Fermo, 2017-18

 

 

 

 

 

 

 

Sotto le scalinate degli spalti vendono sciarpe con su scritto: “Amedeo è con noi”. Un vecchio borbotta qualcosa al ragazzo dietro al banco pericolante, ma lui non la prende troppo bene e lo manda a quel paese, facendo rimbalzare le dita su e giù ad altezza della vita. Accanto a un idrante è stato appiccicato tutto storto un adesivo con la scritta “Amedeo libero”. Gli ultrà pensano sia stato l’ennesima vittima di uno Stato repressivo. In un angolo dello stadio c’è un cesso di cemento con i soliti graffiti all’interno – “Infiammati ma non bruciarti” – accompagnati da croci celtiche disegnate alla bell’e meglio. Non un simbolo di pietà ma di fascismo anabolizzante.

La partita è il tipico match impetuoso tra la prima in classifica (la Fermana) e la quarta (la Vis Pesaro). È un derby di fine stagione, quindi la posta in gioco è alta. I centrocampisti passano parecchio tempo a terra, afferrandosi gli stinchi o la schiena mentre cadono a terra con un urlo. La palla viene passata da un lato all’altro in maniera abbastanza pulita finché l’ala sinistra della Fermana non la manda di nuovo in tribuna.

Fermo è una cittadina di trentacinquemila anime arroccata sulla cima del colle Girfalco. Il nome ha a che vedere con l’ostinazine, e deriva da una frase pronunciata all’epoca dell’impero romano – Firmium Firmae fidei romanorum colonia (“Fermo, colonia romana di ferma fede”) – come riconoscimento per l’affidabilità dimostrata dalla gente del posto durante la seconda guerra punica. Nel medioevo da queste parti si era soliti dire: «Quando Fermo vuol fermare, tutta la Marca fa tremare».

Questa solidità si mescola a uno squisito tessuto sociale. Al tramonto piazza del Popolo ospita capannelli di anziani che parlano di calcio e politica. Le coppie stanno sedute ai tavoli dei bar con bicchieri di aperitivi dal colore arancione acceso o rosso sangue. Davanti a Palazzo Priori i bambini si rincorrono ridacchiando. Il sindaco è un tifoso sfegatato della Fermana che ha lavorato come avvocato difensore degli ultrà e ora gira per i bar chiacchierando amabilmente con chiunque gli faccia cenno di avvicinarsi. In un locale paga da bere a tutti senza farsi notare. «Ha pagato il sindaco», grida il barista mezz’ora dopo.

A nord-ovest del Girfalco, sul vicino Colle Vissiano, c’è un seminario. Mischia architettura sovietica con materiali italiani del ventesimo secolo come mattoni color ocra chiaro e cemento armato, spiccando sopra agli uliveti grigio-verdi e i cipressi come un ospedale o una prigione. Il suo aspetto imponente è un ricordo dei decenni passati, quando per tanti ragazzi italiani prendere voti era una scelta comune, ma nel 2014 era praticamente vuoto: solo qualche sacerdote era rimasto in attesa di un revival religioso che non era mai avvenuto.

Ma nell’aprile di quell’anno cambiò tutto. C’era un prete che riempiva tutti i letti della struttura. Don Vinicio aveva passato gran parte della sua vita ad avviare il progetto della Comunità di Capodarco e tutte le altre associazioni satellite. Capodarco si trovava su una collinetta a un paio di chilometri di distanza dal seminario che affacciava sul mare. Tutte le altre comunità nate successivamente ne hanno preso in prestito il nome. I decenni di lavoro con i diversamente abili, con i tossicodipendenti e con le persone uscite da poco di prigione o dagli ospedali avevano reso Don Vinicio un uomo stanco e autoritario. Era sempre stato alla mano e informale ma non era il tipo da sprecare il fiato. «Quella cosa è stata fatta?». «E là com’è andata?». Rispondeva al telefono e dava ordini.

Nell’aprile del 2014 Don Vinicio era seduto nel suo ufficio dal soffitto alto nella prima comunità che aveva fondato. Circondato da immagini religiose, fumetti, palloni, cartelline, fossili e rocce, fumava una sigaretta sottilissima dopo l’altra, sotto la luce del neon. La sua segretaria si affacciò alla porta per dirgli che c’era il vescovo al telefono.

Il vescovo disse al prete che il prefetto aveva un problema. Il ministero degli Interni aveva deciso che Le Marche dovevano offrire riparo a cinquanta richiedenti asilo. Sarebbe stata una questione spinosa per ogni politico astuto: a essere troppo ospitali in quel momento di crisi si rischiava di perdere la base elettorale, ma se non ti mostravi disponibile a collaborare col ministero degli Interni, avresti potuto indispettire i superiori, che avrebbero rovinato te e la tua carriera. Il prefetto sapeva dunque di dover assecondare il flusso degli eventi ma aveva bisogno di un alleato sul campo che potesse trovare una struttura per i richiedenti asilo, e si era rivolto al vescovo che a sua volta si era rivolto al vecchio amico Don Vinicio.

