Un’altra partita

 

 

 

 

 

 

 

È inverno inoltrato, in mezzo alla settimana, e abbiamo viaggiato per duemila chilometri tra andata e ritorno solo per vedere una partita di coppa giocata in modo ordinato e sbrigativo.

Non siamo venuti qui per il calcio, però. Ieri è morto Antò ed è così che dimostriamo a questa città del Nord come ricordiamo i nostri fratelli. «Antò è qua e canta con gli ultrà».

“Qua” fa rima con “ultrà”, ma la rima non è il solo motivo per il quale non riusciamo a smettere di cantare quelle parole. La ripetizione ipnotica di qua e ultrà ci ricorda dove siamo e chi siamo. Siamo qua e siamo ultrà, siamo presenti ma siamo anche andati oltre. Tutti i vecchi paradossi confluiscono in questo semplice canto: il nome di un fratello viene cantato solo quando non è più insieme a noi. E, dice U Rimastu, Antò è molto più importante di quelle «merde» – fa un cenno con il mento verso i giocatori con la scintillante divisa della trasferta – che indossano la nostra maglia solo per una stagione o due.

Srotoliamo uno striscione alto due metri e lungo sei. Sopra c’è scritto solo “Antò”. Dietro qualcuno accende un fumogeno rosso il cui vapore ci avvolge mentre continuiamo a cantare: «Antò è qua e canta con gli ultrà».

Lo striscione prende fuoco e si avvicinano correndo due pompieri. Serriamo i ranghi e ci mettiamo a calpestare le fiamme per estinguere l’incendio. I pompieri si allontanano. I fuochi d’artificio non sono permessi allo stadio, ma quando muore qualcuno devi far entrare qualcosa di contrabbando, perché i colori devono risplendere nel buio di questi scuri cieli dicembrini come una pira funebre.

Insistere sulla presenza dei defunti è una prassi comune a tutti i gruppi. Perché la causa dell’assenza dei fratelli non è solo la morte, ma anche il Daspo. «Diffidati sempre presenti», cantiamo ogni tanto, battendo le mani congelate. Rafforza l’idea che prendere una diffida sia un atto d’onore, che è più facile essere ricordati da morti o per aver subito una diffida. Ogni volta che ci disprezzano ci sentiamo quasi sollevati. Perché siamo qui, e sappiamo che con la nostra presenza lo stiamo mettendo in quel posto alle autorità.

Sotto certi aspetti le curve sono ormai diventate luoghi per elogiare e commemorare i morti. Gli striscioni che riportano i nomi dei tifosi e dei giocatori defunti vengono esposti durante le partite. La lista di chi non c’è più è lunga, ovviamente. A esattamente dieci anni dal giorno in cui la Roma perse quell’iconica finale di coppa contro il Liverpool, il capitano della squadra, Agostino Di Bartolomei – che una volta annunciato il ritiro cadde in depressione per essere stato escluso dalla squadra, e che vista la data, era ancora chiaramente dispiaciuto per quella sconfitta contro il Liverpool – si sparò un colpo al cuore. Sia Giorgio Chinaglia che Er Tassinaro morirono nel 2012. Il grande attaccante del Cosenza Gigi Marulla scomparve nel 2015. I loro volti sono stati dipinti con le bombolette spray fuori dagli stadi. Talvolta si ricordano anche i presidenti delle squadre o i giocatori preferiti, ma normalmente è agli ultrà che sono riservati i muri degli stadi. I Boys di Parma hanno intitolato la Curva Nord a Matteo Bagnaresi, il ventiseienne che è stato investito da un autobus. Sono tanti i siti web a riportare lunghe dediche ai fratelli e alle sorelle scomparsi. Un sito degli ultrà dell’as Roma ha addirittura una pagina di trenodie con il raffinato titolo latino Sit vobis terra levis (”Che la terra ti sia lieve”).

Gli striscioni allo stadio hanno spesso giocato con la celebre frase pronunciata dai gladiatori ai dignitari nelle arene dell’antica Roma: Morituri te salutant (Chi sta per morire ti rende onore). Uno dei primi slogan dei Boys della Roma era ”oltre la morte”. Sembra che gli ultrà stiano ricordando a tutti, per quanto assurdo possa sembrare, di essere pronti a morire per il loro credo. Viene costantemente chiamato in causa il sacrificio. Chi disprezza il mondo ultrà percepisce gli spalti come la sede di un culto della morte fascista, ma forse essere un ultrà è semplicemente un altro modo di commemorare i nostri antenati, di raccontare le loro storie e rendere sacri gli spazi usati, da noi e da loro, per riunirci.

