Trieste, 8 febbraio 1984
Era la prima partita di coppa, un derby locale tra Triestina e Udinese. Il match finì 0 a 0, e scoppiò una rissa tra tifosi rivali. Dai verbali risultò che varie macchine targate Udine vennero completamente ribaltate, alcune persino con i passeggeri ancora a bordo. Un ragazzo di vent’anni con i capelli ricci e neri e l’occhio sinistro semichiuso stava tornando alla sua auto, una Fiat 128, posteggiata in via dei Macelli. Stefano Furlan era figlio unico. Aveva appena abbandonato la scuola e svolgeva dei lavori saltuari, prima come fiorista e poi in un ospedale. Dei testimoni oculari videro tre poliziotti afferrarlo. Venne preso a pugni e a manganellate e, tenuto per i capelli, i tre agenti gli sbatterono la testa contro un muro. Fu portato in commissariato, dove subì altre percosse. Fu rilasciato alle otto di sera e tornò a casa un’ora dopo.
Sua madre ricorda il momento preciso in cui lo vide arrivare. «Quando ho aperto la porta era stralunato, pallido. La giacca e il piumino erano a pezzi. Aveva le lacrime agli occhi. “Mamma, sono stato picchiato. Un poliziotto mi ha dato una manganellata sulla testa, e poi in questura schiaffi, pugni e calci”».
Aveva la nausea, al punto tale che si mise a letto immediatamente, alle nove e mezza. Il giorno dopo non andò al lavoro perché aveva mal di testa e le vertigini. Nel pomeriggio sua madre era così preoccupata che lo portò in ospedale. Giunto lì, svenne e andò in coma. I dottori scoprirono una frattura all’osso temporale e un ematoma epidurale. Per almeno tre settimane sua madre sedette accanto al suo letto. Stefano non riaprì più gli occhi. A volte sembrava le stringesse la mano ma non era sicura se si trattasse di un riflesso involontario. In seguito a una crisi respiratoria, il ragazzo morì alle dieci e mezza della sera del 1 marzo.
«Stefano», disse sua madre, «era l’unico scopo della mia vita. A parte mia madre, avevo solo lui». Intentò una causa contro il poliziotto che lo aveva pestato, e per questo ricevette delle minacce, una delle quali scritta persino sulla tomba di suo figlio. Le furono offerti dei soldi affinché lasciasse cadere le accuse, ma continuò a combattere anche se l’idea di ottenere giustizia era solo un’illusione. Il poliziotto, dichiarato colpevole, fu condannato a un anno di pena sospesa. Lasciò il corpo di polizia per diventare un body builder e un allenatore di fitness.
Il volto familiare di Stefano Furlan – con i suoi capelli e il suo occhio socchiuso – è diventato l’emblema della denuncia degli ultrà contro la violenza della polizia. Il suo nome viene evocato ogni volta che i tifosi si lamentano che le forze dell’ordine sono violente tanto quanto loro, ma restano impunite. Alla Curva Nord del nuovo stadio della Triestina, il Nereo Rocco, fu dato il nome di Furlan.
In quegli anni, l’odio degli ultrà nei confronti delle forze dell’ordine era diventato più forte rispetto a quello che provavano per i loro avversari. Gli epiteti dispregiativi – i blu, la sbirraglia – erano il segno che nonostante le loro differenze e le ostilità reciproche, gli ultrà trovavano terreno comune quando insultavano la polizia e i carabinieri. Era una battaglia con tre sfidanti, ma il terzo elemento – in uniforme, armato di gas lacrimogeni e manganelli – aveva un ingiusto vantaggio. I tifosi odiavano l’impunità di cui godeva la polizia. La loro legittima rabbia era spesso comprensibile, ma la continua delegittimazione della polizia incoraggiava la sovrapposizione tra crimine organizzato e certi ultrà. L’insistenza tipica dei delinquenti a mantenere l’omertà nei confronti delle istituzioni implicava delle similitudini antropologiche tra dei semplici adolescenti ribelli e dei criminali professionisti. «Quando uno finiva in carcere», ricorda un ultrà della Juventus, «l’omertà era l’unico pensiero».
Più tardi quell’anno, un’altra morte rivelò quanto fosse diventata violenta la rivalità tra squadre. Nel settembre del 1984 Marco Fonghessi, del Cremona, fu ucciso a coltellate da un membro delle Brigate Rossonere del Milan.
