lo prendevano sempre tutti in giro. E per di più, sembrava un po’ un rammollito, col suo lavoro al chiosco di fiori della nonna. Era il tipico sfigato che finiva sulla cattiva strada soltanto perché voleva fare parte del gruppo. Ammise di aver preso parte ai disordini ma sostenne con fermezza di non essere stato lui a uccidere l’ispettore Raciti.

I risultati dell’autopsia furono inconcludenti. Il ris di Parma, con la sua prosa oscura, aveva dichiarato la sua perplessità circa il coinvolgimento del sostegno del lavabo in qualità di arma del delitto: «Pur non potendo esprimersi per una diagnosi definitiva l’ipotesi dell’inidoneità sembra riunire maggiori probabilità». E a peggiorare la posizione dell’accusa contribuì la successiva dichiarazione del ris, che rivelò di aver rinvenuto sul giubbotto antiproiettile di Raciti: «Frammenti di colore azzurro […] costituiti da una resina acrilica modificata con nitrocellulosa e con una forte presenza di biossido di titanio». Era evidente: Raciti poteva essere stato investito, e ucciso, dal Discovery in retromarcia.

Per anni gli ultrà di tutta Italia si aggrapparono a quei «frammenti di colore azzurro» come se fossero la prova della loro generale innocenza e della stupidità della polizia. Anche se Speziale venne giudicato colpevole in tutti e tre i gradi di giudizio, e condannato a otto anni di prigione, lo slogan «Speziale libero» divenne presto famoso, diventando un simbolo degli ultrà e del loro odio per le forze dell’ordine.

Gli ultrà si erano sempre fregiati di cattivo gusto. Essere offensivi faceva parte della loro famosa “mentalità”, e ben presto un nuovo coro – che metteva in musica gli eventi verificatisi allo stadio catanese – cominciò a essere intonato per alimentare il sospetto che Raciti fosse stato ucciso dal suo collega con il Land Rover in retromarcia. «Clamoroso al Cibali», cantavano, «l’hanno investito con il Discovery».