Alto Adige, oggi
Dopo la vittoria contro la Sambenedettese, l’avversario del Cosenza nelle semifinali dei playoff è in Sud Tirolo. Per certi versi la popolazione altoatesina si sente più austriaca che italiana e gli abitanti di questa regione parlano italiano con uno spiccato accento tedesco. La squadra di Bolzano ha perfino un nome tedesco: Fussball Südtirol.
L’andata si è giocata in Alto Adige. Non sono stati molti gli ultrà che hanno percorso i 1.134 chilometri che separano le due città, e forse è stato meglio così. Anche sei i Lupi hanno giocato bene, inserendosi spesso tra la difesa dei padroni di casa, non hanno mai segnato.I tiri volavano fuori, venivano bloccati o deviati in alto. Spesso un tiro del Cosenza rimbalzava sui cartelloni pubblicitari e gonfiava la rete da dietro, dando l’illusione agli spettatori distanti che fosse stato segnato un gol.
Ma al novantunesimo minuto, un ragazzo del posto – la riserva Michael Cia – ha visto il suo primo tiro tornargli indietro e ha caricato la gamba destra, schiacciando la palla in rete. Una squadra che aveva a malapena costituito una minaccia per un’ora e mezza aveva all’improvviso portato a casa la partita, vincendo per 1 a 0. Il giorno seguente la stampa cosentina avrebbe chiamato quel risultato una “beffa acerba”.
Il match di ritorno si è svolto a distanza di pochi giorni, il 10 giugno. Le squadre hanno fatto il loro ingresso in campo mentre i tifosi del Cosenza cantavano quello che era ormai diventato il loro inno ufficiale, la canzone folk bahamense resa famosa dai Beach Boys, Sloop John B, (riarrangiata dai Lumpen, gruppo punk di Cosenza): «I feel so broke up, I want to to go home» («mi sento a pezzi, voglio andarmene a casa»). La partita di ritorno si è svolta in maniera simile a quella dell’andata: quasi dall’inizio il Südtirol difendeva il suo vantaggio. I giocatori del Cosenza pressavano molto ma i difensori alti e biondi del Nord erano solidi. A metà del secondo tempo, al ventiquattresimo minuto, il giocatore del Cosenza Alain Baclet si è tuffato su un calcio di punizione dirigendo la palla nell’angolo della porta. Il portiere non aveva alcuna possibilità di raggiungerla. Lo scontro era pari adesso ma tutto l’impeto era della squadra di casa. L’ingiustizia dell’andata stava per essere vendicata. Al novantaquattresimo, un difensore del Südtirol saltò per spazzare via un calcio d’angolo ma la palla sfiorò solo la sua fronte ed entrò in rete. Lo stadio impazzì. Dopo gli abbracci e le urla, molti dei tosti ultrà si sedettero per la prima volta in tutta la partita e piansero. Il Cosenza era arrivato in finale dei playoff di Serie C.
Il mondo degli ultrà fu molto diverso dopo la coppa del mondo di Italia ’90. Decine di stadi storici vennero rinnovati o ricostruiti. La parte dell’ovale che appartiene agli ultrà, la curva, era sempre stata un luogo sacro e i ferri (le transenne) erano gli altari del loro tempio. È vero che a volte, a causa di alcune ostilità tra di loro, i gruppi si erano scambiati i lati dello stadio spostandosi dalla curva nord alla curva sud o viceversa. Ma quello era sempre avvenuto secondo la loro volontà. Ora, in nome di un torneo internazionale che era il preludio del calcio globalizzato, le loro case venivano abbattute. La Juve e il Toro avevano abbandonato lo Stadio Comunale, il Bari si era trasferito allo Stadio San Nicola progettato da Renzo Piano, il Sant’Elia di Cagliari venne ristrutturato, e fu aggiunto un terzo anello al San Siro.
C’erano altre ragioni per cu gli stadi vennero ricostruiti. In seguito agli orrori dell’Heysel, Hillsborough, Bradford e tanti altri, la sicurezza degli stadi divenne essenziale per evitare atrocità e tragedie. Era più facile portare velocemente i tifosi dentro e fuori lo stadio se le strutture si trovavano a poche fermate dal centro città, costruite nel mezzo di periferie desolate tra stazioni e strade a due corsie. In quelle terre selvagge, lontano dai bar e dai negozi del centro, gli ultrà non avrebbero potuto fare troppi danni. Un altro motivo era l’aspetto economico: più ampia la struttura, maggiori i profitti.