I romanisti erano convinti che il 1984 sarebbe stato l’anno in cui avrebbero vinto la Coppa dei Campioni. Avevano Agostino Di Bartolomei, Falcão, Pruzzo… e la finale si sarebbe giocata contro il Liverpool proprio allo Stadio Olimpico. La leggenda narra che dopo la sconfitta per 2 a 0 subita dalla Roma contro il Dundee United in Scozia, alcuni intermediari tentarono di corrompere l’arbitro Michel Vautrot affinché aiutasse la Roma a vincere la partita di ritorno. La Roma batté la squadra scozzese per 3 a 0. (Anni dopo il figlio del presidente della società giallorossa ammise che quelle accuse erano fondate).
Nel maggio del 1984 durante la finale con il Liverpool ci furono dei gravi scontri tra i tifosi della Roma ai botteghini, rendendo necessario l’intervento della polizia. E anche gli scontri sul campo non tardarono ad arrivare. Vennero divelti i sanpietrini dalle strade per poi essere lanciati, e furono usati coltelli e bastoni.
Alessio, romanista che era solito andare in vacanza in Calabria, conobbe Ciccio, Luca e Paride, ai quali vendette alcuni biglietti che gli avanzavano. Il Cosenza e la Roma hanno sempre avuto un legame stretto. Era cominciato tutto con Lello e l’anno precedente i calabresi erano andati a sostenere la Roma contro il Catanzaro, i loro odiati cugini corregionali (la partita fu sospesa a causa di disordini). Fu a Catanzaro che incontrarono Geppo.
Quando i cosentini arrivarono nella capitale, la città era tappezzata di giallo e di rosso. Balconi, serrande dei negozi, statue: su ogni cosa era stata messa una sciarpa, un adesivo, una bandiera. Essere presenti in quel luogo ti dava la sensazione di far parte della Storia. A piazza del Popolo ci furono degli scontri con i sostenitori del Liverpool. Gli Scousers intonarono un coro in favore della Lazio, gli odiati rivali della Roma, e per tutta risposta i romanisti fecero la stessa cosa sostenendo l’Everton, la nemesi del Liverpool. Ci fu una scazzottata, ma i tifosi erano troppo ubriachi di birra per andare oltre le mani, e la polizia fu in grado di separarli con facilità. Ambulanze e camionette sfrecciavano in ogni direzione.
Il fatto che la partita si giocasse contro il Liverpool rendeva l’evento ancora più significativo per gli ultrà. Lo scettro di fanatici era passato dalle mani dei tifosi del Liverpool a quelli della Roma, con Bongi e i suoi compagni che prendevano in prestito canzoni come Yellow Submarine e You’ll Never Walk Alone e When the Saints… quello scettro a sua volta era passato al Cosenza. Così per il diciannovenne Ciccio e la sua banda di sconvolti vedere questi due gruppi di fanatici uno contro l’altro era esilarante. Non ne rimase deluso. Gli inglesi tesero le sciarpe e cantarono You’ll Never Walk Alone, e per tutta risposta i romani mostrarono il loro arsenale: «Ahi, ahi, ahi, ahi, magica Roma, triste è il mio cuore lontano da te» sulle note di Cielito lindo. Poi il solito coro che parlava di innalzare le bandiere al cielo, preso dalla canzone di Gene Autry That Silver-haired Daddy of Mine. Per ore, prima della partita, oltre a una serie di scontri, ebbe luogo una lunga gara canora.
I romanisti erano convinti che non avrebbero perso, men che meno sul campo. Ma la partita finì in un pareggio e si andò ai rigori. Di fronte a una Curva Sud nervosa, il portiere del Liverpool Bruce Grobbelaar fece il suo famoso trucco delle gambe tremanti, fingendo di essere agitato, e due rigoristi della Roma sbagliarono. Mentre i giocatori del Liverpool alzavano la coppa, la Curva Sud rimase in silenzio. Molti non si mossero per più di un’ora, altri piangevano. Lorenzo – che allora aveva solo diciotto anni e ora è un avvocato difensore degli ultrà in tribunale – dice che per un mese intero non riuscì più a formulare una frase.
