Cosenza, oggi

 

 

 

 

 

 

 

Ci sono sette striscioni, ognuno misura circa otto metri ed è fatto di carta da parati. Li stiamo rendendo impermeabili coprendoli interamente con del nastro adesivo per proteggerli dalla pioggia. Il nastro è largo appena cinque centimetri, il che significa che dovremo adoperarne una quantità esorbitante per tutti gli otto metri di lunghezza, moltiplicato per sette.

Mentre la banda è al lavoro, intona canzoni brevi della durata di due o tre secondi. Altri si uniscono al coro e ridono. Poi cala il silenzio, finché non si passa allo striscione successivo. Suriciu srotola il nastro con una tale potenza da farlo rimbombare. Taglia un’estremità dello scotch con la lama del coltello, lo schiaccia contro il retro dello striscione e poi tira un’altra volta, passandomi l’altra estremità rimasta libera.

Ha un aspetto leggermente trasandato. La sua barba è incolta e i baffi sono lunghi. Potresti scambiarlo per sbaglio per un furfante. Ha messo su un po’ di pancia e ha la cerniera dei pantaloni rotta. Ma urla, discute e scherza in continuazione, fingendo di essere arrabbiato.

Ogni persona che arriva porta qualche rotolo di nastro adesivo. «Tutto a posto?», chiedono appena entrano. Inclinano la testa per leggere gli striscioni: “No al caro biglietto”, recita uno, scritto con lettere rosse e blu. Un altro implora il presidente della società di abbassare il costo dei biglietti. Sotto alcuni aspetti, è una battaglia contro la tribuna. Al momento il biglietto per entrare in curva costa dieci euro e quello per la tribuna dodici, perciò molte famiglie optano per la seconda, più tranquilla e sicura, che consente anche una migliore visione della partita. Questo significa che il gruppo ultrà rivale – Anni Ottanta – ha riempito i posti in tribuna più facilmente. Suriciu vuole che i tifosi tornino a prediligere la scelta più popolare, abbassando i prezzi della parte centrale degli spalti, alle spalle della porta. Dopotutto, la curva è sempre stata il settore più economico – le uniche sedute sono scalinate di cemento – e maggiore è la differenza di prezzo con la tribuna, più adepti avrà la curva.

Ci vuole un bel po’ di tempo per ricoprire di nastro adesivo gli striscioni. Una volta completato il primo, si passa al secondo e così via. Decidiamo così di fare una pausa e ci dirigiamo al piano di sopra dove c’è un frigorifero che illumina la stanza buia. Tiriamo fuori delle birre, mettendo delle monete all’interno di un pacchetto di sigarette che serve da salvadanaio. «È stato un campionato particolare», dice MonSicca. «Ma noi siamo sempre qui. È questo che conta».

Dopo quel piccolo barlume di speranza dato dalla vittoria contro la Reggina, le cose hanno ricominciato a mettersi male per il Cosenza. Hanno perso a Monopoli e, come se non bastasse, anche a Catanzaro. Ma nella campagna acquisti di gennaio, Braglia, il nuovo allenatore, ha compiuto delle mosse intelligenti. Ha preso in prestito David Okereke, giocatore dello Spezia, e comprato un attaccante dall’Ascoli di nome Leonardo Perez (che aveva l’abitudine di esultare facendo il saluto romano per i suoi ammiratori fascisti). L’eccitazione e i dubbi per i nuovi acquisti sono così palpabili che a chiunque abbia un accento straniero in città viene chiesto se per caso è il nuovo giocatore dei Lupi. «Ma voi», mi chiede qualcuno, usando la seconda persona plurale, «siete qui per gioca’?».

Quell’inverno il Cosenza vinse cinque partite di fila. Un giocatore francese dalla testa pelata di nome Baclet aveva segnato una doppietta. Anche Gennaro Tutino aveva realizzato parecchi gol. Quando la squadra vinceva ci si sentiva come in famiglia. Kevin, figlio dell’ormai defunto Gigi Marulla, leggenda della squadra, faceva parte dello staff, mentre Thomas Braglia, figlio dell’allenatore, si era unito alla rosa.