Per chi aveva militato nelle fila degli ultrà negli ultimi vent’anni, era triste assistere alla scomparsa dei piccoli stadi. Quegli stadi sgangherati e romantici di periferia erano di colpo vuoti. Spesso non era più possibile andare allo stadio a piedi, e quando ci entravi non sentivi più lo stesso legame. Non tutte le modifiche vennero apportate a causa di Italia ’90, ma la moda delle ristrutturazioni continuò negli anni a venire. L’Ancona giocava al Dorico dal 1931, e non era nemmeno un vero e proprio stadio, piuttosto un campetto da calcio schiacciato tra blocchi di palazzine con una biglietteria in pietra con scritto “Campo Sportivo Dorico” sull’architrave. Era un luogo impregnato di storia ma nel 1992 la squadra si spostò allo Stadio del Conero, a circa cinque chilometri di distanza. I nuovi stadi avevano spesso dei fossati di cemento intorno al terreno di gioco, in modo da impedire agli ultrà di toccare mai l’erba. Uno di questi, il Mapei di Reggio Emilia, aveva perfino un fossato riempito d’acqua con dei pesci al suo interno, con il risultato che gli animali erano più vicini al gioco di quanto non lo fossero gli spettatori (e spesso più divertenti da guardare della partita stessa).
In Abruzzo, il Teramo aveva cambiato il suo stadio, spostandosi a qualche fermata di distanza dalla linea ferroviaria locale, ma la vecchia struttura rimase intatta per via dell’ostruzionismo dei suoi ultrà. Per loro vendere il vecchio stadio ai palazzinari equivaleva a costruire un casinò su un cimitero. Uno dei gruppi ultrà assunse il nome di 16 Gradoni, in memoria del numero di scalini della loro vecchia curva. I volti dei compagni scomparsi erano dipinti con le bombolette sui muri, ricordando ai cittadini che il loro ricordo era conservato in quel luogo specifico.
In Italia c’è la tendenza a lasciare intatti i ruderi. Imbattersi in un anfiteatro o in un foro abbandonato è sempre stato il fascino di aggirarsi per le sue città. Questi stadi del ventesimo secolo erano, spesso, lasciati dov’erano, con le erbacce che spuntavano tra le crepe e degli alberelli che crescevano sul campo. A volte il loro disuso era dovuto a una paralisi decisionale da parte del municipio o alla pressione dei tifosi, ma spesso si trattava semplicemente di una politica di laissez-faire. Gli ultrà del Torino si riuniscono ancora al Bar Sweet, dal lato opposto delle rovine pericolanti del vecchio stadio. La longevità di questi reperti archeologici è impressionante. Uno dei primi campi di calcio a Roma, nel quartiere Testaccio, rimane ancora vuoto nonostante sia in disuso dal 1940.
Anche la faccia del mondo ultrà stava cambiando. L’elenco di ultrà morti per overdose nei primi anni ’90 era lunga. Geppo, il giovane che aveva scritto il manifesto idealistico per gli ultrà… Zigano, colui che era scappato dopo la morte di Papparelli… Beppe Rossi, il Fighter della Juventus che aveva sofferto tanto dopo Heysel – tutti sono scomparsi dopo aver ceduto alle proprie dipendenze. In un contesto in cui il motto era gaudeamus igitur («godiamo ordunque, mentre siam giovani»), non era sorprendente che eccessive celebrazioni di libertà portassero a morti premature.
Ma nei primi anni Novanta, molti ultrà leali e sopravvissuti abbandonarono la prima linea, e alcuni dei gruppi più famosi dei due decenni precedenti si sciolsero. A Genova, durante l’estate del 1993, la Fossa dei Grifoni si ritirò dalle scene, dichiarando: «Non ci riconosciamo più in questo tipo di calcio». Spesso i gruppi si scioglievano perché le file erano già state decimate da tanti arresti o infortuni che avevano pregiudicato la reputazione del gruppo. Le famigerate Brigate Gialloblù si sciolsero nel novembre del 1991, qualche giorno dopo che quattro “brigadieri” erano stati pugnalati durante una partita di Coppa Italia contro il Milan. Lo scioglimento dei gruppi ufficiali ebbe anche uno scopo strategico: un’accusa precedentemente usata solo nei confronti nella criminalità organizzata – «associazione a delinquere» – ora veniva provata anche per contrastare gli ultrà. La soluzione migliore per gli ultrà era apparire meno associati possibile. Forse per molti era ormai svanito l’ardore adolescenziale che animava quelle battaglie manichee. Quelle etichette facili come “fede”, “onore” e “vendetta” sembravano imbarazzanti quando una maturità emotiva permetteva di apprezzare sottigliezze e differenze. Per coloro che amavano semplicemente i cori e il folklore, non aveva più senso pestare qualche ragazzino solo perché proveniva da un’altra parte d’Italia.
