Drughi e Irriducibili, 1987
I gruppi ultrà assomigliavano stranamente ai partiti politici italiani: si dividevano di continuo, si riformavano, trovavano nuovi capi e nuovi nomi. A Bologna c’erano ora i Forever Ultras ma anche i Mods e i Total Chaos. I Forever Ultras della Fiorentina si erano sciolti e adesso gli altri si contendevano il ruolo di leader: Giovani della Fiesole, L’Alcool Campi e il Collettivo. In mezzo a questi gruppi e al loro interno ne esistevano altre decine, che si frammentavano, litigavano, si rappacificavano e si riunivano (una volta ho contato trentadue gruppi diversi che sottoscrivevano una comunicazione dall’organizzazione madre Brescia 1911).
I motivi delle separazioni erano molteplici. Uno di questi era la tendenza italiana allo scissionismo e un altro era la natura stessa degli ultrà, che non accettano compromessi. Se la tua filosofia non è incline alla conciliazione, i disaccordi interni sono inevitabili. «Dovevi sempre litigare con qualcuno», ricorda uno dei capi degli anni Ottanta. Proprio perché si riconoscevano nella parola “scontro”, i capi ultrà erano per natura scontrosi. Il loro stile di vita era basato sull’essere contro e oltre qualsiasi cosa. Perciò, dopo aver trascorso una decina d’anni in prima linea, non c’era da sorprendersi che i fondatori dei gruppi agissero in maniera più cauta. Ormai erano quasi tutti trentenni, e alcuni avevano messo su famiglia, altri invece erano sprofondati nel tunnel della droga o finiti in carcere. Sotto l’incessante pressione da parte della polizia (che ormai usava elicotteri, telecamere a circuito chiuso, servizi di intelligence e informatori), molti decisero di ritirarsi parzialmente dalle scene, spesso creando nel tempo i propri gruppi chiamati Vecchia Guardia.
Dalla metà fino alla fine degli anni Ottanta una nuova generazione di giovani radicali lottava contro i propri compagni ormai in pensione per il controllo della parte centrale della curva. La battaglia per il dominio non era soltanto frutto del contrasto tra personalità. Spesso i gruppi rivali avevano posizioni politiche differenti, ma il conflitto riguardava anche i soldi. Molte organizzazioni contavano più di un migliaio di iscritti. Il controllo delle curve implicava anche estendere la propria influenza in determinati quartieri. Significava avere il monopolio nel campo della compravendita di biglietti, dei gadget e, in alcuni casi, anche dei narcotici. Ormai le società davano una mano ai tifosi con i biglietti, i trasporti e lo stoccaggio dei materiali. Tuttavia molti videro in questo sistema un’ottima occasione per fare affari, e durante il boom economico degli anni Ottanta il pubblico disponeva di liquidità in abbondanza per acquistare biglietti dal prezzo esorbitante dai bagarini, o droghe d’importazione.
Un insegnante di Roma ricorda quando chiese ai propri alunni che lavoro facessero i genitori, e uno di loro rispose: «Mio padre fa l’ultrà». Per gli esponenti di alto rango era divenuta una professione. Un tale che si occupava di organizzare conferenze tra tifosi alla fine degli anni Ottanta rimase sbalordito nel notare che tutti i capi ultrà avevano dei telefoni cellulari (una rarità assoluta a quel tempo), che squillavano in continuazione. Quei teppisti erano diventati dei faccendieri di riferimento.
Ogni tipo di attività marginale era associata con il dominio nelle curve: le concessioni per la vendita di panini e sciarpe e i parcheggiatori al di fuori dello stadio costituivano una parte del giro di affari degli ultrà, che erano diventati degli esperti a esercitare pressioni sulle società calcistiche. Il prezzo dei biglietti aumentava gradualmente, e gli ultrà si resero conto che uno sciopero dei tifosi poteva comportare milioni di lire di mancati introiti per il club. Per gente abituata a provocare scontri così facilmente, trovare un pretesto per una manifestazione era un gioco da ragazzi. Non di rado venivano organizzati disordini nei centri urbani, e non sarebbe stato difficile danneggiare le auto o le attività legate ai dirigenti della squadra.
I rappresentanti delle curve della Juventus e della Lazio furono i pionieri di questa commercializzazione. Dal 1987, dieci anni dopo la loro formazione, i Fighters erano in declino. Beppe Rossi stava lottando contro la sua dipendenza da droghe e il suo gruppo era stato coinvolto in dei violenti scontri con i tifosi della Fiorentina, e infine decise di sciogliersi.