Secondo alcune voci di corridoio, Don Vinicio rispose che li avrebbe ospitati nel seminario. Si mise al lavoro e due giorni dopo aveva pronti letti per cinquanta anime. Il seminario divenne un centro d’accoglienza e cominciarono a riempirsi di esuli che per raggiungere l’Europa avevano sfidato i deserti del Nord Africa e le acque del Mediterraneo. Nei mesi successivi le stanze del palazzo vennero dipinte di colori brillanti: verde pastello, rosa, arancione e giallo. Don Vinicio incaricò una suora severa ma gentile di occuparsi della struttura. Suor Rita aveva superato i trent’anni, era una donna alta che faceva parte di un nuovo ordine di suore chiamato Piccole Sorelle della Visitazione, fondato nel 2008 e ispirato al radicalismo di un prete francese assassinato in Algeria, Charles de Foucauld.

Nei due anni seguenti, Suor Rita e Don Vinicio impararono molte cose sul traffico umano e sulle sue conseguenze. Quando i migranti mettevano piede sul suolo italiano non avevano nulla – niente documenti, soldi e autostima. Possedevano soltanto la propria storia, piena di sofferenza e, a volte, anche di invenzioni. Suor Rita e Don Vinicio divennero esperti a riconoscerle. Tuttavia molti non avevano bisogno di abbellire le proprie testimonianze: credevano che casa loro fosse l’inferno, finché non avevano provato ad andarsene per viverne uno ancora peggiore. Erano in pochi a non aver testimoniato in prima persona stupri, rapine e persino omicidi. Non c’era da sorprendersi che fossero così suscettibili e bisognosi quando arrivavano fra le eleganti strade delle Marche.

Le mura dell’ufficio di Suor Rita si ricoprirono delle foto segnaletiche dei rifugiati: stampe grandi, formato A4, dei volti scuri. Con lei lavorava solo poca gente ed era sopraffatta da una quantità enorme di documenti da compilare. Sfamare cinquanta persone era già dura, ma nel corso degli anni il numero salì fino a oltre il centinaio. Iniziarono a stabilire delle regole: niente alcol, niente droghe, coprifuoco a mezzanotte e via dicendo. L’operazione diventava sempre più grande e ogni mese arrivava gente nuova. Abbastanza spesso, i giovani ottenevano lavoro come volontari, entrando così nelle grazie della gente del posto e stringendo amicizie. Se tutto procedeva secondo i piani, a qualcuno veniva offerta l’opportunità di fare apprendistato. Altre volte, però, alcuni causavano dei problemi – facevano scoppiare rivolte, lanciavano il cibo o diventavano aggressivi – e venivano prontamente allontanati. Suor Rita, che all’aspetto sembrava una donna semplice, in realtà aveva una tempra d’acciaio.

Fino alla fine del 2015 i rifugiati erano soltanto uomini. Ma poi nel settembre dello stesso anno arrivò una coppia. Nessuno sapeva da quanto tempo Emmanuel e Chinyere stessero insieme. Si diceva che la loro casa in Nigeria fosse stata incendiata da Boko Haram, che aveva ucciso i genitori di Chinyere e l’unica figlia della coppia. Nel viaggio per arrivare in Libia, Chinyere aveva avuto un aborto spontaneo. Sotto il tetto del seminario i due vivevano come una coppia di fatto. Emmanuel era alto con la faccia da ragazzo della porta accanto, serio e sorridente allo stesso tempo. Chinyere era più severa e più astuta, anche se con i suoi ventiquattro anni era dodici anni più giovane di lui. Era la sola donna a cui era permesso vivere tra gli uomini all’interno del seminario, che ormai erano diventati centoventisei. Don Vinicio li sposò il 6 gennaio del 2016 a San Marco alle Paludi. Fu una cerimonia elegante, una graziosa commistione di stile italiano ed esuberanza africana: fiori, tacchi alti, tamburi e danze.

Non tutti a Fermo erano però così tolleranti. C’era un uomo chiamato Amedeo, noto per tirare noccioline sui ciottoli di fronte al bar che frequentava quando gli passavano accanto i richiedenti asilo. «Hai fame, scimmia?», li scherniva quando passavano. Amedeo Mancini aveva una lunga lista di precedenti per possesso d’arma da fuoco, rissa e violenza allo stadio, spesso accompagnata da lancio di pietre. Nel corso degli anni aveva ricevuto tre Daspo.

