24 maggio 1999: Piacenza-Salernitana

 

 

 

 

 

 

 

Era l’ultima giornata di campionato di Serie A. Al Piacenza bastava un pareggio per evitare la retrocessione, mentre la Salernitana aveva bisogno di una vittoria. Finì 1 a 1, con una rissa fra i giocatori che uscivano dal campo e gli ultrà che distruggevano cessi, automobili e pullman. Millecinquecento tifosi della Salernitana vennero fatti salire a bordo di un treno speciale, scortati soltanto da dieci agenti di polizia. Il treno partì alle otto di sera, ma fu un viaggio tortuoso perché il freno di emergenza veniva tirato di continuo. Quando ci si fermava in una stazione, la gente scendeva sulla banchina per spaccare i finestrini. Venne tirato un estintore contro un altro treno. Alle otto del mattino del giorno seguente il treno si trovava a sud di Napoli, all’ingresso di una galleria lunga dieci chilometri. Qualcuno accese un fuoco, alimentato dal vento che soffiava nel tunnel e che entrava dai finestrini rotti. All’improvviso la carrozza numero cinque prese fuoco. Simone Vitale, un pompiere ventunenne, entrò diverse volte nel vagone in preda alle fiamme per mettere in salvo i passeggeri, ma durante l’ultimo tentativo venne avvolto dal fumo. Un testimone oculare disse che il tunnel «sembrava un enorme sigaro che vomitava fumo». Vitale e altri tre uomini – un altro ventunenne e due adolescenti – morirono. A seguito di questa tragedia, venne creata una nuova istituzione: l’Osservatorio Nazionale sulle Manifestazioni Sportive. Lo scopo era raccogliere dati salienti e dispensare consigli per prevenire tragedie future.

 

I tempi liturgici costituiscono parte integrante del significato di una cerimonia spirituale. Una giornata monastica è suddivisa secondo le ore canoniche, e l’inizio e la fine dell’anno religioso sono scanditi dai giorni festivi e dai giorni dei santi, ognuno segna il passare del tempo, ricordandoci il trascorrere delle stagioni e della vita.

Le partite di Serie A si erano sempre disputate la domenica pomeriggio. Per decenni era stato questo il rituale che al pari del lavoro, dei pasti e, forse, della messa, scandiva il ritmo settimanale. Ma verso la fine dello scorso millennio i tifosi ebbero l’impressione che all’orologio del calcio fossero state strappate le lancette. A causa dell’avvento dei canali pay-per-view sul finire degli anni Novanta, le partite venivano programmate in posti e a orari assurdi.

Furono due le emittenti a spianare la strada: Tele+ (un’azienda francese, della quale la Fininvest di Silvio Berlusconi era azionista) e Stream (fondata dai presidenti delle quattro maggiori società calcistiche). Poi, nel 2003, Rupert Murdoch comprò tutte e due le compagnie, fondando Sky Italia. Per aumentare lo share, e quindi gli introiti pubblicitari, Sky Italia aveva bisogno di trasmettere una partita importante ogni sera, anziché tutte le partite nello stesso giorno e alla stessa ora. Gli incontri vennero dunque spalmati nell’arco della settimana come burro sul pane. Stava bene a tutti. Le partite attraevano ingenti flussi di denaro grazie ai contratti televisivi, attraendo giocatori migliori, dando ai tifosi la speranza di una promozione e persino di vincere qualche trofeo e aumentando allo stesso tempo i compensi dei dirigenti che fino a quel momento avevano investito nelle società senza ricavarne alcun profitto.

