Milano, 4 giugno 1989
Molti ultrà della Roma avevano preso il treno notturno. Alle prime fermate si sporgevano dai finestrini per cantare, battere sulle fiancate di metallo e sventolare le bandiere. I vagoni erano pervasi dal fumo delle canne e da grida allegre, da colori giallorossi, dall’azzurro chiaro dei jeans e dai capelli riccioluti anni Ottanta.
Antonio De Falchi amava queste trasferte. Era un ragazzo taciturno di appena diciotto anni e spesso usava i suoi lunghi capelli lisci come una tenda per separarsi dal mondo esterno. Era un ragazzo mite e una volta andò a vedere una partita senza indossare la cintura cosicché la polizia non potesse infastidirlo, e i suoi compagni lo presero in giro perché si teneva su i pantaloni con una mano sola. Era un membro non ufficiale di un gruppo chiamato Impero Continua. L’esuberanza delle giornate in trasferta lo faceva sentire meno timido, come se avere finalmente una banda attorno a lui gli desse il permesso di essere chiassoso.
Il suo essere quieto era, in parte, una conseguenza del lutto. Tre anni prima suo padre si era suicidato e lui non aveva ancora metabolizzato l’accaduto. Quello era un altro motivo per cui amava questo tipo di viaggi: la possibilità di stare a fianco di persone che sembravano così forti e chiassose. Era il più giovane di otto figli, cresciuto in una famiglia di Torre Maura, una periferia a sud-est della capitale appena dentro il raccordo. I suoi tesori più preziosi erano il motorino e la maglietta che il grande difensore della Roma Sebino Nela gli aveva tirato dopo una partita contro il Cremona ad aprile.
Il treno arrivò a Milano alle otto e mezza del mattino seguente. In mezzo ai cori e alle bandiere agitate al vento, Antonio si separò dal gruppo con tre dei suoi compagni. Voleva visitare Milano e comprare delle cartoline. Gli sembrò una città molto efficiente: pulita ma stranamente fredda. Mentre andavano in giro, i ragazzi nascondevano le sciarpe. Ovunque si vedeva il nerazzurro dell’Inter, poiché quell’anno la squadra di Giovanni Trapattoni aveva vinto lo scudetto grazie a grandi giocatori come Lothar Matthäus, Aldo Serena e Walter Zenga. Anche i colori rossoneri del Milan erano in ogni bar e in ogni negozio. Appena undici giorni prima di quella domenica, il Milan aveva vinto per 4 a 0 la finale di Coppa dei Campioni con Carlo Ancelotti a centrocampo e Ruud Gullit e Marco Van Basten che segnarono due gol a testa.
A mezzogiorno Antonio e i suoi amici si incamminarono verso lo stadio per comprare i biglietti. A San Siro si stavano svolgendo i lavori per la costruzione del terzo anello. Il San Siro era un cantiere. Come molti altri stadi, lo stavano ampliando per il Mondiale che si sarebbe svolto in Italia l’anno seguente. I ragazzi erano di fronte al cancello numero 16 quando si avvicinò un uomo che gli chiese una sigaretta. Poi chiese l’ora. Era una vecchia tattica per capire la provenienza di una persona dall’accento. Uno dei tre romanisti cercò di improvvisare un accento milanese ma non funzionò. Il milanista fece un fischio e fece cenno ai suoi amici di accorrere. Era un’imboscata. Antonio e i suoi amici iniziarono a correre, ma un calcio lo colpì sul tallone e il ragazzo cadde a terra. Fu preso a calci e pugni ma la polizia intervenne subito. Antonio cercò di rialzarsi ma cadde di nuovo. Respirava a fatica, finché non smise del tutto. Uno dei poliziotti cercò di rianimarlo ma lui morì sul posto, all’ombra dello stadio. I tre uomini che furono arrestati per l’assassinio di Antonio De Falchi provenivano dal Gruppo Brasato (chiamato così probabilmente per indicare che avevano il cervello cotto dall’alcol; il loro simbolo era una zucca di Halloween che teneva in mano un’ascia e una lattina di birra). Uno dei tre uomini faceva addirittura parte del dipartimento ufficiale di sicurezza del Milan. Al processo, due dei tre furono scagionati mentre il terzo venne condannato a sette anni. De Falchi, disse la difesa, aveva dei problemi cardiaci che impedivano l’ossigenazione del sangue, facendolo apparire cianotico. Un altro crimine senza colpevole.
Per i romanisti, De Falchi divenne un martire, e il suo nome venne scritto sui muri della città come ricordo del suo sacrificio per la causa. Un famoso striscione, diretto ai giocatori della Roma, diceva: “Antonio è morto per quella maglia… onoratela”. Nella stagione 2003-04 venne formato un nuovo gruppo in suo onore, la Brigata De Falchi. Ma per gli avversari, la sua scomparsa divenne il pretesto per un nuovo sfottò. In occasione della partita successiva contro la Roma, gli ultrà del Milan appesero uno striscione con su scritto: “Il vostro arresto è cardiaco”.
Qualche giorno dopo un treno trasportava i tifosi del Bologna a Firenze per il cosiddetto “derby degli Appennini”. Ivan Dell’Olio aveva appena compiuto quattordici anni. Era la sua prima trasferta. Il treno si era fermato alla stazione Rifredi, quando gli ultrà della Fiorentina cominciarono a tirare pietre. Uno degli ultrà lanciò una molotov attraverso il finestrino aperto di un vagone. Le fiamme si propagarono ovunque, innalzandosi dalla pozza di sostanze infiammanti e avvolsero l’intera carrozza. Dell’Olio sopravvisse ma riportò ustioni sul settantacinque percento del corpo. A Genova, Scotto aumentò di mille lire il prezzo del biglietto (che nel 1989 costava circa duemila lire) e inviò il ricavato alla famiglia di Dell’Olio.
Armando, uno dei tifosi del Bologna, disse:
Lì capimmo che era finito il gioco. Era sempre stata una violenza simile alle guerre di cortile, è un gioco con dei ruoli, hai un nemico, gli prendi la sciarpa. [questa] non era più i ragazzi di via Paal ma qualcosa di più grave. Gente che piangeva, gente annichilita, io stesso l’ho vissuto molto male… senti che quell’episodio ti ha ucciso l’innocenza.