Peggio delle noccioline lanciate sul pavimento erano le bombe piazzate da ignoti, nella primavera del 2016, all’uscita di alcune chiese, ordigni rudimentali ma comunque pericolosi. Ci furono esplosioni fuori dal Duomo e fuori dalla chiesa di San Tommaso nel quartiere Lido Tre Archi. L’ingresso di San Marco alle Paludi venne danneggiato gravemente da una bomba esplosa nella notte tra il 12 e il 13 aprile. Si pensò che il vero obiettivo fosse Don Vinicio, all’epoca già famoso per il suo lavoro con gli immigrati. A maggio un ordigno inesploso venne rinvenuto fuori da San Gabriele dell’Addolorata.

Il martedì 5 luglio del 2016 gli immigrati erano in fila alla fermata, aspettando gli autobus che li avrebbero condotti sulla costa o alla stazione ferroviaria più vicina. La fermata era su uno slargo panoramico semicircolare a ridosso del tornante di via Veneto, un posto meraviglioso, da cui si può osservare l’intera estensione dei Monti Sibillini, coi picchi coperti di neve. Sembra impossibile con quel caldo. C’è anche una mappa che aiuta nell’identificazione delle cime: Monte Vettore, Cima del Redentore e Monte Sibilla. Chinyere si era fermata a bere a una fontanella e suo marito Emmanuel si stava specchiando nel finestrino oscurato di un’auto parcheggiata.

Quando Chinyere si raddrizzò vide due uomini che si stavano avvicinando. Ne riconobbe uno – quel duro di bell’aspetto che stava sempre seduto ai tavolini del bar a metà strada tra la fermata e il seminario. Era il tipo che le tirava le noccioline. Indossava una maglietta del gruppo rock di estrema destra zza, il cui frontman era il leader di CasaPound Gianluca Iannone. “Fino alla fine”, c’era scritto sulla maglietta.

«Scimmia», le disse Amedeo.

«Scimmia a chi?», rispose Chinyere furibonda.

Poi l’uomo si avvicinò a Emmanuel. «Perché guardi dentro la macchina? Che cazzo credi di fare, negro di merda? Ora ti metti pure a rubare le macchine?».

Chinyere stava già strillando: «Razzista, razzista».

L’amico di Amedeo Mancini provava a sdrammatizzare: «Amede’», diceva. «Lasciala stare, è una donna. Non reagire».

Le testimonianze oculari su quello che accadde in seguito sono contrastanti. Qualcuno dice che Emmanuel, arrabbiato per l’abuso che la moglie stava subendo, prese un cartello stradale – uno di quelli temporanei che vengono fissati a terra con sacchi di sabbia – e colpì Amedeo facendolo cadere a terra. Altri dicono che non si comportò affatto in maniera aggressiva.

Sembrava che il diverbio fosse terminato. Due ausiliari del traffico, e altre persone che avevano assistito alla colluttazione cominciarono ad allontanarsi. Mancini però era un pugile allenato e non gli piaceva arrendersi. Era stato insultato da qualcuno che considerava inferiore e stava ribollendo di rabbia. Andò da Emmanuel e lo prese a pugni con forza. Il nigeriano cadde a terra e sbatté la testa, e Mancini lo riempì di pugni e calci.

«Guarda come l’ho colpito bene», disse Mancini nel dialetto locale. «Lo so’ allungato».

Emmanuel non riprese mai più conoscenza. Sembrava fosse rimasto coinvolto in un incidente stradale ad alta velocità. Riportò fratture craniche, e aveva le labbra così gonfie che sembravano la camera d’aria della ruota di una bicicletta, la mandibola, le braccia e le gambe erano livide.

La preoccupazione principale di Suor Rita erano le possibili rappresaglie dei suoi ragazzi. L’atmosfera in seminario era tesa. Parlavano tutti di quello che era successo e parecchi pensavano fosse ora di prendere in mano la situazione. Erano accorsi tanti giornalisti che Suor Rita alla fine dovette cacciarli via.

Don Vinicio era furioso. Stavano demonizzando Emmanuel additandolo come colpevole. C’era stato un tentativo di equiparare i comportamenti dei due uomini, ma Don Vinicio non c’era cascato. Emmanuel era stato malmenato come un tappeto durante le pulizie di primavera, mentre Mancini non aveva neanche un graffio. Pur essendo un prete di provincia, Don Vinicio aveva parecchi contatti a Roma. Conosceva alcune delle firme più in vista del giornalismo italiano – Enrico Mentana di La7 e Carlo Rossella di Canale 5 – e li chiamò tutti, dicendo che stava per tenere una conferenza stampa.

Il giorno dopo l’aggressione, mentre Emmanuel era ancora in coma, Don Vinicio sedette a una minuscola scrivania, con Suor Rita al suo fianco e un avvocato che rappresentava la coppia nigeriana. Andò dritto al punto. «Quello che mi preme è che non si dica sia stata una zuffa di neri. C’è stata una provocazione gratuita da alcuni ultrà, e io credo la cosa possa essere collegata con le bombe». Facevano parte dello stesso «clima», disse, «un contenitore di un magma formato da violenza, aggressività, frustrazione, esibizionismo». I responsabili non erano organizzati, erano «schegge impazzite in grado di coagularsi all’occorrenza».