Anche le delusioni sportive giocarono un ruolo importante in questo esodo. Il Cosenza rimase in Serie B per un pelo nel 1991, quando disputò disputò i playoff contro la Salernitana. Al sesto minuto Gigi Marulla corse in mezzo a due difensori e colpì la palla all’altezza della sua stempiatura. Il Cosenza vinse per 1 a 0, evitando la retrocessione in serie C. Successivamente Marulla rivelò che il giorno prima quattro tifosi erano saliti a bordo dell’autobus, dicendo: «La Calabria è una terra difficile, domani regalateci questa gioia». Marulla (anche lui calabrese) sentì «come la sensazione di essere in missione per un popolo». Lui, almeno, aveva compreso l’antica nozione di perorare una causa.
Ma nell’anno seguente le delusioni non finirono. Lecce era spesso il luogo in cui morivano le speranze. Fu contro quella squadra che la Roma aveva perso lo scudetto per un soffio pochi anni prima, e Bongi, sconvolto, decise di ritirarsi dalla prima linea dei Boys. Nel 1992 accadde qualcosa di simile anche al Cosenza. Per la prima volta nella sua storia, la squadra era a pochi passi dalla Serie A. Ciccio aveva preparato diecimila bandiere per l’occasione. Alcuni affermarono che allo stadio salentino giunsero circa quindicimila sostenitori del Cosenza.
A soli dieci minuti dalla fine della partita, Giampiero Maini segnò l’unico gol del Lecce. L’Udinese vinse per 2 a 0 contro l’Ancona e così la speranza del Cosenza di raggiungere la serie più importante del calcio italiano svanì. Il lento viaggio di ritorno verso le macchine e i treni fu, come ricorda un osservatore, una via crucis: «I leccesi che, ad arte, bruciano delle sterpaglie e creano un incendio continuo che praticamente ci accompagnerà fino alla stazione, creando un clima, appunto, arroventato…».
Ciccio voleva abbandonare. «Dopo quella delusione volevo disfarmi di tutti gli striscioni e prendermi un anno di pausa». Ebbe l’idea di riunire i vari gruppi sotto una sola bandiera: “Vivere ultrà per vivere”. Presto ci sarebbe stata altra tristezza. Il 27 settembre del 1992 il centrocampista del Cosenza Massimiliano Catena segnò un gol sensazionale. Il pallone era più vicino alla linea di metà campo che all’area di rigore avversaria, ma tirò talmente forte che la sfera finì in rete. Sapevano tutti che suo padre stava morendo, e i tifosi si alzarono in piedi per applaudirlo. Pochi giorni dopo, mentre tornava a casa in macchina da Roma, dove era andato a fare visita al padre, Catena – che aveva appena ventitré anni – morì in un incidente stradale. La Curva Nord ora porta il suo nome.
Molti degli ultrà più politicizzati volevano portare l’ardore dello stadio dentro la città. Claudio e i ragazzi della Nuova Guardia occuparono un edificio poco lontano dalla città. Lo chiamarono Granma, come la nave di Fidel Castro, ma qualcuno ne storpiò il nome e divenne famoso come Gramn. “La lotta non è più allo stadio”, era lo slogan. Nei primi anni Novanta fiorirono nuovi progetti nati all’interno della curva del Cosenza, tra cui una stazione radio (chiamata Ciroma, o “caos”) e una casa editrice (Coessenza). Paride si candidò addirittura come sindaco. Una volta Elias Canetti scrisse che le antiche arene formavano «un cerchio chiuso dal quale nulla può scappare», intendendo che la furia e la ribellione erano tollerate solo se confinate all’interno di uno spazio chiuso. Molti ultrà del Cosenza tentarono di rompere quel cerchio, per consentire all’idealismo degli stadi di conferire energia alle strade.
Altri ultrà si arresero, rendendosi conto che quello stato di impotenza era parte integrante della vita da tifoso. Tutta quell’esortazione – l’invettiva piena di insulti e scherno – era in parte il risultato della consapevolezza che il tifoso fosse destinato all’inerzia. Sei fermo in un posto e guardi ventidue uomini che corrono. Puoi fare tutto il rumore che vuoi, ma è come pregare davanti a un terremoto. Sei come un guardone: invece di fare l’amore, stai a guardare. Se non altro i punk facevano musica, o «caos», come amava dire Johnny Rotten. Gli Hells Angels guidavano moto e le riparavano. Ma gli ultrà, una volta preparate le coreografie, cantati i cori e fatto il solito battimani, erano in fin dei conti dei semplici spettatori, statici e passivi. Poiché molti stadi italiani hanno una forma ellittica, la posizione di maggior potere per un ultrà – il centro della curva – è precisamente il punto più distante dal calderone in cui si svolge il gioco, cosa che sembrava confermare il senso di esclusione e di irrilevanza. Forse era questo uno degli aspetti che suscitavano la rabbia degli ultrà: l’ansia di non essere davvero necessari. Magari è questa la causa delle urla a perdifiato che dilatano le vene del capo-coro – l’uomo con il megafono – mentre cerca disperatamente di tenere le sue truppe sull’attenti, rimproverando chiunque intorno a lui non canti. E quindi, si può dedurre, il vero piacere degli ultrà quando si presenta l’occasione di entrare in azione.