Come tutti i fondamentalisti, gli ultrà andavano sempre in cerca dell’eresia. Credevano che il loro calendario liturgico fosse stato venduto al miglior offerente. Avevano la sensazione che il loro assolutismo, che si manifestava col presenziare a ogni singola partita, fosse stato relativizzato. Ora, in un certo senso, potevi dire di aver presenziato all’incontro senza aver mai lasciato la poltrona di casa. Di sicuro la partita si vedeva meglio in pantofole. La concezione che fino a quel momento si aveva dell’essere spettatori – come partecipante, o perfino avversario, di un evento – veniva rimpiazzata da uno statico e pigro zapping. Tra il 1990 e il 1999 la presenza media alle partite di Serie A era di 31.000 spettatori. Nella stagione 2006-07 si era già scesi sotto i 20.000. Nella stagione 1988-89 metà dei proventi della società sportiva del Cosenza erano generati dalla vendita dei biglietti; nel 1990-91 erano solo il venti per cento.

In Italia i match scaglionati vengono chiamati spezzatino. È una descrizione eloquente dello sconvolgimento creato dalla televisione. Le partite scaglionate resero le classifiche più difficili da interpretare. Ora c’erano asterischi o doppi asterischi che indicavano quale squadra aveva giocato una o due partite di meno. L’eccitazione associata alla concomitanza degli incontri sportivi era scomparsa, poiché le partite venivano spostate in avanti (anticipata) o indietro (posticipata) nell’arco della settimana.

Per gli ultrà, il potere della televisione di fissare le partite a proprio piacimento presentava molti svantaggi. Era sempre meno probabile imbattersi negli ultrà rivali alle stazioni o negli autogrill, rispetto a quando erano tutti impegnati ad attraversare la penisola negli stessi orari. Si ritrovarono costretti a viaggiare per migliaia di chilometri nei giorni feriali, rendendo praticamente impossibile la “presenza” di chi aveva un lavoro regolare, e le folle “oceaniche” di un tempo divennero sempre più un ricordo del passato. E mentre i numeri continuavano a scendere, rimaneva solo lo zoccolo duro di estremisti.

Trasmettere in diretta un numero così elevato di partite aveva perlomeno il vantaggio di pubblicizzare gli striscioni. Ora si poteva diffondere un messaggio non solo a uno stadio mezzo vuoto, ma a una intera nazione. Gli ultrà del Teramo espressero chiaramente le loro opinioni nei confronti delle superpotenze del calcio, che spostavano gli incontri secondo calcoli matematici: “Anticipate la vostra morte, posticipate il vostro funerale”. Quelli del Catania esortavano a “Boicottare Sky per rinforzare un modo di pensare”. Gli ultrà del Bologna esposero uno striscione che diceva: “Calcio: per noi passione, per voi televi$ione”.

Le partite venivano non solo spalmate nel corso della settimana. Per assurdo, e per motivi di espansionismo commerciale, un’edizione della Supercoppa Italiana venne giocata a Tripoli, in Libia. Le partite venivano spostate abbastanza spesso anche per motivi di ordine pubblico. Quelle più attese – i derby più caldi e quelle che vedevano contrapporsi squadre antagoniste – venivano ormai deliberatamente programmate in modo da ostacolare la presenza dei tifosi. Il 9 aprile del 2001 la partita tra Fiorentina e Roma venne spostata – dal prefetto – dal fine settimana a un lunedì, al fine di evitare i soliti scontri tra tifosi in strada. (In Italia i parrucchieri hanno il lunedì come giorno di riposo). Lo spostamento di quella partita fu per gli ultrà l’ennesimo esempio del disprezzo da parte della classe dirigente. Ma la risposta fu esilarante. Allo stadio, gli ottomila romanisti che erano riusciti a prendersi un giorno libero per sostenere i giallorossi dispiegarono un immenso striscione con su scritto, in dialetto: “Semo tutti parrucchieri”.