Si spinse addirittura oltre, accusando la città di tollerare le attività dei delinquenti locali: «C’è la copertura che non è esplicita ma è infida, io la chiamo vigliacca». Concluse la conferenza stampa sperando che nessuno dei diciannove nigeriani presenti in seminario volesse vendicarsi. «L’odio porta solo altro odio». Poco dopo l’incontro con la stampa, alle tre e mezza di pomeriggio del giorno successivo all’aggressione, Emmanuel fu dichiarato morto.

Una settimana dopo l’omicidio, il 13 luglio del 2016, gli ultrà della Curva Duomo scrissero sulla loro pagina Facebook: «Volevamo fare un plauso a tutti i ragazzi della curva, soprattutto ai più giovani, per come hanno gestito la gogna mediatica di questi giorni. Da questa storia ne usciamo a testa alta; più forti! più maturi! più uniti! […] Ultrà è soprattutto questo; non abbandonare un amico in difficoltà». In un altro post del 7 agosto 2016, dedicato ad Amedeo Mancini, dal titolo: «Un mese senza di te», scrissero: «Si sente la tua mancanza; nelle vie del centro e soprattutto la domenica in curva, lì su quei gradoni dove siamo cresciuti insieme e insieme […] Sei sempre stato e sempre sarai l’anima della Curva Duomo». Come spesso accade, la retorica degli ultrà riecheggiava sinistramente quella religiosa. Invece di «Dio è con noi», allo stadio si iniziò presto a cantare «Amedeo con noi». In seguito gli ultrà predisposero un conto corrente per sostenere le spese legali di Mancini.

A ottobre Mancini venne rilasciato e messo ai domiciliari. Sebbene avesse sempre negato qualsiasi movente razziale dietro all’aggressione, alla fine patteggiò dichiarandosi colpevole di «omicidio involontario aggravato dall’odio razziale». Per molti quella sentenza del 18 gennaio 2017 era ridicola: quattro anni di arresti domiciliari col permesso diurno per andare al lavoro. Venne liberato perfino da quella sentenza indulgente nel maggio del 2017, quando fu rilasciato dagli arresti domiciliari per buona condotta. Meno di un anno dopo l’omicidio, Mancini aveva soltanto l’obbligo di firma una volta al giorno presso la centrale dei carabinieri. Nel frattempo Don Vinicio stava ancora provando a raccogliere i cinquemila euro necessari al rimpatrio della salma di Emmanuel in Nigeria. La soffiata di una giovane aiutò la polizia a identificare altri due tifosi della Fermana come gli autori degli ordigni rudimentali piazzati fuori dalle chiese. La vedova di Emmanuel, Chinyere, aveva fatto perdere le sue tracce.

Ma allo stadio, però, non vedi il razzismo neanche se ti metti a cercarlo. In mezzo alla curva c’è una donna di colore che guarda la partita col suo compagno. Ci sono moltissimi ragazzi di razza mista, poco più che adolescenti, che battono le mani sul coro costante: «Amedeo con noi». In un mondo così fortemente imitativo, spesso ci si limita a seguire un esempio senza comprenderne il significato. Vieni assorbito da una realtà che è più grande di te, di cui fanno parte allo stesso modo sia l’incanto che il rischio. L’estasi che si prova ad avere un legame così profondo delle volte rende ciechi.

A dieci minuti dalla fine, Edoardo Ferrante – un difensore centrale con la barba rossiccia – segna di testa proprio davanti agli ultrà, che corrono subito alla barriera di plexiglass che li separa dalla mischia dei giocatori in campo. «Siete delle merde», cantano ai pesaresi, «sarete sempre delle merde».

Il quarto d’ora successivo è pura beatitudine. È spuntato il sole e ora si riesce a vedere l’Adriatico, ricordando a tutti che l’estate è alle porte. La promozione in Serie C della Fermana ormai è praticamente certa e i tifosi gorgheggiano l’intero repertorio di cori. Sembra che la speranza di questa promozione stia risollevando l’umore di tutta la città. Mentre usciamo dallo stadio il sindaco Paolo, di ritorno da un funerale, mi viene incontro e mi saluta. «Come vedi», dice, «questo è un posto tranquillo».