Poi, il 27 settembre del 1987, durante una partita tra Juventus e Pescara, apparve un nuovo striscione. Scritto con lettere bianche su sfondo nero, diceva “Arancia Meccanica”. La polizia si oppose perché pensava ci fosse un’implicazione con la violenza e tentò di sequestrarlo. Ma in occasione della partita successiva gli ultrà tagliarono la scritta, ci cucirono sopra delle cerniere e si riempirono i pantaloni con le lettere, riuscendo a far passare lo striscione all’interno dello stadio. Una volta dentro, dovettero solo riassemblarlo.
Per evitare seccature decisero di chiamarsi Droogs, i personaggi che andavano in giro a violentare e uccidere, tratti dal romanzo di Anthony Burgess. Ma dopo la tragedia dell’Heysel, anche quella parola inventata aveva un suono troppo inglese per i tifosi juventini, così lo trasformarono in Drughi. Il loro simbolo era un cerchio tricolore che conteneva le sagome di quattro bruti con la bombetta e i bastoni. Il capo dei Drughi, che aveva insistito per italianizzare il nome del gruppo, era l’ultrà di Foggia, Pino Fridd’n Pitt.
Alla Lazio accadde qualcosa di simile. Gli anni Ottanta erano stati un periodo cupo per la squadra, che era retrocessa in Serie B in seguito allo scandalo sulle scommesse. Il loro beniamino Giorgio Chinaglia era tornato dall’America – dove aveva giocato con Pelé e Franz Beckenbauer per il Cosmos di New York – per diventare presidente della società sportiva laziale, piena di promesse e speranze per il recente ritorno in serie A. La sua gestione trascinò la squadra in un caos imbarazzante ed evitò la retrocessione solo all’ultima giornata contro il Pisa. Giorgio Chinaglia se ne tornò negli Stati Uniti.
Mentre la Roma aveva vinto lo scudetto ed era arrivata in finale di Coppa dei Campioni, la Lazio aveva giocato contro squadre provinciali. Era una squadra che secondo il tifoso e scrittore Maurizio Martucci sembrava «triste e maledetta». Ogni ultrà sapeva che i fallimenti sportivi si ripercuotevano sull’umore degli spalti: la retrocessione e gli insuccessi allontanano i tifosi occasionali e opportunisti, e solo uno sparuto gruppo di fedelissimi rimaneva.
Allora erano presenti decine di gruppi ultrà nella curva della Lazio: Falange, Hell’s Eagles Destroyers, Eagles Korps, Gruppo Sconvolti e Eagles Girls. Sia gli Eagles che i Vikings erano organizzazioni di chiara ispirazione neofascista. Uno dei loro simboli era l’ascia a doppia testa, insieme al motto mussoliniano “molti nemici, molto onore”.
Grinta era un ragazzo dalla bassa statura e un fumatore incallito che possedeva una tipografia. Guardava con sospetto quel mondo agiato in cui erano cresciuti gli Eagles: uomini di mezza età che sedevano in prima classe sui pullman durante le trasferte. Aveva stretto amicizia con la moltitudine di adolescenti scavezzacollo, considerati come i fanalini di coda, e voleva riunirli per creare qualcosa di diverso: un gruppo militarizzato che potesse marciare insieme allo stadio, indossando gli stessi vestiti. Toffolo, uno di questi ragazzi della cerchia di Grinta, ricorda anni dopo: «Ritenevamo sorpassata una loro [degli Eagles] certa mentalità. Ci consideravamo più ultrà, più propensi ad attaccare se attaccati».
Il gruppo annunciò la propria formazione il 18 ottobre del 1987, durante una partita tra Lazio e Padova, con uno striscione di quasi dieci metri circondato da una tavola a scacchi biancoceleste. Gli Irriducibili non erano come le altre congreghe di tifosi. Spesso facevano degli scherzi idioti. Andarono a Bologna vestiti con le maschere da Zorro perché era carnevale, o portavano degli enormi occhiali in curva, che lasciarono sbigottiti gli spettatori finché non fu esposto uno striscione con scritto: “Vedo solo bianco e azzurro”.
Intervistato da Gianremo Armeni per il mensile «Limes», Toffolo – in seguito diventato uno dei leader – raccontò in maniera abbastanza schietta come il gruppo aveva tirato avanti fino a quel momento. «Partivamo da Roma senza cento lire in tasca perché proprio non le avevamo, e così a volte mi sono macchiato anche di qualche furtarello per trovare i soldi». Se durante il viaggio passava il controllore «si metteva paura e se ne andava. Allo stadio provavamo a scavalcare o comunque un modo per entrare lo trovavamo sempre. Per mangiare non c’era nessun problema perché assaltavamo autogrill o qualche bar».
