2014: Lucca-Luhans’k
Ad Andrea Palmeri piaceva definirsi il Generalissimo. Era a capo di un gruppo ultrà di Lucca chiamato Bulldog. Il gruppo attirava elementi da tutti i partiti di estrema destra: CasaPound, Forza Nuova e gli Skins, e scrivevano con le bombolette frasi del tipo: “Hitler per 100 anni”, e “Priebke è un eroe” sui muri delle chiese che fornivano assistenza ai rifugiati. La maggior parte di loro collezionava coltelli, tatuaggi e condanne per aggressione, ed erano più impegnati a combattere i loro rivali politici che gli altri gruppi di tifosi. Nel 2014 Palmeri stava subendo un processo per attività sovversiva, lesioni aggravate, aggressione aggravata e possesso di arma da taglio.
Per Palmeri si profilava un ordine di custodia cautelare, così decise di salire a bordo della sua bmw e guidò per tremila chilometri fino a raggiungere la Repubblica Popolare di Luhans’k, in Ucraina orientale, dove era in contatto con dei russi. Latitante dalla giustizia italiana, Palmeri divenne un mercenario al soldo dei nazionalisti russi e uno strumento di propaganda, pubblicando online foto di se stesso per le sue migliaia di follower su Facebook: il Generalissimo che faceva volontariato in un orfanotrofio e, più di frequente, scatti a petto nudo abbracciato a una bionda o a un fucile. Venne presto raggiunto da altri mercenari neofascisti (o contractors) provenienti dall’Italia: Arcangelo (figlio di un politico della Lega Nord) e Spartaco (che in un’intervista dichiarò che ogni volta che apriva il fuoco su un ucraino, immaginava di sparare a un politico di Bruxelles).
Negli anni seguenti l’ex capo ultrà divenne un ponte importante tra i neofascisti italiani e i nazionalisti russi. Mosca stava usando i gruppi di estrema destra europei per minare il consenso politico e la stabilità del continente. Nel marzo del 2015 gruppi fascisti da tutta Europa vennero invitati a San Pietroburgo per l’International Russian Conservative Forum. Assieme all’ex-leader del British National Party Nick Griffin e a membri della Alba Dorata greca, tra i vari fascisti italiani presenti c’era Roberto Fiore, fondatore di Forza Nuova e amico intimo di Griffin. «Siamo l’avanguardia di un’Europa nuova che presto emergerà», diceva. «Sarà un’Europa cristiana, un’Europa patriottica, e la Russia non solo ne farà parte, ma sarà una forza conduttrice».
Il legame tra i neofascisti italiani e i nazionalisti russi era basato sullo sdegno per la presunta “effeminatezza” e “decadenza” della politica occidentale. Entrambe le parti non gradivano la difesa dei diritti delle donne e degli omosessuali e l’apertura alla multiculturalità. Sedotti dal machismo bianco moscovita, tanti fascisti italiani iniziarono a guardare alla Russia come un baluardo contro quella che consideravano come la dissoluzione dei valori occidentali. Leggevano con avidità le opere del prolifico scrittore fascista Aleksandr Dugin (ex consigliere di vari esponenti del regime di Putin). Era promotore dell’euroasianismo – un nuovo continente che ruotava intorno a Mosca – e attirava gli europei di estrema destra in una organizzazione marginale chiamata Partito Comunitarista Europeo. I fascisti italiani che guardavano a est avevano anche legami con un’organizzazione neonazista chiamata Rusich, ispirata dal panslavismo e dal desiderio di ricreare una versione nazionalistica dell’Unione Sovietica nel ventunesimo secolo.
Che un capo ultrà potesse diventare un militante di questi giochi geopolitici dimostra quanto profondamente fossero cambiati gli ultrà nel giro di un mezzo secolo. È vero che pochi divennero mercenari come il sedicente Generalissimo, ma la sua propaganda dal fronte fu d’ispirazione agli ultrà fascisti rimasti in Italia. Era un capo della curva che, inseguito dalla «giustizia comunista» era scappato all’estero a combattere contro la decadenza dell’Europa, puntando – in senso piuttosto letterale – il fucile contro l’Occidente.
In realtà, sembrava combattere contro demoni immaginari. Come il suo collega Spartaco, che fingeva di sparare ai politici dell’Unione Europea, Andrea Palmeri assimilava i soldati ucraini ai combattenti antinazisti della seconda guerra mondiale. «È una fatica anche acchiapparli, te lo giuro, cazzo si muovono come partigiani proprio», disse a un amico al telefono. Nell’agosto del 2018 venne emesso per Palmeri un mandato di arresto europeo. Visto che rimase nella zona russa dell’Ucraina orientale, il mandato non fece altro che cementare la sua reputazione di coraggioso combattente contro la democrazia liberale tra gli ammiratori ultrà.