Quella finale però, fu ugualmente degna di nota per gli episodi avvenuti dopo la partita. Agostino Di Bartolomei era su tutte le furie, e si dice che negli spogliatoi abbia tirato uno scarpino contro Falcão perché il brasiliano non si era fatto avanti per tirare il rigore. Il loro alterco provocò la cessione di Di Bartolomei al Milan. Sempre durante quella partita, riapparvero gli striscioni dei Boys. Diversi giovani teppisti desideravano riportare un po’ di disciplina e di spirito guerriero in Curva Sud. Quella sera vennero accoltellati decine di tifosi del Liverpool, scatenando da parte degli inglesi un clima d’odio nei confronti degli italiani che sarebbe culminato con la strage della finale di Coppa dei Campioni a Heysel.
Ormai era chiaro che il tentativo di trasformare la Curva Sud in una zona apolitica era fallito. Era saltato l’accordo tra i nuovi gruppi e quelli vecchi, con i Guerrillas che confluivano negli Opposta Fazione. Si riunivano in un seminterrato a via Gallia sotto l’egida di un tale che si faceva chiamare Rommel. Non ci volle molto tempo prima che diversi ultrà romanisti cominciassero a intonare il coro che definiva la loro squadra «l’orgoglio della giovinezza romana» sulle note del famoso motivetto fascista Faccetta nera (una canzone del 1935 che parlava di una ragazza etiope di colore salvata in Etiopia dai coloni italiani).
La droga divenne sempre più riconducibile agli ambienti del tifo organizzato. Durante gli anni Settanta la maggioranza degli ultrà amava consumare cannabis. Sugli spalti l’aroma balsamico dell’erba si mescolava al vapore dei fumogeni e delle sigarette. I nomi dei gruppi emergenti non erano ispirati all’appartenenza politica e neanche alle forze paramilitari ma si rifacevano sfacciatamente all’abuso di sostanze. Il chiodo fisso, dicevano, era lo sballo.
In un’autobiografia, scritta da due membri del Gruppo d’Azione della Spal, viene ricordato in maniera dettagliata un aneddoto durante una trasferta in cui «i viaggi erano di solito un delirio di alcol e varie droghe». Sui treni venivano spesso rubati i martelletti rossi che servivano a rompere i finestrini in caso di emergenza, usandoli per compiere rapine ai danni di farmacie, da cui venivano rubati medicinali come: Valium, Darkene, Rohypnol.
Dalla metà degli anni Ottanta sia i ruoli che le droghe cambiarono. Gli spensierati bohémien assunsero un atteggiamento più sinistro e gli ultrà, da consumatori finali, divennero anche spacciatori. Le curve erano una zona franca, il luogo ideale per la vendita di sostanze illecite. Era praticamente impossibile venire arrestati nascosti in mezzo a quella massa umana così ostile. Sugli spalti si aggirava spesso un tizio con un marsupio pieno di roba, che in cambio di soldi dava delle buste di cocaina o erba. È così ancora oggi.
Per molti ultrà l’uso di droghe era diventato un’abitudine, e non solo uno svago a scopo ricreativo. Molti si dedicarono allo spaccio per permettersi di pagare i propri vizi. Nino era uno dei capi dei Vikings dell’Inter. Aveva la faccia tosta e gli incisivi talmente corti che quando sorrideva non potevi fare a meno di notare quanto fossero sproporzionati rispetto ai denti laterali. Ma si vedeva che era un ragazzo di strada: aveva un naso da pugile, una cicatrice corta a zig-zag al lato sinistro della bocca e un’altra sotto lo sterno, come gli se fosse stata incisa una faccia triste sulla pancia. Il simbolo del suo gruppo era il labrys, l’ascia a doppia testa, icona classica dell’estrema destra.
Nino era dipendente dalla cocaina, di cui acquistava grossi carichi per poterla rivendere in strada. La conquista del territorio era parte integrante della vita da ultrà. Lo stesso valeva, come sosteneva Nino, per lo spaccio di droga: dovevi conquistare il tuo spazio e difenderlo fino alla morte. La concorrenza era composta per lo più da immigrati di colore, e secondo Nino questo rendeva la sfida – e la sua maglietta con su scritto “Onore e lealtà” – ancora più interessante.