 

Nessuno sa bene perché, ma nel 2016, all’improvviso il presidente della società Claudio Lotito entrò nelle grazie dei capi degli Irriducibili della Lazio. Gli scettici suggeriscono che le due parti abbiano suggellato una sorta di patto. Parte degli Irriducibili si sentì talmente oltraggiata per questo voltafaccia da abbandonare il gruppo. Nonostante fosse agli arresti domiciliari, Diabolik rilasciò un comunicato nel gennaio 2016 che invitava tutti i tifosi laziali a una riunione all’aperto. Si lamentò del «triste momento» sugli spalti e aggiunse: «Forza amici e tifosi. Oggi come oggi è il momento di riunirci, ritrovarci tutti, di andare in trasferta insieme come si faceva una volta […] Tifosi tutti, serriamo i ranghi. È ora di marciare!».

La maggior parte dei comunicati ultrà vengono firmati a nome del gruppo, non ci sono nomi. Questo invece era altamente personalizzato. C’era scritto Irriducibile, al singolare. Era firmato con quel soprannome scherzosamente diabolico: Diabolik. E c’era un risvolto sottile, un’allusione al giorno in cui non sarebbe più stato agli arresti domiciliari: «Ma vi giuro che mi sento come un leone in gabbia…. per di più affamato. Prima o poi finirà e il mio posto tornerà ad essere quello di sempre… tra voi, tra la mia gente, il mio gruppo, la mia curva». Suonava stramente come il ruggito minaccioso di un attempato dittatore che temeva un colpo di stato.

Nel giro di un anno il gruppo aveva riacquistato il controllo, tornando ad appendere il proprio striscione al centro della Curva Nord. Quasi subito ripresero le cupe trovate di spirito degli Irriducibili. Tre manichini con la maglia della Roma vennero impiccati al centro della città, con il messaggio: “Un consiglio, senza offesa: dormite con la luce accesa”. Durante un allenamento prima del derby, gli ultrà si misero a gridare ai giocatori ammutoliti e quasi impauriti: «È più di una battaglia per noi, è guerriglia etnica».

Nel 2017 gli Irriducibili distribuirono delle guide di stile ai tifosi della Lazio. C’erano disegnati due tifosi uno accanto all’altro – uno laziale e l’altro generico – e venivano dati ordini su come vestirsi: il cappello da baseball doveva avere la visiera davanti, erano permessi soltanto occhiali da sole Persol e Ray-Ban, le scarpe dovevano essere New Balance o Clarks. Si suggeriva anche l’altezza del cavallo dei pantaloni e si esprimeva disprezzo per i capelloni del «Brescia e del Bergamo» e per gli «zingari» del Pescara. In quegli ordini non c’era nulla di ironico o umoristico. Era un tentativo di despotismo sartoriale espresso in una prosa sciatta.

Quel volantino esprimeva in maniera eloquente l’essenza degli Irriducibili: l’arroganza di imporre un modo di vestirsi a migliaia di persone, quel retrogrado atteggiamento di disprezzo nei confronti di un presunto declino culturale, l’idea che ci fosse una gerarchia rigida in cui le prime file erano riservate ai capi e le ultime agli zotici. Invece dell’estrosa ribellione degli ultrà dei decenni precedenti – che implicava il rigetto di qualsiasi omogeneità sartoriale italiana – gli Irriducibili pretendevano ora conformismo. Distorceva la famosa mentalità ultrà fino al manierismo, e come sempre dietro agli Irriducibili c’era un esplicito progetto capitalistico. Se decine di migliaia di tifosi della Lazio adottavano un’uniforme, i responsabili della gestione del merchandising potevano guadagnare molti più soldi.

Nel luglio del 2017, poco dopo aver ripreso possesso degli spalti, il gruppo rilasciò un altro comunicato: «Teniamo a precisare quanto segue: il gruppetto Lazio Hit Firm già da qualche mese non esiste più. Non esporrà più né pezze né striscioni. Ai ragazzi di curva, e ai giovani che verranno, si ricorda e si precisa che nella nostra Curva Nord la linea da seguire è, e rimane, quella del gruppo unico». Non era certo la prima volta che le tendenze totalitarie della banda diventavano palesi: non sarebbe stato tollerato alcun rivale o opposizione.

Pochi mesi dopo, a ottobre, i tifosi della Lazio coprirono la Curva Sud dello Stadio Olimpico di adesivi che ritraevano Anna Frank con la maglia della Roma. Era l’ennesima ripetizione della vecchia battuta di pessimo gusto dell’avversario ebreo destinato a morire giovane. Andava avanti da anni. Nell’aprile del 2001 uno striscione laziale insultava i romanisti dicendo: “Squadra de negri, curva d’ebrei”.