Come la maggior parte delle bande, incutevano timore non solo ai loro nemici, ma anche a coloro che volevano diventare membri. Gli aspiranti Irriducibili venivano sottoposti allo stesso tipo di iniziazioni a cui li avrebbero costretti molte organizzazioni criminali. Viaggiavano tutti nello stesso vagone del treno e serviva una certa dose di coraggio per entrarvi. Toglievano le scarpe alla matricola e le gettavano fuori dal finestrino mentre l’aspirante recluta veniva costretto a intonare i cori più famosi. Se sbagliava le parole, lo picchiavano. Oppure la banda gridava «porte e luci»: si spegneva tutto e gli Irriducibili si accalcavano addosso all’aspirante, pestandolo e prendendolo a calci. Solo i più duri, quelli che si sapevano difendere e dimostravano il loro coraggio, erano accolti nel gruppo. E una volta dentro, si instaurava un rapporto di amicizia e si andava tutti insieme a rompere le vetrine di qualche negozio di scarpe per rubare un paio di stivali nuovi.
Molte bande di ultrà avevano delle cerimonie di iniziazione simili. Il grado di umiliazione che eri disposto ad accettare dimostrava la tua volontà di unirti alla cricca. Questo passaggio creava solidarietà perché diventare membri attraverso lo sforzo, il dolore e il sangue veniva ricompensato in misura maggiore rispetto a qualcosa per cui non si era combattuto. L’umiliazione garantiva asservimento, umiltà e lealtà, perché faceva capire alla recluta che – fuori dalla cerchia del gruppo – non era nessuno. E la lealtà era la caratteristica più apprezzata. Era la prima regola della strada. Yuri fu uno dei primi capi degli Irriducibili:
Per prima cosa [la nuova recluta] non avrebbe mai dovuto abbandonarci […] Partivamo muniti di manici di piccone o palle da biliardo. Eravamo quei venti-trenta che ci ripetevamo “stiamo compatti e uniti che mo’ succede quel che deve succede’”. Sapevo che una volta sceso dal treno ti attendeva una battaglia e che dovevi dimostrare di non avere paura.
L’esuberanza degli Irriducibili era a tratti comica. Per protestare contro la polizia che li scortava allo stadio, iniziavano a correre a comando o si fermavano tutti insieme al semaforo rosso. Giocando sulla frase secondo cui gli ultrà erano il dodicesimo uomo in campo (e molte squadre in segno di rispetto avevano tolto il numero dodici dalle magliette) gli Irriducibili avevano esposto uno striscione che recitava: “Mister, facce entra’”. Si prendevano gioco dei tifosi della Roma usando una frase in dialetto per rivendicare la propria romanità a dispetto dei loro rivali: «Da dove sei sortito, dar bagajo de quarche salumaio?». Cantavano le parole «Ir-ri-du-ci-bi-li» sulle note di God Save the Queen.
Come i Drughi della Juventus, gli Irriducibili avevano come simbolo un uomo con la bombetta, questa volta ritratto mentre dava un calcio e teneva in mano una bandiera. Chiamarono quel personaggio – preso da uno dei disegni del fratello di Grinta – Mr. Enrich (per dargli un tocco cosmopolita, Grinta fingeva che fosse ispirato a un fumetto inglese).
Quando un giornale li accusò di essere dei «cani randagi», la domenica successiva replicarono: «Non siamo cani perché non abbiamo padroni. Non siamo randagi perché gli Irriducibili ci uniscono».
Quel senso di unità si rifletteva anche nel vestiario. Grinta e i suoi ragazzi indossavano gli stessi abiti. Per cominciare, era un abbigliamento casual: cappellini da baseball, magliette Fred Perry, scarpe Reebok e via discorrendo. Ma presto iniziarono a preferire anfibi, jeans stretti e bomber verdi. Uno dei loro striscioni diceva “Blouson noires” (“camicie nere”). Di frequente gli Irriducibili marciavano con il braccio destro teso, cantando Avanti Ragazzi di Buda, una canzone anti comunista sulla rivoluzione ungherese del 1956.
Il gruppo si riuniva ogni giovedì sera nel loro quartier generale a via Ozanam o a piazza Ottavilla, a Roma ovest. Quelle riunioni erano incentrate sulla preparazione delle coreografie, sugli scontri e sui cori, e anche sulla moda. Gli Irriducibili avevano cominciato a guadagnare una discreta somma di denaro vendendo sciarpe, bandiere e magliette in tutta la capitale. Per Grinta, era un modo semplice per finanziare le loro uscite stravaganti ma il gruppo aveva attirato l’attenzione di qualche personaggio poco raccomandabile che fiutò l’occasione per arricchirsi. Un giovane chiamato Diabolik rimase come ipnotizzato da quello scambio di banconote. Non aveva mai visto così tanto denaro contante, e ora che gli Irriducibili avevano stabilito il loro dominio in curva, aveva deciso di impossessarsi del gruppo e controllarne le finanze.