Uno dei migliori striscioni lamentava non solo l’aver frammentato il calendario liturgico del calcio, ma esaltava anche il rapporto – notoriamente ribelle e incostante – degli ultrà del Cosenza con la puntualità: “Siamo arrivati in ritardo… o forse troppo in anticipo. Ad ogni modo, il nostro tempo non somiglia al vostro”. I reggini scrissero: “Questo calcio ci fa sky-fo”, un gioco di parole che alludeva al ruolo rivestito dall’emittente nell’aver reso “disgustosa” questa nuova versione del calcio. Gli atalantini scrissero lamentosamente: “Ridateci le nostre domeniche”.

Sembrava che quei tifosi che credevano nella presenza fossero stati d’improvviso rimpiazzati, e non venissero più trattati come ospiti d’onore. I dividendi delle squadre provenienti dalla vendita dei biglietti calarono a picco, mentre gli introiti originati dalla pubblicità e dai contratti televisivi crebbero a dismisura. Le tifoserie organizzate, che negli anni erano sempre rimaste fedeli, si sentirono comprensibilmente tradite. Furono ridotte a una colorita e chiassosa reliquia del passato che dava valore aggiunto all’offerta televisiva. Quindi forse non fu una sorpresa quando nel 1999 diversi gruppi ultrà stilarono e pubblicarono un manifesto sul sito AsRomaUltras, che elencava molte richieste, buona parte delle quali non sembravano troppo insensate nemmeno ai tifosi meno esigenti: la stagione acquisti dei giocatori avrebbe dovuto svolgersi soltanto d’estate; le partite si sarebbero dovute giocare lo stesso giorno; i presidenti delle società non avrebbero dovuto possedere più di una squadra; le maglie avrebbero dovuto essere numerate da uno a undici, e così via.

Il guaio era che gli ultrà rappresentavano al tempo stesso sia la resistenza sia il riflesso dello sport che abbracciavano. I teorici hanno parlato spesso della «deludificazione» del calcio, dei modi in cui le partite (combattute ma divertenti, belle poiché prive di scopo) potevano essere trasformate in qualcosa di disgustosamente serio (l’ansia per i punti in classifica e ogni tipo di guadagno secondario). Gli ultrà seguivano una traiettoria simile: i primi anni erano stati caratterizzati dalla goliardia – la loro parola preferita. Era un baccanale spensierato. Anche la violenza era priva di significato (era questa sua caratteristica che, a detta loro, le conferiva “purezza”). Ma anche il mondo ultrà venne «deludificato». La violenza era sempre più asservita ai suoi soliti scopi (potere e denaro).

Molti ultrà si ostinano a ribadire di non aver mai ricavato alcun profitto dalla loro fede. «Qui», dicono tutti, «non c’è trippa per gatti». È innegabile che la stragrande maggioranza di loro perda soldi, anziché accumularne. Ma con l’industrializzazione del gioco del calcio alcuni ultrà si resero conto che i gruppi paramilitari potevano rivelarsi un’inaspettata fonte di guadagno. Nel corso degli anni sono emerse realtà, come Punto Roma e Un Amore Infinito, che offrono “servizi” – biglietti, viaggi organizzati e merchandising – ai tifosi. A Milano, dopo aver stipulato un patto di non-belligeranza, i due capi delle curve rivali – Franco Caravita e Il Barone – hanno aperto insieme un negozio di abbigliamento in via Cesariano: Mondo Ultrà.

Gli Irriducibili della Lazio sono il gruppo che più di ogni altro ha incarnato questo nuovo spirito imprenditoriale. All’inizio, Diabolik e la sua cricca vendevano gadget della Lazio direttamente dagli scatoloni e sotto dei gazebo improvvisati. Gli affari andavano alla grande. Non avevano praticamente nessun costo fisso e c’era sempre la fila per comprare i loro indumenti. La differenza di prezzo tra le maglie contraffatte e quelle ufficiali era enorme, e ad ogni modo era più fico possedere una maglia degli Irriducibili della Lazio con il logo di Mr Enrich che con quello della Puma. L’idea che dei ragazzi romani si mettessero a competere con una multinazionale dell’abbigliamento sportivo rendeva il tutto ancora più affascinante. Inoltre, i ragazzi di strada erano sempre aggiornati sulle ultime tendenze. Yuri era stato messo a capo dell’operazione di marketing, e dichiarò: «Si tratta di gestione intelligente. Siamo molto attenti alla moda del momento». E la concorrenza era pressoché inesistente. Se qualcuno si fosse azzardato a mettere su una bancarella senza il loro permesso, se ne sarebbero occupati. Un uomo che conosceva Diabolik afferma che fosse una persona con il sorriso sempre sulle labbra, ma che dal nulla poteva estrarre una pistola.

