Oggi: Verona-Cosenza

 

 

 

 

 

 

 

Le luci blu illuminano la strada che porta allo stadio come una passerella. Furgoni d’ordinanza corazzati e auto civili con le sirene accese sono parcheggiati all’uscita dell’autostrada e alle rotatorie. I poliziotti sono in posizione a gruppi di dieci con caschi, visiere, parastinchi e manganelli. Il parcheggio per i tifosi in trasferta è una gabbia: al passaggio di ogni automezzo un cancello di metallo viene aperto e richiuso immediatamente.

Questo tipo di spazi di cemento, con poca storia o significato – stazioni di servizio, parcheggi, aree di imbarco dei traghetti – sono gli habitat naturali degli ultrà. Questi scenari senz’anima rendono ancor più evidente quella che Durkheim definì «effervescenza collettiva». Gli ultrà portano i loro colori negli spazi grigi, la loro energia nell’apatia, radicamento e senso di appartenenza in posti che sono per definizione rifugi temporanei per gli itineranti. Forse è proprio per questo che durante le trasferte non ci fermiamo mai al mare, al lago o in montagna. Distoglierebbe l’attenzione da noi stessi, dall’effetto che abbiamo su queste tele grezze. Provi un certo sollievo quando capisci di appartenere alla sottoclasse urbana, gli scarafaggi che vivono negli angoli bui e spuntano dalla tana solo per terrorizzare i salubri salotti della società conformista. In questa grigia periferia a volte sembra che il campo da calcio sia l’unico fazzoletto di terra verde e lussureggiante rimasto.

Le barriere sono sorvegliate al punto che non è possibile né trasgredire né oltrepassarle. Le invasioni di campo sono impossibili. Gli ultrà sono ancora nomadi, ma solo alle condizioni di qualcun altro. Veniamo tenuti in gabbia, arginati, disprezzati, sfrattati. L’erba del campo illuminata dai fari non ha più niente a che vedere con noi, per quanto ci riguarda potrebbe anche essere la fine dell’arcobaleno. Non ci interessano più nemmeno i nostri campioni. Come si è letto di recente su uno striscione dell’Udinese: “Solo per la maglia, non per chi la indossa”.

La cosa strana è che le persone riunite qui oggi sono quanto di più lontano si possa immaginare da una sottoclasse. Le auto, l’abbigliamento e le carriere dei membri di questo gruppo esprimono successo e integrazione sociale. È quasi come se stessimo solo interpretando la parte dei teppisti, assaporando la nostra discesa collettiva verso il mondo della malavita. Ed è un sollievo quando le nostre vite così atomizzate si incontrano all’improvviso in un mondo finalmente binario, in cui tutto si riduce con gioia a noi contro di loro. Mors tua, vita mea. Nessuna sfumatura, nessuna complessità. Siamo nel pieno di una discreta festa, e facciamo le solite cose che si fanno in queste occasioni: beviamo, fumiamo, cantiamo, balliamo e proviamo a rimorchiare. Due tizi stanno persino facendo a botte, ma sembrano così sballati da non sapere nemmeno perché hanno iniziato.

La partita è ancor più binaria che mai. È un match rancoroso – gli ultrà di sinistra del Sud contro quelli di destra e pseudo-ariani del Nord – quindi le autorità l’avevano spostata alle nove di sera di un lunedì. Da Cosenza è un viaggio di duemila chilometri tra andata e ritorno, ma sono comunque presenti qualche centinaio di tifosi, metà dei quali probabilmente vive al Nord. Gli esuli salutano i vecchi amici. La temperatura è di parecchi gradi sotto zero e cantano tutti: «Veronesi tutti appesi», «Veronese pezzo di merda», e poiché la famosa amante di Romeo era di Verona, «Giulietta mignotta».

I riflettori, rettangoli di luce bianca, torreggiano sul poderoso Stadio Bentegodi. Alla fine riusciamo a passare i tornelli. Continuiamo a cantare mentre veniamo divisi e perquisiti dagli steward, sotto lo sguardo vigile di una telecamera dei carabinieri. «Che bello è, quando esco di casa, per andare allo stadio, a tifare Cosenza. Oh, oh, oh, oh». Passiamo altri tornelli – con le sbarre orizzontali spesse cinque centimetri – e rampe infinite di scale che ci portano alla parte più alta dello stadio. Vengono quasi le vertigini e da quassù la pista da corsa umida blu e i giocatori appaiono come puntini minuscoli. Sembra di guardare la televisione dal lato opposto della casa. Lo stadio è pieno neanche per un quarto, il risultato che si ottiene quando le partite vengono pianificate tenendo a mente la sicurezza pubblica e non il divertimento del pubblico.

Gli striscioni dei veronesi rendono l’idea di quanto sia anglofila la loro tifoseria. In curva viene issata un’enorme Union Jack e i nomi della maggior parte dei gruppi ultrà o contengono al loro interno la parola Hell (“inferno”, ma anche il diminutivo di Hellas Verona), o sono direttamente in inglese come per esempio The Geekers. Non mancano spiritosi accenni all’erotismo – Calcio Club Osé – e i tipici memoriali agli ultrà defunti. Si vedono anche frasi prese in prestito alla religione – “Credo che risorgerò di nuovo”, recita uno striscione – e qualche accenno all’estremismo poco ortodosso, tipo “Bassa Estrema”. Un altro striscione recita: “Contro tutte le droghe”.