Per compensare quel clima antisemita, il fine settimana successivo le autorità calcistiche italiane decisero di far leggere su ogni campo da gioco passaggi del diario di Anna Frank, seguiti da un minuto di silenzio. Forse era un’intenzione nobile, ma in realtà si creò un’atmosfera surreale, e durante quelle giornate gli stadi si trasformarono in classi di recupero per studenti in punizione che avevano bisogno di una raddrizzata. Gli ultrà non amano prendere lezioni, specialmente dai poteri forti del calcio, e gli ultrà della Juventus volsero la schiena al campo e si misero a cantare l’inno italiano. Quando i giocatori della Lazio indossarono magliette bianche con il volto di Anna Frank e la scritta: “No all’antisemitismo” sotto, i loro ultrà – allo Stadio Dall’Ara di Bologna – si misero a cantare il vecchio slogan mussoliniano «Me ne frego». Gli ultrà dell’Ascoli entrarono di proposito allo stadio dopo il minuto di silenzio, rilasciando una dichiarazione in cui sostenevano: «Non vogliamo essere complici del teatro istituzionale e mediatico che dimentica le vittime del terremoto e gli anziani, ma che è pronto a scattare per una decina di adesivi».

Il minuto di silenzio, che veniva spesso usato a inizio partita, per gli ultrà era sempre un gol a porta aperta. A ottobre del 2013, dopo che circa 368 rifugiati erano affogati a largo di Lampedusa, agli stadi venne di nuovo chiesto di osservare un minuto di silenzio, durante il quale gli ultrà juventini si misero a cantare l’inno nazionale e quelli della Lazio «Forza Lazio alè». L’opinione degli ultrà laziali sull’immigrazione era chiarissima. Su uno dei loro striscioni si leggeva: “Agli Ultras diffide e carcere per tifare e agli immigrati luoghi sicuri per spacciare e violentare. Questa è la vostra Europa”.

Ogni commemorazione diventava per gli ultrà un pretesto per sbandierare la propria fede politica. Quando, prima di un derby locale nel novembre del 2017, Dante Unti – il novantottenne toscano sopravvissuto all’olocausto – venne omaggiato con uno stendardo dalla squadra locale della Lucchese, gli ultrà notoriamente di estrema destra evitarono di presentarsi. Durante la festa di fine campionato per la Curva Sud dell’Hellas Verona nell’estate del 2017, Luca Castellini (una delle figure di spicco di Forza Nuova) prese il microfono: «Chi ha permesso questa festa, chi ha pagato per tutto, chi ha dato le garanzie? Ha un nome: Adolf Hitler». Sarebbe stato più semplice considerare le sue parole come i vaneggiamenti di un folle se la curva non avesse iniziato a ridere e a applaudire cantando quella vecchia canzone in rima in cui si diceva che l’Hellas Verona era una «squadra fantastica» fatta con la «svastica».

Ora che gli Irriducibili avevano ripreso il controllo degli spalti, imponevano la loro ideologia. Un altro volantino lasciato sui seggiolini di tutta la Curva Nord nell’agosto 2018 impediva alle donne di sedere nelle prime dieci file: «La Nord», diceva il volantino, «per noi rappresenta un luogo sacro. Un ambiente con un codice non scritto da rispettare. Le prime file, da sempre, le viviamo come fossero una linea trincerata. All’interno di essa non ammettiamo donne, mogli e fidanzate, pertanto le invitiamo a posizionarsi dalla 10a fila in poi».

Quando l’ennesima tempesta mediatica travolse i talibans della curva, gli Irriducibili replicarono con un prolisso comunicato che sembrava frutto di follia. Si scagliava contro donne «ubriache, barcollanti» che perdevano di vista i propri figli per farsi un selfie, contro lo «scellerato femminismo», contro la «pedofilia» e lo «strabismo ideologico». Tuttavia, quelle sciocchezze farneticanti nascondevano una velata minaccia. Il gruppo intimò al responsabile comunicazione della Lazio (che aveva tentato di sottolineare l’estraneità del club dall’imposizione del settore dedicato ai soli uomini) di non «prendere le distanze da ragazzi che magari potrebbero essere anche amici della figlia stessa».

Altri gruppi ultrà sostenevano gli Irriducibili. La curva siracusana si vantò, senza ironia, che non ci fosse «sessismo o discriminazione contro le donne sedute nelle file dietro», perché erano state educate «con ordine e disciplina». La sezione femminile del gruppo, Le Aretusee, si sciolse subito in segno di protesta, annunciando: «Vogliamo prendere le distanze da questa mentalità».

L’espulsione delle donne dalle prime file simboleggiava l’occupazione territoriale degli Irriducibili. Per un gruppo che aveva preso il controllo dello spaccio nella capitale, assumere il controllo della curva era semplice. Molti tifosi, e persino diversi ultrà erano sconcertati da quell’occupazione. Gruppi come We Love Lazio denunciarono coraggiosamente l’idiozia degli Irriducibili. «Non esiste giustificazione alcuna per questo continuo svilimento», scrissero dopo la comparsa degli adesivi di Anna Frank. «Non è goliardia, è miseria umana». È l’esempio di un’organizzazione chiamata Laziale e Antifascista che si batte contro l’etichetta del “lazi-fascista”.