A quel punto, la combattività era proprio ciò che agognavano molti italiani. Il Paese stava affrontando una crisi della fiducia senza precedenti. Nel 2015 la disoccupazione giovanile aveva superato il quaranta per cento. C’era un esodo di giovani italiani verso l’estero, che partivano alla ricerca di una società più meritocratica fuori dai confini del Paese. Lo stesso anno l’istituto nazionale di statistica suggerì che almeno cinque milioni di italiani vivessero in condizioni di «povertà assoluta». Il degrado di certi quartieri suggeriva la quasi totale assenza dello Stato italiano.
Le insicurezze della gente erano alimentate da media che concedevano spazio pressoché illimitato a politici ambiziosi che parlavano di un’epidemia criminale causata dall’immigrazione illegale, e proseguivano dichiarando che la sicurezza nazionale non fosse minacciata dalla corruzione o dal crimine organizzato, ma dai rifugiati. La loro argomentazione principale era che una coalizione di pacifisti e “immigrazionisti” avesse deliberatamente inventato il concetto di multiculturalismo, sacrificando nel processo la sovranità e la popolazione (bianca) autoctona.
L’uomo che, in maniera leggermente surreale, era ritenuto responsabile di questo complotto era il filosofo austro-giapponese Richard Nikolaus di Coudenhove-Kalergi. Dopo gli orrori della prima guerra mondiale fu ispirato dal concetto del postnazionalismo, pubblicando nel 1923 Pan-Europa. Da sempre stimato come voce autorevole della cooperazione internazionale, Kalergi divenne la bête noire dei fascisti quando Gerd Honsik, neonazista austriaco e negazionista dell’olocausto, gli attribuì il concepimento del «Piano Kalergi», per eradicare i nativi europei dalle loro terre. In un’epoca di migrazioni di massa, recessione economica e profondo malcontento per il divario tra le persone comuni e quelle che venivano percepite come le “élite” della politica internazionale, la teoria di Honsik sembrava una sorgente d’acqua per un terreno riarso. Venne assorbita e diffusa, e quelli che vi si erano dissetati ne volevano ancora. L’idea che gli immigrati venissero deliberatamente imposti dall’élite europea agli italiani, fin troppo ignorati e impoveriti, era di una semplicità accattivante, e si sposava alla perfezione con il senso di vulnerabilità di molte persone.
Nel frattempo lo scrittore estremista francese Alain de Benoist e la sua filosofia Nouvelle Droite (che respingeva con fermezza la multiculturalità e la globalizzazione) prendevano piede nei circoli di estrema destra. De Benoist venne persino intervistato dalla rivista «American Renaissance» e invitato a parlare al National Policy Institute. Renaud Camus, un altro scrittore francese, pubblicò un libro dal titolo La grande sostituzione, nel quale esponeva l’idea che i nativi europei sarebbero presto stati messi da parte e rimpiazzati dalle ondate di immigrati. Era l’inizio di un movimento “identitario”, nel quale tutte le convinzioni venivano stravolte. L’universalismo era soltanto imperialismo occidentale, che a sua volta provocava globalizzazione e omogeneizzazione. Il vero pluralismo – l’“etnopluralismo” – significava separazione razziale.
Queste idee influenzarono sia Steve Bannon della Breitbart che il leader della Alt-right americana Richard Spencer, ed erano in sintonia con i politici e gli extra-parlamentari italiani di destra.
Adriano Scianca, “l’addetto culturale” di CasaPound, pubblicò un libro dal titolo L’identità sacra. «La cancellazione di un popolo dalla faccia della terra», scriveva, «è di fatto il punto primo nell’agenda dell’oligarchia globale». Sembrava assurdo, ma questo concetto paranoico guadagnò consensi e ben presto la discriminazione razziale divenne la politica di CasaPound. Nel 2014 e nel 2015 CasaPound organizzò raduni di protesta contro i centri di accoglienza. Ogni volta che un edificio sfitto veniva convertito in una di queste strutture, che fosse all’Infernetto, a Casale San Nicola e a Tor Sapienza, i membri di CasaPound stringevano amicizia con la popolazione locale distribuendo pacchi alimentari, facendo riparazioni idrauliche, rimuovendo l’immondizia e offrendo strategie e braccia forti. L’immigrazione, stando a CasaPound, non era una questione di razzismo, ma di legalità ed economia.