A’Lastica è al megafono e fischia per zittire tutti. I suoi luogotenenti, nelle file davanti, si girano e strillano «Oh!» a chi sta dietro e continua a chiacchierare. Alla fine vige la disciplina e stanno zitti. Guardano tutti A’Lastica, che riesce a leggere l’umore come un libro. Tutti qui vogliono dare una lezione ai fascisti gialloblù al capo opposto dello stadio, così la canzone d’apertura è «Forza Cosenza» sull’aria del vecchio canto partigiano Bella ciao. Come se volesse sottolineare le differenze politiche con la curva rivale, un cosentino alza uno striscione con i colori del Verona con su scritto: “Refugees Welcome”. Un’altra bandiera dice: “Siamo quello che siamo”.

Eppure, nonostante le divergenze politiche, i cosentini rispettano i veronesi. Benché abbiano la reputazione di essere fascisti, il loro estremismo scaturisce in parte dal desiderio di infastidire i virtuosi. Di sicuro sono in tanti a crederci per davvero ma, come i laziali con i quali sono gemellati, alcuni di loro lo enfatizzano solo perché è ciò che hanno sempre fatto, e ormai fa parte della tradizione. E se visti dall’esterno gli ultrà veronesi sembrano tutti fascisti, la realtà è ben più eterogenea. Sotto lo stendardo dell’Hellas ci sono molti ultrà che preferirebbero mantenere la curva apolitica. Alcuni – una piccola minoranza – sono persino antifascisti. Il mondo ultrà non è solo un posto dove fiorisce l’estremismo politico, ma è anche un luogo – forse l’unico – dove gli estremismi politici occasionalmente si pacificano e convivono.

«Ultrà», cantiamo, battendo rapidi le mani, prima di gridare di nuovo, «ultrà». A’Lastica dà il via alla Marsigliese ma le truppe attaccano troppo in anticipo e lui alza gli occhi al cielo. Voleva un ritmo più lento per cui zittisce tutti con un fischio, sorridendo per l’entusiasmo del gruppo. Di solito chi guida i cori col megafono incita la curva a gridare con più foga, ma qui è come se avesse tentato di rallentarla.

Il Verona gioca un calcio incisivo e fa filtrare il pallone dietro ai quattro difensori del Cosenza con passaggi astuti. Passano in vantaggio e all’improvviso gli ultrà imbronciati dall’altra parte dello stadio esplodono. Poco dopo l’intervallo il Verona segna di nuovo. È strano, ma il secondo gol non interrompe il nostro canto. «Son diffidato», recita il malinconico lamento, «fotografato, e ogni scusa è un’accusa di reato, ma ce l’ho fatta, non ho mollato, e nella vita resterò sempre un ultrà». La ripetiamo per cinque minuti di fila. «Son diffidato, fotografato…».

La partita continua sempre più lontana – come se stessimo guardando delle formiche correre su un tavolo da biliardo. Visto che siamo proprio sotto il tetto dello stadio, il nostro canto rimbomba con forza ed è più divertente guardare noi stessi che il match. Quasi tutti i video e le foto fatti col cellulare immortalano i cori, noi che saltiamo e la nostra sregolatezza. Ma proprio mentre cantiamo una strana versione di You’ll Never Walk Alone con le sciarpe tese sopra le nostre teste, il Cosenza segna. Non se ne accorge quasi nessuno. È solo quando riusciamo a vedere attraverso le sciarpe tese i giocatori che si abbracciano e fanno ritorno al dischetto di centro campo che capiamo che hanno fatto gol. Continuiamo a cantare come se niente fosse.

Ma mentre la partita prosegue, la gente allunga il collo per provare a vedere cosa sta succedendo. Di solito sono solo A’Lastica e i suoi luogotenenti a decidere i cori, ma sorge un inarrestabile ammutinamento tra le file e duecento ultrà si mettono a cantare spontaneamente e senza sosta: «Lupi, Lupi, Lupi, Lupi». A’Lastica fa un sorriso stanco e si volta verso il campo per capire cosa stia succedendo. Mancano solo cinque minuti alla fine e il Cosenza pressa per il pareggio.

E all’improvviso il Cosenza segna di nuovo – un altro gol oscuro, che nessuno vede – ma la curva esplode. Gli estranei si abbracciano. Perfino i musoni sorridono, pompano il braccio in aria e tendono le dita verso le tribune gialle all’altro capo dello stadio. Ora si può fare qualsiasi cosa si voglia, perché il reggimento ha rotto le fila e i tifosi camminano su e giù per la gradinata, facendo agli avversari il gesto dell’ombrello.

La partita è aperta e ora entrambe le squadre si battono per la vittoria. Il fatto che il Cosenza si sia risollevato da un 2 a 0 contro gli odiati fascisti veronesi è quasi poetico e i cori assumono un tono più giocoso. Cantiamo di essere «terrun terrun» e, con una melodia che ricorda Da Doo Ron Ron delle Crystals: «E dovunque tu sarai, non ti lasceremo mai».

L’arbitro suona il fischio finale. Pareggio, 2 a 2. Le forze dell’ordine ci tengono chiusi dentro lo stadio per un’altra ora per assicurarsi che non ci siano scontri con i veronesi, così decidiamo di passare il tempo insultando i tifosi di casa che se ne vanno: «Rimarrete in Serie B» e «Vincete solo a tavolino» (visto che la partita dell’estate precedente non si era potuta giocare perché il campo era impraticabile, la vittoria fu assegnata «a tavolino» ai veneti). Poi, a mezzanotte passata, veniamo scortati in quella gabbia di parcheggio. Si continua a cantare e a bere, e a poco a poco le automobili e i pullman si disperdono, diretti verso l’autostrada scortati dalle luci blu. Arriveremo a Cosenza il mattino dopo, giusto in tempo per andare al lavoro.