Una volta dovette conquistare il parco di Baranzate, a nord-ovest di Milano. Andò lì con la moto insieme a un amico ultrà. Senza togliersi il casco, si avvicinò agli spacciatori liberiani, sparò alle gambe a uno di loro e gli disse che l’avrebbe ucciso se l’avesse sorpreso a spacciare di nuovo nel suo territorio. Quella sparatoria aggiunse qualche foglia d’edera al tatuaggio sul braccio sinistro di Nino, ciascuna simbolo di un anno in prigione. Se non altro, in questo modo la gente avrebbe saputo che con lui non si scherzava.
Una delle città più colpite dall’invasione dell’eroina fu Verona. Questa ricca città era situata nei pressi dell’intersezione di due autostrade, l’A4 e l’A22, perciò divenne un crocevia per i traffici di ingenti quantità di droga e fu soprannominata la “Bangkok d’Italia”. Gli ultrà dell’Hellas Verona erano molto simili agli inglesi in quanto ad abuso di alcol. Come racconta uno scrittore, amavano fare «un uso smodato di ogni tipo di alcolico: vino, birra, amari, grappa…». Gli ultrà del Verona adoravano i giocatori della propria squadra perché erano degli irriducibili teppisti. Il loro eroe era Gianfranco Zigoni, calciatore esuberante e spericolato famoso sia per i suoi gol che per i cartellini rossi ricevuti in campo.
Il gruppo principale del Verona erano le Brigate Gialloblù, fondate nel novembre del 1971. Il loro stemma era una scala gialla a tre pioli in mezzo alle due parole che componevano il nome dell’organizzazione (la squadra era chiamata anche gli Scaligeri, dal nome della famiglia Scala che governava Verona durante il periodo medievale). Esistevano anche molti gruppi satelliti: Verona Front, Rude Boys, Provos e naturalmente gli Hellas Alcool. I veronesi, rispetto al resto dei tifosi, erano considerati i più anglofili, in parte perché c’era un London Shop in città ma anche perché il calciatore scozzese Joe Jordan era stato ingaggiato dalla società nella stagione 1983-84. C’era anche un altro gruppo chiamato i Tartan Army. Molti di questi avevano dei nomi inglesi, come i Deadly Sinners Club. La bandiera della Union Jack sventolava durante molte partite dell’Hellas Verona. I Butei – che in dialetto veronese significa “ragazzi” – avevano stipulato un gemellaggio con i famigerati hooligan del Chelsea e seguivano l’usanza inglese di lasciare dei biglietti da visita sui tifosi che avevano picchiato con su scritto: “Complimenti, hai appena conosciuto le brigate gialloblù”. L’asu, o Associazione Stalle Umane, era solita a questa forma di tifo violenta e irriverente. Le loro cerimonie di iniziazione erano brutali, si sfidavano a suon di testate e cantavano: «If you don’t know us, get out of the way, we dirty everywhere» o «We are evils» (“Se non ci conoscete allora fatevi da parte, noi sporchiamo ovunque” o “Noi siamo i cattivi”), utilizzando il più delle volte un inglese marchiano, come se volessero evidenziare la loro mancanza di istruzione o il loro provincialismo.
Sebbene con molta riluttanza, il mondo ultrà provava rispetto nei confronti dei veronesi. Non solo a causa della loro perenne ricerca dello scontro, ma anche perché rispecchiavano in pieno lo spirito goliardico. Alle partite erano soliti portare dei parasole o dei teli da mare, indicando che il match sarebbe stato rilassante come un bagno in spiaggia. Indossavano delle tute gialle e blu, dei completi, o dei caschetti da cantiere di colore giallo. Una volta vinsero contro l’Udinese per 5 a 3 e gettarono in campo delle carote invece delle pietre, cantando: «Buon appetito».
La loro comicità si rifletteva anche nei cori. «Siamo affetti da una mentalità violenta», cantavano. Il calcio era importante ma solitamente passava in secondo piano rispetto agli scontri che potevano avvenire prima o dopo le partite: “Non ce ne frega un cazzo della partita”, recitava uno striscione. Quando era ora di creare disordini, i veronesi si preparavano con una precisione simile a quella di un esercito. Durante una partita contro il Milan, c’era una nebbia così fitta che la visibilità era ridotta a qualche metro, e duemila veronesi furono in grado di avvicinarsi di soppiatto ai milanisti senza fare rumore. Raramente però avevano intenzione di scherzare. Nel 1977 fu lanciata una bomba a mano dal lato del campo riservato alla stampa, e la città di conseguenza fu paragonata più a Beirut (allora lacerata da un’atroce guerra civile) che a Bangkok. Ogni partita del Verona era accompagnata da episodi di guerriglia urbana: negozi devastati, auto ribaltate, tifosi rivali picchiati e incendi.