Il divario tra ciò che gli Irriducibili dicevano di fare e quello che facevano veramente cresceva sempre di più. Quando il presidente della Lazio tentò di lucrare sulla cessione del suo fuoriclasse Beppe Signori, accettando un’offerta di venticinque miliardi di lire dal Parma, gli Irriducibili si ribellarono, rompendo finestre e dando fuoco ai cassonetti della spazzatura. Minacciarono uno sciopero dei tifosi che sarebbe durato tutta la stagione successiva. Era ovvio che i tifosi non volessero affatto cedere il loro attaccante a una squadra rivale della Serie A, ma era anche vero che Diabolik e la sua banda avevano i loro motivi per fomentare la rivolta. Era una dimostrazione di forza nei confronti del patron della società. Volevano più biglietti omaggio per le partite e una percentuale sui contratti degli steward. Diabolik aveva capito che quelle centinaia di teste calde degli ultrà potevano essere facilmente istigate a compiere feroci rivolte e scioperi indignati, così incoraggiò il caos. La cessione di Signori fu annullata.

Negli anni a seguire Cragnotti, il presidente della Lazio, fu ripetutamente costretto a sottostare alle richieste degli Irriducibili. Nel 1999 annunciò che gli ultrà avrebbero dovuto pagare per vedere gli allenamenti della squadra a Formello e che le trasferte potevano essere organizzate soltanto tramite la compagnia Francorosso, non dagli stessi ultrà. Uno degli Irriducibili pestò l’uomo che Cragnotti aveva mandato a negoziare con loro e le due proposte furono ritirate. Gli Irriducibili avrebbero potuto continuare a organizzare le trasferte, intascando soldi dai tifosi.

Nel 2000 agli Irriducibili venne fatta la sporadica concessione di gestire gli steward allo Stadio Olimpico. L’assegnazione dei contratti degli steward divenne negli anni uno dei principali motivi di contenzioso tra le società e gli ultrà. Era ovvio che se agli ultrà fossero stati assegnati gli appalti degli steward non ci sarebbero stati problemi, ma nel caso contrario, non si poteva dire lo stesso. Era un altro modo per tenerli buoni. Non erano solo i presidenti delle società a sentirsi sotto pressione. Al culmine della loro attività, gli Irriducibili arrivarono ad avere 6.500 membri paganti. In un’occasione boicottarono in massa la «Gazzetta dello Sport» (poiché insoddisfatti del suo modo di fare giornalismo), riducendone le vendite, secondo i loro calcoli, di cinquemila copie. Gli Irriducibili divennero anche un’importante lobby politica che riceveva visite da aspiranti politici come l’ex-giocatore della Lazio Luigi Martini, che si presentava come candidato del partito di destra Alleanza Nazionale.

All’epoca avevano anche una loro rivista, «La voce della Nord», che vendeva ogni settimana migliaia di copie. Presto seguì un’emittente radio omonima. Questa singolare “voce” affermava che esisteva solo una linea di condotta da seguire. Se qualcuno si azzardava ad applaudire o a esultare durante uno sciopero dei tifosi, finiva in ospedale. Neanche un Daspo riuscì a tenere Diabolik lontano dal campo. Un testimone oculare ricorda che in quel periodo un poliziotto lo vide, nonostante fosse diffidato, pavoneggiarsi lungo la pista di atletica intorno al campo come se fosse il proprietario dello stadio.

