28 gennaio 1989
Ogni settimana il furgoncino della posta percorreva la stessa strada attraverso i campi di riso, fra Torino e Milano. Viaggiava sulla provinciale 594 in direzione nord, strada parallela al fiume Sesia, raccogliendo gli assegni e il denaro contante dagli uffici postali a Gattinara, Borgosesia e Varallo. Il veicolo veniva sempre scortato da un’auto dei carabinieri.
Era ancora buio e c’era la nebbia quando, appena dopo le sei del mattino, una Golf bianca targata Torino si accostò ai due veicoli. La Golf era stata rubata due giorni prima dal Drugo Pino Fridd’n Pitt, uno dei tre uomini mascherati a bordo della macchina. Prima che i carabinieri si resero conto di cosa stesse succedendo, due colpi di fucile a pompa marca Franchi avevano fatto esplodere le gomme della volante, facendola precipitare in un fosso. I militari chiamarono i rinforzi via radio.
Con la scorta fuori combattimento, la Golf rincorse a tutta velocità il furgoncino della posta. I banditi spararono due colpi in aria e l’autista del veicolo si fermò. Lui e i suoi colleghi furono legati con delle fascette da elettricista, gli fu messo del nastro isolante sugli occhi e vennero sbattuti sul retro della Golf. I tre uomini si tolsero la maschera. Pino mise in moto il furgone e si sparì a tutta velocità nel buio con la Golf che lo seguiva. I veicoli girarono a sinistra e poi di nuovo a sinistra, dirigendosi verso sud. Entro pochi minuti giunsero alla strada sterrata vicino il canale Cavour a Greggio, dove la notte prima i tre uomini avevano nascosto un fuoristrada della Toyota e una Peugeot 405.
All’alba due cacciatori assistettero alla scena. I tre cominciarono ad aprire le buste della posta, e uno dei rapinatori si tagliò la mano, bestemmiando. In una di queste buste c’erano diversi sacchi di juta con all’interno del denaro contante e degli assegni. L’uomo che si era tagliato la mano li gettò nel retro della Peugeot e il resto degli uomini si allontanarono. I cacciatori diedero l’allarme.
I rapinatori armati erano tesi. Pino era nella Peugeot con Alessandro; Maurizio era dietro a bordo della Toyota. Tutti e tre erano armati di pistole che tenevano al lato del sedile. Riuscivano già a vedere un paio di pescatori lungo i canali e i fiumi, e sapevano che la polizia e i carabinieri avrebbero mandato delle volanti a perlustrare la campagna intorno a Vercelli.
Si trovavano sulla strada a nord di San Giacomo Vercellese, quando furono fermati da un posto di blocco. I carabinieri si insospettirono non appena videro le due auto con a bordo i tre uomini guidare ad alta velocità a quell’ora del mattino. Ma nell’istante in cui si avvicinarono al veicolo, videro che due dei tre sospetti erano colleghi dell’Arma: Maurizio Incaudo e Alessandro Chieppa erano entrambi Carabinieri. Antonio Scino, carabiniere in servizio, notò la mano sanguinante di Alessandro.
«Cosa ci fate qui?», chiese Salvatore Vinci al suo collega Maurizio. Nel porgere la domanda, diede un’occhiata all’interno della Toyota. «Sapete che c’è stata una rapina?».
Il primo sparo scaraventò a terra Vinci. Fu colpito all’addome ma rispose al fuoco. Maurizio Incaudo uscì dall’abitacolo e sparò di nuovo, a distanza ravvicinata. Più avanti sulla strada, Pino e Alessandro sparavano all’altro carabiniere, che correva in mezzo ai campi di riso, rispondendo al fuoco mentre si tuffava e urlava, con i proiettili che schizzavano sull’acqua.
Scino non vide la macchina che si allontanava a tutta velocità, ma gli spari erano finiti. Non riusciva a sentire niente tranne il rumore sordo del sangue che sgorgava. Era rimasto in piedi nel campo di riso e solo ora si rendeva conto di quanto fosse fredda l’acqua. Guadò fino alla riva. «Salvato’» gridò, cercando il suo collega. «Salvato’». Poi, mentre correva, gocciolante, lungo la strada, vide i vestiti color rosso sangue e il corpo esanime del suo collega.
Le due macchine erano ormai a pochi chilometri in direzione nord, a Ravasenda. I tre avevano trovato un deposito militare in mezzo ai boschi e avevano forzato il lucchetto. Una volta dentro, si misero a contare i soldi. C’erano in tutto duecento milioni di lire. Si sedettero per terra, rivivendo le scene di poco prima, e l’ansia prese il sopravvento sull’eccitazione. Aspettarono per qualche ora, discutendo sul da farsi. Maurizio tremava e piangeva. «Sono fottuto», ripeteva. Non solo era un carabiniere, ma era anche figlio di un carabiniere, e ne aveva appena ucciso uno. «Abbiamo fatto una cazzata», continuava a dire.
Disse agli altri che aveva intenzione di ammazzarsi e salì fino al primo piano del deposito. Questi lo raggiunsero appena sentirono delle macchine avvicinarsi. Sopra di loro erano arrivati anche gli elicotteri. L’unica via d’uscita era saltare dalla finestra sul retro, da un’altezza di sei metri. Dissero a Maurizio di andare con loro ma lui rifiutò. Mentre si dileguavano tra i boschi, udirono un colpo di arma da fuoco. Maurizio si era tolto la vita.
Gli altri due furono catturati più tardi quella sera. Come Maurizio Incaudo, uno degli altri due era un carabiniere. Il terzo aveva ventisei anni e un curriculum interessante alle spalle: nel 1982 era stato espulso dall’accademia di polizia a Trieste per atti di violenza, ed era stato arrestato varie volte per rissa e rapina a mano armata. Aveva attaccato dei tifosi dell’Inter e dei carabinieri, e fino al giorno del suo arresto era stato il capo del principale gruppo di ultrà della Juventus: i Drughi.