A volte l’odio era condito con un pizzico d’ironia: “Non essere razzista”, era scritto su un adesivo, “odia tutti”. E di frequente il disprezzo non era rivolto agli stranieri ma anche ai meridionali: “Dal Po in giù, l’Italia non c’è più”. Ma la situazione si faceva ogni anno meno divertente e i più giovani aderivano sempre di più a movimenti estremisti. Le croci celtiche – classico simbolo dell’estrema destra italiana – erano accompagnate da canti inneggianti al nazismo come «Sieg Heil». Uno dei principali gruppi ultrà della metà degli anni Ottanta era il Verona Front (creato da membri della fazione giovanile del msi). Vennero tirate delle banane contro i giocatori di colore e, nel maggio del 1983, apparve una delle prime svastiche sugli striscioni.
Alcuni supponevano che l’uso della svastica in curva non fosse diverso dall’uso che occasionalmente ne facevano i punk inglesi. Quando nel dicembre del 1977 la rivista «Time out» chiese a una ragazza punk perché indossasse degli abiti con la svastica, lei rispose che «ai punk piace essere odiati». Dopotutto, a Verona esisteva un gruppo chiamato Punk Brigade. Un osservatore magnanimo avrebbe sperato che in fondo, in quell’orribile gesto della curva, si nascondesse tanto un sentimento di odio verso se stessi quanto verso gli altri.
Ma l’orientamento degli scaligeri verso ideologie di estrema destra era più che evidente. Verona era una città rimasta fedele a Mussolini. Durante la seconda guerra mondiale era diventata la base del comando generale della Gestapo e da anni era il luogo da cui avevano origine gruppi estremisti dell’era postbellica, come Rosa dei Venti, Fronte Nazionale e Ludwig (dietro questo nome operavano due serial killer d’ispirazione nazista, Marco Furlan e Wolfgang Abel, che si presume abbiano ucciso più di venti persone. «La nostra fede è nazismo», dissero una volta, «la nostra giustizia è morte»).
Lo stadio Bentegodi stava diventando un luogo sempre più sinistro. Persino uno dei cronisti che più ammirava la curva scrisse che «con deplorevole cinismo venivano presi di mira i giocatori e gli allenatori colpiti da sfortune e addirittura da tragedie personali; quelli che si separavano dalle mogli o che avevano difetti fisici. Con l’arrivo nel campionato italiano dei primi giocatori stranieri di colore, l’accanimento si fece maggiore, e il cattivo gusto pure». Spesso i veronesi ridevano dell’indignazione suscitata dalle loro iconografie naziste. Come molti ultrà si dilettavano nel provocare e nel creare scandalo, e sapevano che la svastica era il simbolo ideale a quel fine. Ma per alcuni di loro rappresentava una sincera affiliazione politica, che si stava diffondendo in molte curve. Erano finiti i giorni in cui i gruppi ultrà appoggiavano idee di sinistra. Dalla metà degli anni Ottanta sembrava più estremo e radicale – perenne ossessione degli ultrà – allinearsi con partiti di estrema destra.
Ma nel 1985 nessuno si curò più di tanto di qualche imbecille che mostrava simboli nazisti sugli spalti del Verona, perché nel calcio era avvenuto un altro miracolo. L’11 maggio l’Hellas Verona aveva vinto il campionato di Serie A. Era una di quelle rare occasioni in cui una squadra sfavorita, oltre ad arrivare al vertice della classifica, aveva portato del folklore allo sport nazionale. Il simbolo della squadra veronese di allora era il giocatore danese Preben Elkjær Larsen. Di tutti i suoi soprannomi – Il Sindaco, Cavallo Pazzo, Bufalo – quello che rimase più impresso fu Cenerentolo, che ricordava il gol contro la Juventus, segnato dopo aver corso per tutta la metà campo con un solo scarpino.