Lo stadio apre prima dell’ora di pranzo, così appendiamo tutti gli striscioni. La polizia e la dirigenza della società ci guardano da lontano: “Cosenza siamo noi”, “Lo sballo continua”, “Quote rosa Cosenza”. La vernice bianca ha qualche crepa ma dà come un senso di attaccamento alle tradizioni. Come scritto intorno al volto sorridente di Donato Bergamini, “La nostra curva, la nostra storia”.

Andiamo a cercare qualcosa da mangiare per pranzo, ma è domenica e tutti i negozi sono chiusi. Ci vuole mezz’ora di urla gioviali per decidere che alla fine andremo al supermercato. La ragazza alla cassa vede una banda di ultrà e ci chiede di posare tutte le borse e gli zaini che abbiamo in mano, dato che, come mi dice in maniera affabile: «Ne verranno altri di voi». Decide quindi di chiudere in fretta, così prendiamo le borse e ci trasciniamo verso l’uscita. Decine di altri tifosi si accalcano all’ingresso ma Suriciu, sconsolato, dice: «È chiuso, è chiuso». Ne segue una discussione su chi sia l’idiota che ha deciso di venire fin qui.

Ci facciamo un giro in macchina nel tentativo di trovare un bar abbastanza folle da farci entrare tutti. Il convoglio va avanti, prendendo in giro da fuori i finestrini i nostri compagni e gli anziani. Alle tre arriviamo in una pizzeria. Ora hanno tutti fame e solo U Mundatu continua a incitare la folla, cantando, gridando e facendo casino. Rompe un bicchiere e, mentre ci sediamo, i pochi clienti della domenica se ne vanno in fretta.

Beviamo e mangiamo e beviamo e cantiamo. Quando torniamo allo stadio, il sole invernale illumina le collinette sabbiose dietro il lato nord del campo. Rinchiusi in un angolo sugli spalti ci sono un’ottantina di Aretusei, il nome che i giornalisti colti danno ai tifosi del Siracusa. Il loro settore, da questa parte delle gradinate, sembra un minuscolo triangolo colorato da bandiere bianche e blu. A sinistra si trovano la tribuna, il gruppo Anni Ottanta e i tifosi non-ultrà, che insieme costituiscono la maggior parte del sostegno cosentino.

Inizia la partita. I calciatori inseguono il pallone. Cantiamo «Cosenza» sulle note di Volare. Non succede nulla in campo, l’unica distrazione è Mezzochilo sulla pista che, con la sua pettorina verde e la macchina fotografica, mostra tutta la sua professionalità. «Mezzochilo è uno di noi», fa il coro, dicendo a tutti che anche il fotografo della stampa che si trova laggiù è un ultrà.

È raro trovare uno stadio italiano che non abbia una pista di atletica intorno al terreno di gioco. Per un tifoso inglese la partita sembrerebbe troppo distante. Probabilmente quel divario tra il luogo dove si svolge l’azione e gli spettatori è una metafora per il divario che c’è tra gli italiani e il loro governo. Ma quelle piste di atletica danno l’impressione che si stia guardando un match con il binocolo al contrario, così alla fine è più divertente guardare U Mundatu che urla nel crepuscolo invernale.

In curva troverai sempre qualche conoscente e qualcuno che invece non hai mai visto. Imparerai sempre tutti i cori, anche se ogni domenica ce n’è uno diverso. A un certo punto, ci annoiamo della partita, che ha tutta l’aria di finire sullo 0 a 0, e iniziamo a cantare «Siamo figli di Telesio». Ecco un altro aspetto degli ultrà, in un coro del tutto inatteso: proprio quando ti sembrano dei totali sbandati, ti sorprendono con la loro erudizione. Con molta probabilità pochi di loro avranno letto il filosofo del sedicesimo secolo, che rimane tuttavia una fonte di orgoglio qui a Cosenza. Non si vantano solo di avere la pelle più dura dei siciliani del Siracusa, ma anche di essere più istruiti. Mi ricorda un altro coro sentito qualche mese prima, quando gli ultrà del Torino si rivolsero al direttore sportivo della Juventus chiamandolo non «figlio di puttana», ma «figlio di Polifemo», il ciclope dell’Odissea che possedeva pecore giganti. È difficile immaginare degli hooligan inglesi che citano nei loro insulti il nome di David Hume o di qualche figura della mitologia greca.