Di solito il significato di queste istanze di estremismo veniva minimizzato come gesta di una frangia di fanatici. Ma questa frangia di fanatici stava diventando la norma della politica. Nel febbraio del 2017, un anno prima che il suo partito ottenesse il 17 per cento dei voti, Matteo Salvini parlò a un raduno della Lega, il partito di cui è leader. «In Italia ci vuole una pulizia di massa», urlò al microfono, «via per via, quartiere per quartiere e con le maniere forti se serve, perché ci sono interi pezzi d’Italia fuori controllo». Un anno dopo, durante la sua campagna elettorale di successo per diventare governatore della Lombardia, il politico leghista Attilio Fontana andò a battere sullo stesso tasto: «Dobbiamo decidere se la nostra etnia, la nostra razza bianca, la nostra società devono continuare a esistere o devono essere cancellate».
I politici della Lega a quel punto stavano utilizzando lo stesso discorso “identitario” che aveva portato tanto successo ai partiti fascisti di Forza Nuova e CasaPound. Era dal 2014 che Salvini reinventava se stesso e il suo partito. La Lega Nord era sempre stato un movimento separatista, o federalista, e il suo fondatore Umberto Bossi – sebbene ferocemente xenofobo – era sempre stato antifascista. Salvini, invece, capì in che direzione tirava il vento della politica e dal 2014 al 2015 si mise a corteggiare con insistenza l’estrema destra. Nel 2014 condivise un palco con CasaPound a un raduno anti-immigrazione chiamato No Invasione, e nel febbraio 2015, a piazza del Popolo a Roma, assieme a CasaPound e a una delegazione della Alba Dorata greca, lanciò un movimento chiamato Sovranità. Salvini disse che era in corso un’operazione di sostituzione etnica coordinata dall’Europa. Mauro Antonioni, un attivista di CasaPound, divenne il portavoce di uno degli estremisti più diretti della Lega, Mario Borghezio (l’uomo che aveva detto: «Hitler ha fatto molte grandi cose»). Salvini, ormai era chiaro, aveva puntato tutto sulla carta identitaria. A un altro raduno, allo slogan di «Stop Invasione», proclamò: «È in corso un tentativo di genocidio [del popolo italiano]».
Questo improvviso ribaltamento dei ruoli, con gli europei bianchi dipinti come specie a rischio d’estinzione, era meravigliosamente seducente, perché tutti volevano sentirsi dire di essere vittime. Aiutava a trovare altri colpevoli. Se davvero era in corso un complotto ordito dai poteri forti, eravamo tutti assolti dalle nostre responsabilità, ed è sempre un sollievo. Voleva dire che nulla era colpa nostra perché eravamo noi gli oppressi. La semplicità di questa narrazione cancellava tutte le enormi complessità della vita moderna, rimpiazzandole con una soluzione binaria dove tutto era ridotto a bianco o nero. Però questo seducente argomento nascondeva un brutto inghippo: il bisogno di additare i responsabili e trovare i soliti capri espiatori – inevitabilmente gli americani, i popoli semiti, i musulmani e gli immigrati. Perché se non vogliamo essere annientati, è necessario difendersi e poi liberarsi, ci vogliono squadristi e soldati.
Per i nuovi estremisti, c’era il famoso precedente di quella che veniva definita «pulizia etnica» ai danni dei nazionalisti italiani. Le Foibe sono le doline carsiche delle moderne Slovenia e Croazia nelle quali centinaia di italiani (nessuno ne conosce il numero esatto) furono gettati a morire tra il 1943 e il 1947. Argomento particolarmente controverso, i massacri delle Foibe furono in parte un’operazione condotta dai partigiani jugoslavi (e italiani) contro le forze fasciste, ma furono anche un tentativo da parte dell’esercito di Tito di disfarsi degli italiani in Istria e in Dalmazia, per spianare la strada all’annessione. Centinaia di migliaia di italiani scapparono dalle loro case. Durante la prima repubblica l’argomento era praticamente tabù in Italia, ma quando il governo Berlusconi emanò una legge nel 2004, il 10 febbraio divenne una giornata dedicata alla memoria degli esuli e delle Foibe. Per i fascisti italiani, divenne naturalmente una delle date sacre del loro calendario, un’occasione per commemorare i morti ma anche per convincere gli scettici che l’eradicazione dei patrioti italiani non era una fantasia ma una realtà storica.