In quel mese, tuttavia, il calcio mostrò il suo lato più oscuro. Cinquantasei persone persero la vita in un incendio allo stadio Valley Parade a Bradford City. Settimane dopo, durante la finale di coppa dei campioni tra Liverpool e Juventus a Heysel, in Belgio, morirono trentanove tifosi, di cui trentaquattro italiani. In un assalto da parte degli hooligan del Liverpool, i tifosi juventini furono costretti a fuggire in maniera precipitosa, creando un ammasso di persone così numeroso da far collassare un muro dello stadio. In un atto di devozione, o semplicemente per pragmatismo, molti cadaveri vennero coperti e portati via, avvolti nelle bandiere della Juventus. «Fu un’onta che, secondo l’etica ultrà, andava lavata con il sangue», scrisse un tifoso juventino.
Beppe Rossi, il capo dei Fighter, non fu più lo stesso dopo la tragedia dell’Heysel. Tutta la sua carriera sugli spalti era fondata sull’ammirazione nei confronti dei tifosi inglesi, specialmente quelli del Liverpool. Ma dopo aver scatenato l’ondata di panico che aveva causato la morte di così tanti tifosi, erano di colpo divenuti i responsabili del massacro dei suoi fratelli. Molti ultrà della Juventus furono divorati dai sensi di colpa per essere stati lontani dagli scontri (avevano prenotato dei posti dall’altro lato dello stadio per far sentire di più la loro presenza) e non furono in grado di difendere i simpatizzanti nel famigerato settore Z.
Rossi, come molti altri, cominciò ad alleviare le sue pene facendo uso di eroina. Ma la tragedia dell’Heysel rappresentò anche un’occasione in cui l’etica degli ultrà appariva di gran lunga più nobile rispetto a quella dei calciatori. L’idea di continuare a giocare immediatamente dopo aver subito perdite così gravi era inconcepibile per i tifosi. Alcuni di loro avevano parlato con i giocatori, ed erano addirittura entrati negli spogliatoi per spiegare con esattezza ciò che era appena successo, ma lo spettacolo continuò. I festeggiamenti dei giocatori della Juventus in seguito alla vittoria irritarono ancora di più i tifosi. Quella tragica notte in Belgio segnò l’inizio di una frattura insanabile tra i giocatori e gli ultrà, e non solo della Juventus, ma di tutto il Paese: i calciatori non erano più visti come degli eroi o come i degni rappresentanti dei loro tifosi, e se quel ruolo fondamentale – rappresentare eroicamente il popolo – non gli apparteneva più, ora veniva rivendicato dagli ultrà.
Una delle meste ma comprensibili conseguenze degli eventi dell’Heysel fu il ritorno dell’odio contro gli inglesi, in voga durante l’epoca fascista. Un vecchio motto di Mussolini – «Dio stramaledica gli inglesi» – veniva ora ripetuto incessantemente ed era diventato il peggiore degli insulti. La tragedia era una scusa per insultare gli juventini («Meno trentanove», veniva comunemente ripetuto nei cori) ma era anche un pretesto per italianizzare il tifo. Per quanto riguardava la Juventus – la squadra più gettonata d’Italia – l’Heysel chiuse le porte al tifo cosmopolita, con il risultato che il tricolore, insieme all’estrema destra, assunsero una posizione di primo piano sia all’interno dei gruppi juventini che sugli spalti di gran parte del Paese.
Ma il graduale allineamento all’ideologia fascista avveniva anche grazie all’emergere di nuovi gruppi in seno alla stessa curva. Se un gruppo principale aveva affermato il proprio dominio sugli spalti negli anni Settanta, nel decennio successivo ne sarebbe nato un altro rivale. A Torino emerse un gruppo che si faceva chiamare Granata Korps. (Il nome Korps – unità dell’esercito tedesco spesso associata, secondo gli ultrà, agli Afrika Korps di Rommel – non lasciava dubbi circa l’affiliazione politica). Nel 1982 nacquero i Mods del Bologna, formati in gran parte dai dissidenti dei Forever Ultras. Questi gruppi ebbero origine per motivi diversi – diatribe personali, idee differenti sul significato della parola ultrà – ma molte delle organizzazioni principali degli anni Ottanta nacquero in opposizione a quel sistema di valori di sinistra tanto in voga durante il decennio precedente.