Dire che lo stadio è un tempio può sembrare banale, ma è palesemente quella la sua funzione. Ci sono più persone che pregano sugli spalti, o cercano solo di propiziare la sorte, di quante ce ne siano sulle panche delle chiese. I cortei funebri dei giocatori più amati e degli ultrà passano sempre per la pista d’atletica. È quando assisti a quei funerali che ti ricordi che la curva ha a che fare con la terra. La rotondità della curva non rappresenta solo la fertilità ma il tumolo. Con la bara nello stadio, con il fumo dell’incenso colorato e gli inni chiassosi degli spalti, tutto sembra avere un senso.

Quando una tragedia colpisce una città è lo stadio a commemorare il momento, e non la cattedrale. Nell’agosto del 2018 il viadotto Polcevera di Genova (meglio conosciuto come Ponte Morandi) crollò, provocando quarantatré vittime e distruggendo le case di 566 persone. Molto prima che le autorità calcistiche decidessero di posticipare le due partite successive del Genoa e della Sampdoria, gli ultrà annunciarono che non avrebbero presenziato. «La nostra città è in lutto», scrissero gli ultrà genoani in un comunicato stampa, «e per dignità, rispetto e dolore, la tifoseria del Genoa non assisterà alla partita prevista domenica allo Stadio Meazza di San Siro. Il settore a noi riservato sarà pertanto, qualora si disputi l’incontro, completamente deserto». Fu l’ennesimo esempio che, in alcune circostanze, gli ultrà vedono il calcio come una blasfemia. E il loro linguaggio era, intenzionalmente o meno, religioso: «La Superba [il soprannome della città] è piegata ma ancora una volta risorgerà».

Da Cosenza Canaletta scrisse una lettera aperta alla città, definendola «una calamita di tragedie». Scrisse dell’ammirazione che nutriva per i genovesi, in special modo per la loro schiettezza, il loro parlare «senza fronzoli, senza orpelli e giravolte lessicali». Nella sua lettera usava la parola “amore” sedici volte, e lasciava trasparire che i capi ultrà avessero assunto il ruolo che un tempo era riservato ai preti, quello di ricordare pubblicamente i momenti tragici, di dare conforto e tenere compagnia. Alla partita successiva del Genoa, per ricordare i quarantatré morti gli ultrà restarono in silenzio per quarantatré minuti. Anche qui, la religiosità era ricorrente: «Orgogliosi siamo e sempre saremo della nostra amata Genova, ancora una volta saprà risorgere».

Nonostante la polizia insista ad affermare che il mondo ultrà sia un adesivo per i criminali, è anche una forma più profonda di collante sociale. Gli ultrà provano sempre un senso di frustrazione nei confronti di chi non riesce a vedere le buone azioni che compiono. Cosenza è forse un esempio estremo di bontà, ma sono tante le curve impegnate in simili imprese. Dopo il terremoto dell’Aquila del 2009, decine di gruppi ultrà si recarono nella città abruzzese per ripulire le macerie, portando tende e cucinando pasti. In seguito il sindaco di Amatrice dichiarò: «Hanno fatto di più gli ultrà che i politici in trent’anni». Un Natale il gruppo catanese di Spampinato raccolse tremila euro e riempì quattro furgoni di regali natalizi per bambini che altrimenti non ne avrebbero ricevuti. Un gruppo del Torino inviò soldi a un gruppo napoletano per ripiantare alberelli sul Vesuvio dopo un incendio. Quando Livorno e Genova vennero colpite da inondazioni, gli ultrà, anche quelli delle squadre rivali, si misero subito all’opera, finanziando linee telefoniche, scialuppe di salvataggio, ambulanze e stampanti braille. In molti si lamentano, e vedono tutti questi gesti semplicemente come «metapolitiche» (quella persuasione culturale che l’estrema destra ha ripreso da Gramsci), ma spesso dietro questa beneficenza non ci sono secondi fini. È soltanto la conseguenza dell’attaccamento a un luogo e alla gente che ci abita.