Pochi mesi dopo ho incontrato uno dei luogotenenti di Diabolik a una partita della Lazio all’Olimpico. Franchino, un uomo enorme e muscoloso che ha superato la soglia dei quarant’anni, non è il tipo di persona semplice da avvicinare. Bisogna passare tramite il suo entourage di scagnozzi, di intermediari, faccendieri e amici. E quando alla fine riesci ad arrivare a lui, ti vengono concessi solo pochi minuti, come se avessi chiesto udienza a un qualche signore feudale. Gli ho chiesto se il suo gruppo non fosse un po’ troppo arrogante. Si è limitato a sorridere in modo distaccato e a scuotere la testa. «È improbabile che un tifoso laziale si azzardi ad alzare la voce […] chi è arrogante viene subito emarginato, perché siamo molto gerarchici e militarizzati». Stava inconsapevolmente confermando la mia tesi pur dichiarando l’esatto opposto: non erano una manica di arroganti perché sapevano stare tutti al loro posto.

 

Quello che una volta era inconcepibile lontano dagli spalti stava ormai diventando la norma. A Roma venti sampietrini di bronzo che commemoravano l’Olocausto vennero strappati dal selciato e trafugati. L’insegna dell’Istituto Anne Frank di Pesaro venne vandalizzata con una svastica dipinta a bomboletta spray e il cartello di divieto di ingresso ai cani venne modificato in “divieto di ingresso agli ebrei”. Gli skinhead di un’organizzazione neonazista chiamata Veneto Fronte Skinhead, indossando tutti un bomber nero, interruppero una riunione dell’associazione Como Without Borders, accusando i volontari di tramare un piano per sostituire i popoli europei con gli immigrati. Tra quegli skinhead c’era un ultrà del Piacenza che era stato condannato a sei anni per aver accoltellato due persone nel 2009. Si scoprì che uno stabilimento balneare sulla spiaggia di Chioggia era un parco a tema fascista, un’autoproclamata «zona anti-democratica» che vendeva cimeli mussoliniani e che aveva sostituito il cartello “accesso vietato” con quelli delle “camere a gas”

Ognuna di queste notizie non aveva particolare rilievo, ma la costanza con la quale si verificavano convinse il quotidiano «Il Tempo» a eleggere Benito Mussolini «personaggio dell’anno» nel 2017. Non si trattava di una goliardata ma di un fatto reale, visto che il Duce finiva in prima pagina tutte le settimane. La cosa sorprendente non era il sentimento nostalgico nei confronti del ventennio da parte di qualche canaglia, ma che quelle stesse convinzioni animassero chi occupava posizioni istituzionali. Una bandiera neonazista venne appesa dentro una caserma dei carabinieri a Firenze. Un professore di Rivarossa si vantò di essere fascista. Un altro professore di un liceo Massa Carrara pubblicò una sua foto ritratto dove sventolava una bandiera della Repubblica di Salò in cima al Monte Sagra, sugli Appennini.

Tutti i partiti politici di destra avevano sempre difeso i nostalgici. Sostenevano che la sinistra allarmista stesse creando deliberatamente uno spauracchio, perché, oltre all’antifascismo, non gli era rimasta più alcuna ideologia in cui credere. Era degno d’onore, aggiungevano, che i neofascisti di CasaPound e Lealtà Azione andassero a marciare al Campo X, nel cimitero di Milano, per ricordare i caduti della Repubblica di Salò. L’organizzazione di un pellegrinaggio a Predappio da parte degli ultrà della Lazio (al costo di cinquanta euro a testa) non faceva più nemmeno notizia.

I colpi di arma da fuoco ai danni dei passanti di colore a Macerata, da parte di Luca Traini, erano una conseguenza pressoché inevitabile di questo clima d’odio. Traini era un uomo turbolento: suo padre aveva abbandonato la famiglia quand’era ancora giovane, perciò era stato cresciuto da sua nonna. Venne espulso da una palestra locale perché era solito fare il saluto romano all’ingresso e lo soprannominavano Wolf perché aveva la runa Wolfsangel (un simbolo usato sia dalle ss che dalla Terza Posizione italiana) tatuata in fronte. E oltre a tutti questi chiari segnali di estremismo, era ai margini delle politiche della Lega e una volta aveva incontrato Matteo Salvini a Corridonia. Il 3 febbraio del 2018 prese la sua Glock e salì a bordo della sua Alfa 147 e guidò per la città sparando agli immigrati. Colpì sei uomini di colore e si recò davanti a un monumento ai caduti dove, avvolto in una bandiera italiana, fece il saluto romano.