«Almeno prova a non farti vedere», disse il poliziotto, suggerendo a Diabolik di non dare nell’occhio.

«Vaffanculo, nun me rompe li cojoni», sbottò il capo ultrà.

Sembrava godere di uno straordinario livello di protezione da parte delle forze dell’ordine. Un rappresentante del sindacato di polizia si lamentò che Diabolik aveva il numero di telefono dei funzionari e che entrava e usciva dai commissariati «in un modo che nemmeno a me è concesso». Un ultrà della Lazio ricorda che «c’era totale connivenza, a ogni livello».

Nessuno sapeva di preciso quanti biglietti omaggio ricevessero gli Irriducibili, ma dato che la capienza dello stadio era di oltre 70.000 persone, possiamo supporre quasi con certezza che la società gliene concedesse centinaia. Quando ai tornelli c’era Diabolik, poteva far entrare chiunque, che avesse il biglietto o meno.

In quegli anni gli Irriducibili divennero famosi per il loro antisemitismo. In un derby contro la Roma nel 1999 misero in mostra uno striscione che proclamava: “Auschwitz la vostra patria, i forni le vostre case”. Nel 2000 ne dedicarono un altro al criminale di guerra serbo Željko Ražnatović: “Onore alla Tigre Arkan”. Fu, scrisse Valerio Marchi, «l’ennesimo segnale di una presa di potere, sugli spalti di tutta Italia, di una generazione di hooligans sempre più attratti dall’estremismo politico, in quel momento orientato prevalentemente verso la destra più razzista e radicale».

E quando questi striscioni e altri simili divennero oggetto di scandalo nazionale, gli Irriducibili si sentirono incompresi. Avevano sempre cercato di evitare l’uso di svastiche (lo avevano fatto solo in un’occasione, contro gli ultrà di estrema sinistra del Livorno). I capi degli Irriducibili, di fatto, denunciavano di loro spontanea volontà il nazismo ma c’era sempre, e prontamente, un “ma”. «Personalmente condanno senza pietà i crimini nazisti», disse Paolo Arcivieri, «ma allo stesso tempo sono contro il popolo d’Israele, che considero intollerante e incongruente…». Toffolo è altrettanto rapido a esprimere il suo “ma”: «La svastica per me è un simbolo orrendo perché nel suo nome sono stati commessi crimini brutali, ma la falce e martello è sua pari, è un simbolo che dovrebbe essere condannato…»

Parte del problema era il fatto che questi uomini – che ammettevano con orgoglio di non aver mai terminato gli studi – portavano avanti un dibattito storico usando versi di un rigo dipinti su striscioni che venivano sottoposti allo sguardo di milioni di spettatori televisivi. Gli hooligans inglesi non ebbero mai una tale presa sul dibattito storico nazionale quanto gli Irriducibili, che avevano l’assurda convinzione che i dittatori non andassero ripudiati perché almeno avevano un ideale. Yuri, un altro leader degli Irriducibili e – stando a quanto sosteneva – un comunista disse: «Credo che Hitler e Stalin siano stati delle grandi figure storiche, così come lo è stato Mussolini, che è giusto ricordare come un grande statista. Forse hanno compiuto degli errori commettendo i crimini che hanno commesso, ma non me la sento di condannarli, perché credevano in qualcosa».

In quel periodo gli Irriducibili stavano diventando più forti perché la squadra sembrava vincere ogni gara. Nella finale della Coppa delle Coppe del 1999 la Lazio batté il Real Mallorca. Indossando una curiosa maglia a righe giallonera, Christian Vieri segnò il primo gol intercettando di testa un cross da fondo campo, protendendosi con il petto per far passare la palla sopra il portiere. Il Real Mallorca pareggiò con un rimpallo di Dani, ma poi Pavel Nedved – dal limite dell’area di rigore con le spalle alla porta – si girò e infilò la palla in rete.