Sotto molti aspetti gli ultrà furono il lievito che permise questa rapida crescita dell’impasto di estrema destra, passando frequentemente dagli spalti ai partiti politici. Yari Chiavenato, l’uomo che aveva impiccato un fantoccio nero allo stadio di Verona nel 1996, era diventato uno dei leader di Forza Nuova. Per scherzo aveva parcheggiato delle auto in formazione di svastica, e ora era diventato un candidato elettorale della Lega. Era anche il presidente di Fortezza Europa, un’altra organizzazione di suprematisti bianchi dal nome che riecheggiava il Festung Europa di Hitler. Andrea Arbizzoni, ex-capo ultrà del Monza, faceva parte di un’organizzazione neonazista chiamata Lealtà Azione e venne eletto consigliere comunale. Checco Lattuada, un ultrà della Pro Patria (la squadra della cittadina lombarda di Busto Arsizio) aveva celebrato nel 2007 il compleanno di Hitler nel suo pub. Era diventato consigliere cittadino del Popolo delle Libertà di Berlusconi. (Quando gli ultrà del Pro Patria fischiarono Kevin-Prince Boateng, il calciatore del Ghana che all’epoca giocava per il Milan, Lattuada li difese dicendo che «quasi tutte le curve e le tifoserie organizzate assumono lo stile e la simbologia di estrema destra»). È vero che si trattava di figure politiche minori, ma altri arrivarono in parlamento: Domenico Furgiuele, un ex-ultrà della Sambiase calabrese, e Daniele Belotti, un ultrà dell’Atalanta, vennero entrambi eletti alla Camera dei Deputati come parlamentari della Lega, che ormai aveva cancellato “Nord” dalla sua denominazione. Belotti in un’occasione dichiarò: «Ho sempre fischiato Balotelli», l’attaccante italiano di colore.
Agli albori del movimento, gli ultrà avevano preso in prestito le frasi e gli slogan dell’estremismo politico, ma ora stava accadendo esattamente l’opposto: l’estrema destra italiana stava copiando i distici in rima degli striscioni ultrà. In molti raduni e manifestazioni politiche venivano esibiti striscioni che usavano l’onnipresente font Ultras Liberi, come se imitare gli slogan irriverenti degli spalti fossero il modo più sicuro per farsi pubblicare una foto sui quotidiani o finire al telegiornale della sera. Le sfumature del pensiero erano ritenute minacciose, un segnale di “dandificazione“, mentre più diretto era un messaggio, più era probabile che venisse notato. Questi versi di un rigo – come gli incessanti tweet di Salvini – parlavano direttamente al ventre dell’elettorato. (Anche l’opposizione a Salvini – che si esprimeva su migliaia di lenzuola appese ai balconi – doveva tanto alla tradizione degli striscioni).
Così come i metodi di comunicazione erano assimilabili, anche il messaggio era identico. Il vecchio detto fascista – preso in prestito dai gladiatori e legionari dell’antica Roma – Usque ad finem (fino alla fine) era il grido di battaglia sia degli ultrà che dell’estrema destra. Negli anni Settanta e Ottanta diverse tifoserie avevano scelto il nome Indians, in parte in risposta a un antiamericanismo istintivo, ma anche per rafforzare il concetto di “indigenità”. Ora, nell’epoca del cosiddetto identitarismo, il vanto dell’appartenenza – un valore fondamentale nella mentalità ultrà – veniva facilmente distorto in un messaggio politico anti-immigrazione. Il linguaggio e l’immaginario degli ultrà, che da sempre contrapponeva un “noi” a un invasore esterno, tutto d’un tratto era diventato funzionale ai politici che volevano giocarsi la carta della razza. Quel pronome personale, quel “noi”, aveva alle spalle un lungo, seppur problematico, pedigree politico. “A noi!” era il vecchio motto dannunziano durante l’occupazione di Fiume, e in seguito divenne il grido entusiasta per ogni sorta di politica di espansionismo territoriale, che si trattasse dell’Abissina oppure degli spalti. L’uso fattone da Salvini – “Noi con Salvini” – è stato un astuto escamotage di posizionamento politico, che lo identificava con quel “noi”, e aveva come sottotesto, contro di “loro”. La Lega Nord aveva sempre additato un «loro» contro cui definirsi (il Sud del Paese, in principio), ma ora una combinazione di ambizione politica e la comparsa di un nuovo capro espiatorio costrinsero il partito a eliminare il prefisso “Nord” dal proprio nome. Il partito si trasformò nell’esatto opposto di ciò che era in origine: non era più un movimento secessionista (all’inizio chiedeva la separazione del Nord Italia dal Sud), mentre ora decise di puntare sul patriottismo e sul nazionalismo. Venne coniato un nuovo slogan: “Prima gli italiani”.