In seguito alla sparatoria fu evidente che le correnti principali della destra incolpassero l’immigrazione, anziché Traini: Berlusconi parlò di una «bomba sociale» creata dagli stranieri. L’Italia, disse, aveva bisogno di rimpatriare 600.000 immigrati illegali. In un’atmosfera che sembrava simile a quella del profondo Sud americano nei primi anni Sessanta, i politici incolpavano le vittime: Matteo Salvini disse che «era chiaro ed evidente che un’immigrazione fuori controllo […] portava al conflitto sociale».

Le spese legali di Traini furono sostenute da Forza Nuova e gli ultrà della Lazio appesero uno striscione a Ponte Milvio che diceva: “Onore a Luca Traini”. Questi due mondi erano ormai diventati tutt’uno. Un rapporto del Parlamento pubblicato prima delle sparatorie del dicembre 2017 affermava: «Crea inquietudine la presenza di tifosi ultrà in tutti i recentissimi casi di manifestazioni politiche estremistiche di destra». Il 24 aprile del 2019 gli Irriducibili sfilarono per le strade di Milano facendo il saluto romano dietro uno striscione che diceva: “Onore a Benito Mussolini”. Quando pochi giorni dopo esplose un ordigno artigianale fuori dalla sede degli Irriducibili a Roma, Diabolik dichiarò: «Se vogliono tornare al terrorismo degli anni Settanta, a quel clima, siamo pronti. Anzi, io non vedo l’ora. Poi, certo, siamo fascisti, gli ultimi fascisti di Roma, e non rinneghiamo nulla».

Forse la domanda fondamentale da porsi era fino a che punto ci fosse sovrapposizione non solo fra il mondo ultrà e l’estremismo politico, ma anche con la criminalità organizzata. Daniele Segre, il documentarista che aveva girato Ragazzi di stadio negli anni Settanta, in un’intervista del 2007 disse: «C’erano già [negli anni Settanta] grossi intrecci tra la malavita organizzata e le frange estreme del tifo».

Sotto diversi aspetti questo legame era possibile perché entrambe le parti seguivano logiche molto simili. Gli ultrà avevano sempre dimostrato attaccamento al proprio territorio, e quella loro dedizione alla vita di strada li aveva ovviamente fatti entrare in contatto con i mafiosi, il cui potere è basato sul controllo territoriale. Un rapporto del 2017 della Commissione Parlamentare Antimafia esaminò questa «infiltrazione, o per meglio dire la contaminazione, da parte delle organizzazioni criminali di tipo mafioso delle tifoserie organizzate» e non c’era da sorprendersi se riuscirono addirittura a citarne diversi esempi. Alcuni particolari gruppi ultrà erano divenuti il volto pubblico e allo stesso tempo gli uomini sul campo di particolari famiglie della malavita. Venivano usati per fare pressione sia sui giocatori sia sui presidenti: per truccare gli incontri, per procurarsi più biglietti, per mandare all’aria le partite e via dicendo. Ma forse il servizio più importante che i gruppi ultrà fornivano ai mafiosi era semplicemente la persuasione. La paura che i gruppi ultrà riuscivano a instillare nel pubblico gli consentiva di tenere sotto controllo la folla per conto dei mafiosi: un’intimidazione di basso livello poteva presto degenerare e avere conseguenze più serie se qualcuno intralciava gli affari. Un commissario di polizia ascoltato dall’Antimafia disse che la criminalità organizzata vedeva gli spalti come «un’opportunità di incrementare non solo il raggio dei traffici illeciti e il riciclaggio di capitale sporco, ma anche di insinuarsi in maniera subdola e pervasiva nel tessuto sociale». Si aveva l’impressione che alcuni gruppi ultrà fossero stati sfruttati per una campagna di comunicazione per conto dei clan criminali.

Ma forse la vera sovrapposizione tra gli ultrà e la criminalità organizzata è un modo di essere. Gli ultrà protestano continuamente e, visto che le ragioni gli non mancavano, molti gruppi hanno portato coraggiose testimonianze delle ingiustizie. Eppure le proteste degli ultrà in tutta la penisola sono spesso intimidatorie. Possono essere manipolati. A volte la dimostrazione di forza replica le minacce dei criminali. Persino Osvaldo Pieroni, che scrisse – senza paternalismi – sulla «semplicità di spirito» degli ultrà cosentini, notò che alcuni «puntavano il dito con l’aria da mafiosi». Non c’è una morbidezza generosa nell’essere un ultrà. Anche chi ama il calcio e la possibilità che questo sport offre di farne parte, chi si gode la festa e i cori, chi riesce perfino a capire che agli uomini piace fare a botte, fa fatica a comprendere la sconfinata arroganza di questo mondo. Quando vedi uomini infuriati che urlano contro chiunque li circondi (pretendendo la maglia di un giocatore appena afferrata al volo da un bambino, prendendo a pugni un tifoso che canta la loro canzone, spingendo una donna giù per le scalinate perché ha il tatuaggio sbagliato), ne hai abbastanza di tutto. C’è solo troppa strafottenza.