Quell’anno la Lazio batté anche il Manchester United nella Supercoppa Europea, per poi vincere il campionato di Serie A nella stagione 1999-2000. Alla squadra, allenata da Sven-Göran Eriksson, non mancava nulla: aveva muscoli, fantasia, gol e fortuna. Era una formazione internazionale, in cui militavano argentini, serbi, portoghesi e tanti grandi italiani come Alessandro Nesta, Roberto Mancini e Simone Inzaghi, assieme al cileno Marcelo Salas e il ceco Pavel Nedved. Verso la fine di quella stagione una serie di bizzarre decisioni arbitrali aiutarono la Juventus a vincere partite su partite (anni dopo si scoprì che la squadra aveva una forte influenza sui direttori di gara). Prima dell’ultima giornata di campionato gli ultrà della Lazio organizzarono un corteo funebre con lo slogan “Il calcio è morto”. Ci furono scontri con la polizia in via Allegri, a Roma, fuori dalla sede della figc. All’improvviso, ci fu un intervento divino. Una pioggia torrenziale a Perugia decretò la sconfitta della Juventus, mentre la Lazio vinceva senza sforzo per 3 a 0 contro la Reggiana, portandosi a casa il secondo scudetto.

Quella che per i tifosi rappresentava l’estasi sportiva, per Diabolik era un’opportunità di fare affari. Gli Irriducibili avevano già un magazzino di seicento metri quadri pieno di berretti, tutine per neonati, pantofole, teli da mare, orologi, accendini, attrezzatura militare, calamite per frigoriferi e adesivi per automobili – ogni sorta di oggetto che potesse aiutare il tifoso laziale a manifestare la propria fede nella squadra. Ora volevano aprire i loro negozi. Affissero manifesti per tutta la città, pubblicizzando un nuovo marchio, Original Fans, e l’apertura di un negozio. Sul logo c’era Mr Enrich, con l’immancabile bombetta e pronto a sferrare un calcio.

Quando Grinta, il fondatore degli Irriducibili, ormai fuori dai giochi, vide il manifesto, restò di sasso. Quello era il suo logo e gli era stato strappato a forza. «Rimasi sconcertato e allibito», scrisse nella sua autobiografia. «Guardavo il poster e riflettendo arrivai alla conclusione che la famosa mentalità ultrà stava lentamente iniziando a scomparire: mentre negli anni Ottanta e Novanta un comportamento simile seguiva un codice preciso, negli anni Duemila sfociò nell’ipocrisia più assoluta».

Gli Irriducibili cominciarono ad aprire negozi in tutta la Capitale. Alcuni erano poco più che monolocali in periferia, ma altri erano boutique sgargianti nelle vie del centro. Nel 2003 avevano già aperto quattordici punti vendita. Era un giro di affari condotto in buona parte in nero, quindi, con molta probabilità, gli incassi reali superavano di gran lunga i 210.000 euro dichiarati quell’anno dalla Original Fans. Nessuno dubitava del buonsenso di Diabolik negli affari, solo della sua morale. «Se non fosse stato un delinquente», mi disse un tifoso della Lazio, «Diabolik sarebbe potuto diventare un amministratore delegato».

I benefici non erano soltanto finanziari. I negozi servivano anche a diffondere quel conformismo cromatico vitale a ogni gruppo. Creavano una rete di contatti, rendendo ancora più permeabile la membrana che separava i tifosi non ultrà e i gruppi coesi che controllavano gli spalti. L’impero di Original Fans permetteva ora al suo imperatore di ricompensare chi gli era stato più leale, offrendogli un impiego retribuito. E con un simile flusso di cassa, i contatti e l’appoggio di collaboratori fidati, Diabolik cominciò a nutrire ambizioni ancora più grandi. Iniziò a prendere seriamente in considerazione l’idea di comprarsi la Lazio.