Repubblica Centrafricana, 1986
Le gambe di Paride continuavano a tremare. Riposava con la fronte appoggiata sul finestrino bollente dell’autobus, e sudava così tanto che la sua testa scivolava sul vetro, facendogli rimbalzare il mento sul petto, svegliandolo ogni volta. L’autobus era sovraffollato, puzzava di sudore e legno bruciato. C’erano passeggeri seduti in mezzo al corridoio, e alcuni di loro tentavano di sdraiarsi per prendere sonno.
Con i suoi modi bruschi Padre Fedele spostava le persone mentre cercava di portare una suora dov’era seduto Paride. Lei lo guardò, gli tenne la fronte e gli sentì il polso. «Probabilmente ha la malaria».
Paride sorrise stancamente. Anche lui aveva pensato la stessa cosa. Paride cercò di rannicchiarsi, portando le ginocchia al petto ma non c’era spazio. Tutti gli altri indossavano una maglietta e lui si era messo tutti i vestiti che aveva portato in viaggio, ma tremava ancora. La suora disse che aveva bisogno di clorochina, e il ragazzo tornò a fissare il paesaggio fuori dal finestrino.
Paride aveva visto in faccia la morte. Nelle settimane precedenti era stato testimone degli effetti della lebbra e dell’aids sulle persone. Il giorno prima Padre Fedele stava pesando una bambina rachitica sulla bilancia, talmente fragile che sembrava sul punto di spezzarsi. Morì in quel lavabo di metallo. Adesso anche Paride si era ammalato, e l’intero viaggio ora gli sembrava sfocato: il volo da Lamezia a Zurigo, e da Zurigo a Bangui. In aeroporto aveva ossservato trafficanti di pietre preziose vestiti di tutto punto e missionari. E poi quelle baracche di lamiera per chilometri e chilometri. Gli unici edifici che potevano essere definiti tali erano i palazzi governativi. Ovviamente era stato Padre Fedele a proporre il viaggio. Aveva bisogno di uomini forti per caricare e scaricare vestiti, scarpe e approvvigionamenti per le basi dei missionari a Bangassou e nei dintorni. Il frate sapeva anche che dopo aver mostrato ai giovani quel mondo povero e primitivo, ne sarebbero rimasti colpiti. Nel 1986 la Repubblica Centrafricana era uno stato così corrotto da non avere neanche un servizio postale, perché la gente rubava i francobolli. Avevano soltanto duecento televisori in tutto il Paese. Ma la popolazione era talmente devota che la Chiesa offriva i suoi servizi ininterrottamente, e c’era un viavai di fedeli che accorrevano tra quei pilastri di legno a portare cibo e battere le mani, alzando le loro voci al cielo.
Paride ricorda quando portò la colazione in una scuola elementare. Mentre Piero scaricava il cibo dal furgone, disse ai suoi compagni: «Questo vale più di cento vittorie del Cosenza».
«Che hai detto?», chiese Canaletta, sconvolto dall’affermazione che potesse esistere qualcosa di più importante della sua squadra.
Piero ripeté la frase, mentre dava del pane a un ragazzino dalla maglietta gialla ridotta a brandelli. Canaletta e Paride annuirono, in cuor loro sentivano che aveva ragione. In quelle settimane insolite, Padre Fedele stava mostrando ai ragazzi che il vero significato dell’essere ultrà era oltrepassare i propri limiti. In Africa affrontarono gli stessi viaggi scomodi e interminabili, sballottati lungo strade sterrate, e una volta giunti sul posto non avrebbero difeso le loro sciarpe: le avrebbero donate.
«Questa», disse Canaletta a un ragazzino, consegnandogli la sua sciarpa rossa e blu, «è molto preziosa. Capito?». E la tese sopra la testa, mentre i tre ultrà cominciarono a cantare, facendo ridere tutti i bambini.
Durante quella missione videro un altro lato di Padre Fedele. Lo conoscevano già come una persona vulcanica e ancora una volta si dimostrò tale. Quando il loro autobus rimase a corto di benzina, e gli scaltri uomini d’affari con i container ai bordi della strada cercarono di fargli pagare il carburante tre volte il prezzo normale, lui gli urlò contro le peggiori oscenità in dialetto cosentino, lamentandosi di non avergli prestato soccorso nella sua missione di beneficienza. Quando lo facevano aspettare per ore, esplodeva di nuovo, urlando per la rabbia e la frustrazione. Ma faceva parte del suo carattere, ed era più che altro una pantomima. Si innervosiva subito ma si calmava altrettanto velocemente. Ma videro per la prima volta quanto sapesse essere astuto. Aveva collezionato decine di calendari con delle foto che lo ritraevano insieme a papa Giovani Paolo II. Il santo padre era l’uomo più famoso in Africa dopo Diego Maradona e Bob Marley. Quando mostrava ai soldati dallo sguardo vitreo ai posti di blocco le foto di lui sorridente accanto al papa, questi lo lasciavano passare. Indicando se stesso, diceva orgoglioso: «Sono io», e i militari abbassavano le armi e alzavano le sbarre.
Quando fecero ritorno a casa, i ragazzi non erano più gli stessi. Era come se avessero scoperto un altro aspetto della vita da ultrà che andava oltre il calcio. Era ancora pieno di follia e di rischi, si trattava ancora di combattere battaglie e fare spedizioni in territorio straniero, ma adesso aveva assunto una dimensione reale. Non solo ora incitavano gli altri, ma gli fornivano cibo e vestiti. Una volta ripresosi dalla malattia, Paride non si sentiva più un punk di provincia, o un ragazzino orfano che si divertiva a provocare. Credeva in qualcosa. La religione non c’entrava niente: tutti e tre i ragazzi provavano repulsione per quel cattolicesimo borghese che li circondava. Ma avevano sviluppato un senso di consapevolezza, avevano finalmente uno scopo. «Sentivo qualcosa», disse Paride, «una vocazione che non nasceva dal nulla. E che la solidarietà era profondamente radicata nel mondo degli ultrà».
«Non aveva nulla a che vedere con l’essere ultrà» – Canaletta sorride al ricordo, dopo trent’anni – «ma allo stesso tempo tutto».