Cosenza, 2007
A gennaio 2007, poco prima del suo quarantaseiesimo compleanno, Piero Romeo fu colpito da un aneurisma cerebrale. La parte sinistra del corpo rimase paralizzata e, nonostante fosse lucido, la persona più sagace della curva era diventata d’improvviso lenta e balbettante.
È incredibile come spesso gli spalti sembrino far emergere personaggi che, in qualche modo insondabile, riflettono i confini e le spaccature di una città. La ferita lasciata dalla malattia di Piero fu profonda, non solo per le sue condizioni di salute, quanto per ciò che rappresentava. Era l’uomo che sembrava racchiudere in sé il meglio della curva, colui che più di chiunque altro aveva vissuto incarnando lo slogan che una volta i cosentini avevano scritto su uno striscione: “La nostra felicità vi seppellirà”. Per lui essere ultrà significava comportarsi da burlone, ma allo stesso tempo dirne quattro a chi deteneva il potere, specialmente alla polizia, e aggirare le regole per farsi una risata con gli amici durante la festa sugli spalti.
E ora che era malato, tutti si mettevano a raccontare storie su di lui. Come quella volta che durante una trasferta a Catanzaro aveva introdotto clandestinamente nello stadio 5.000 palloncini a forma di coniglio. Metà erano rossi e metà gialli. Una volta dentro, gli ultrà si misero a gonfiarli e a sventolarli di fronte all’odiata tifoseria avversaria. Un’altra volta aveva fatto promettere a Soviero, il portiere del Cosenza, di saltare la profonda fossa di cemento che separava la porta e la curva se la squadra fosse stata promossa: c’è una famosa foto del portiere a mezz’aria, che vola tra le braccia di Piero. Persino i giocatori lo amavano, dicevano, e per lui erano disposti a correre rischi assurdi. Faceva sempre qualcosa per far ridere gli altri, come inviare un telegramma a un amico che non rispondeva alle sue chiamate con su scritto: “Vu rispunna a su cazzu’ i telefono?”. Viveva in modo semplice, come un folletto dei boschi, ed esprimeva un’istintiva solidarietà a ogni emarginato. Si infuriava se qualcuno chiamava “barboni” o “mendicanti” i senzatetto ai quali serviva il cibo in mensa, ma ora era diventato lui l’emarginato, l’uomo costretto in un corpo che andava deteriorandosi, e l’intera curva sembrava piangere l’ultrà che non aveva mai voluto esserne il capo.
Prima della malattia di Piero il suo gruppo, il Monk’s Group, aveva cambiato nome in Vino e Gazzosa. La nuova guardia aveva cominciato a farsi chiamare ironicamente bdd quando un giorno la polizia aveva riportato un ragazzino da sua madre, dicendole che lo avevano trovato in mezzo a una «banda di drogati e delinquenti». Quell’insulto non poteva che rimanere impresso nella mente. Nel 2007 le due tifoserie più attive in città erano i Rebel Fans e il Cosenza Vecchia. I loro quartier generali si trovavano all’interno di un edificio occupato chiamato Rialzo, vicino alla stazione dei treni. Era il classico spazio cittadino destinato a diventare ritrovo di senzatetto, ex carcerati, immigrati e ultrà. Era la sede della moschea cittadina e diventò un’apprezzata sala concerti, che aveva ospitato persino gli Skatalites e i Subsonica. «Riprendiamoci la città», era uno degli slogan degli occupanti.
Questi ideali, ovviamente, spesso si scontravano duramente con la realtà. Un altro degli slogan recitava: «Contro l’eroina, l’indifferenza e il lavoro precario», ma in verità molti dei Rebel Fans lottavano contro la dipendenza. Gli occupanti protestavano contro l’illegalità e l’incessante “cementificazione” della città, eppure si ritrovavano a vivere come illegali tra mura di cemento fredde e spoglie. Ma proprio come gli ultrà sovvertivano qualunque preconcetto sul calcio, gli squatter di Cosenza sovvertivano il concetto stesso di illegalità: la squadra di calcio nata dall’esperienza del Rialzo venne battezzata Clandestino United, e quando il frate della città venne diffamato per i suoi presunti reati penali, gli abitanti dell’edificio occupato scrissero sui muri con la bomboletta “Lunga vita a Padre Fedele”. Il significato era simile a «Diffidati sempre presenti», il coro che veniva intonato sugli spalti a ogni partita (le persone di cui la società non si fida, in questi spazi sono sempre le benvenute). Il dispiacere per la paralisi di Piero era lenito dalla consapevolezza che, almeno, la sua rivoluzione sarebbe proseguita.