Di recente ho fatto visita a un amico rimasto coinvolto in un incidente motociclistico. Aveva trascorso tutta la sua vita come un ultrà, non solo nel senso che frequentava la curva, ma perché aveva vissuto la vita con passione ed entusiasmo. Suonava il basso in una band punk hardcore e ogni volta che giocavo contro di lui a pallone (era un possente difensore centrale) ce la metteva tutta ed era generoso con i suoi calci. Era ossessionato dal Torino ma in quel momento era in coma. Muoveva soltanto gli occhi enormi.

Nella stanza c’erano sciarpe rosso ciliegia e un uomo che gli raccontava i risultati delle partite. Sopra al comodino aveva un libro sul Toro e, forse perché non riuscivo a capacitarmi di come quell’uomo enorme potesse essere così emaciato e immobile a letto, gliene lessi le ultime pagine: «Il Toro è duramente religioso, addirittura mistico […] Ma se non ci fosse stata una Juventus i tifosi del Torino se la sarebbero inventata, per soffrire al meglio e intanto sentirsi sempre tesi e affilati e inferiori di una inferiorità di tipo evangelico: sacra, santa, quella dei poveri». Forse è proprio questo che fa, il tifo. Ti abitua alla sconfitta e crea occasioni per condividerla con gli altri.

 

È l’ultimo giorno di campionato della Serie B. Dal momento che nel torneo ci sono solo diciannove squadre e il Cosenza non gioca. Grazie alle vittorie contro lo Spezia e la Salernitana la squadra si è salvata dalla retrocessione.

Con Susy, U Rimastu e U Lisciu, mi dirigo al Castello Svevo a brindare al finale di stagione. Il castello è abbarbicato sulla cima del colle Pancrazio, un alveare di vicoli, strette scalinate e piazzette che rappresentano Cosenza vecchia. Ci sono negozietti d’artigianato – calzolai, fabbricanti di bare e liutai – ma la gentrificazione non è ancora iniziata. È un posto accidentato, dove la gente vive così vicina che i segreti quasi non esistono. Si sente ogni litigio. Gattini emaciati scorrazzano per le salite che finiscono direttamente negli ingressi delle case. Tra crepe crescono le erbacce. Molte palazzine sono sfitte o presentano dei rigonfiamenti, ed è stato buttato qua e là cemento a rattoppare l’antica struttura di pietra.

In ogni angolo si vedono murales giganteschi. Facce gialle da cartone animato, scimmie che partoriscono, nudi sinuosi, cavalli rampanti, panorami marittimi e tributi ai Faraca (i ciclisti della città). C’è scritto ovunque “CZ merda”, dove CZ sta per Catanzaro. Camminando per le strade della città incontri almeno metà dei tifosi che trovi in curva. Per caso da una porta di metallo ammaccata spunta U Mundatu, ci chiede dove stiamo andando e si unisce a noi.

Il panorama dal castello è straordinario: uliveti, montagne boscose e ponti stretti che attraversano i fiumi della città. Susi è infastidita. «Non c’è un pezzo di terra su cui non abbiano costruito», dice. Ci sono condomìni a perdita d’occhio.

«Palazzi senza fine», dice U Rimastu facendo spallucce, «e non ce n’è uno per noi».

La Curva Sud è stata da poco sfrattata dall’edificio occupato, La Casa Degli Ultrà, e al momento è senza una casa. Chi vuole dimostrare il suo senso di appartenenza ora non ha più un posto dove farlo. Questo senso di esclusione li fa sentire ancora più integrali alla, e radicati nella, città: non alle sue stanze del potere, ma alle sue strade, ai suoi vicoli e ai suoi fossi. Conoscono la geografia dell’area meglio di chiunque altro. E anche se il loro stile di vita è espressione costante di amore per la città, sono anche dei ferventi critici della sua corruzione e dei suoi crimini.

U Lisciu svita il tappo di una lunga bottiglia. Versa il liquore silano dentro a dei bicchierini di plastica e li allinea sulle mura del castello. Ne prendiamo uno ciascuno e li alziamo per brindare alla maglia rossoblù… e poi alla città… e poi a Denis Bergamini, e a Piero, e poi a tutti gli altri, finché non abbiamo bevuto troppo e U Mundatu ricomincia a dire stronzate. «Il prossimo campionato», ridacchia, «finiamo in Serie A».