C’era anche una consapevolezza crescente che l’aspetto ludico fosse legato all’illusione. Come succede in molti templi, alcuni dei partecipanti non credevano più al trucco magico, o alla retorica che la loro presenza potesse in qualche modo influire sull’azione. A causa delle partite truccate, del prezzo sempre più alto dei biglietti, o degli stadi ormai senza più personalità, gli ultrà erano sempre più convinti di essere come il pallone: utili solo per essere presi a calci. Il sociologo Osvaldo Pieroni si era trasferito a Cosenza ed era stato attirato sempre più dalla fede nei colori rossoblù. Dopo aver seguito sia la squadra che i suoi movimenti contabili (parliamo della stagione 1993-94), scrisse una monografia disillusa in cui sosteneva che il calcio era diventato «una sorta di autoinganno […] ognuno faceva finta di non sapere che il calcio italiano fosse, in effetti, un’enorme truffa mascherata da festa». Paragonò il club a una prostituta, «che simula un’attrazione reciproca e una disponibilità spontanea, fingendo che non esistano incentivi su profitti e intermediari…». Era una prosa malinconica, benché comprensibile di un tifoso appassionato: il presidente del Cosenza aveva sfruttato la società nella speranza di essere eletto al parlamento, contraendo debiti enormi e venendo quindi arrestato per falso in bilancio.
Ma il mistero del calcio è che, proprio quando sei sul punto di arrenderti perché sembra una completa farsa, riesce a dare voce al senso di inutilità che provano i tifosi. Forse inevitabilmente fu il Torino a sottolineare il motivo per cui gli affezionati continuavano a tornare. Emiliano Mondonico era l’allenatore della squadra nei primi anni Novanta. Nel 1992 la portò in finale di Coppa Uefa contro l’Ajax. Il Torino colpì ripetutamente il palo ma non segnò mai. Quando, secondo lui, non venne assegnato alla sua squadra un rigore che considerava plateale, l’allenatore prese una sedia da bordo campo e la sollevò fin sopra la testa, agitandola in preda alla rabbia. Anni dopo, disse che: «Quella sedia è il simbolo di chi tifa contro tutto e tutti. È il simbolo di chi non ci sta e reagisce con i mezzi che ha a disposizione. È un simbolo-Toro perché una sedia non è un fucile, è un’arma da osteria». Il Torino, disse Mondonico, era «la speranza di un mondo migliore». I Granata persero la finale ma i loro sostenitori ebbero la sensazione che qualcuno finalmente aveva compreso il loro senso di inutilità e di impotenza. Come sempre, la profondità di pensiero nasceva dalla sconfitta. Quando decenni dopo Mondonico morì di cancro, gli ultrà del Toro marciarono portando con sé delle sedie, sollevandole verso gli dèi del calcio. Non c’era violenza in quel gesto, soltanto rabbia e tristezza.
E se molti abbandonavano la curva, altri sarebbero entrati a farne parte. Il 30 gennaio del 1992, presso l’Hotel Universo a Roma, venne organizzata una conferenza da due politici del msi. Con il titolo “Una patria chiamata curva” e gli inviti indirizzati ai tifosi di Lazio, Juventus, Inter e ai Boys della Roma, notoriamente di destra, era un chiaro tentativo di sfruttare l’energia e il radicalismo degli ultrà a scopo elettorale. Di lì a un anno gli ultrà della Lazio avrebbero cantato: «Vogliamo Fini [leader del msi] come sindaco». Molti ultrà inorridirono a quel palese tentativo di strumentalizzazione, ma la conferenza fu la prova che i partiti di destra stavano riemergendo e vedevano gli ultrà come delle truppe a servizio di un nuovo movimento.
Visto ciò che accadeva all’interno di alcune curve, era naturale che i politici di stampo neofascista cercassero appoggio politico proprio in quegli ambienti. Quando Maickel Ferrier, centrocampista olandese nato in Suriname, era sul punto di firmare il contratto con l’Hellas Verona, dei tifosi vestiti da Ku Klux Klan appesero un manichino nero sugli spalti. Ci furono anche dei cori e degli striscioni a sfondo razzista (“Fategli pulire lo stadio”). Cedendo alle pressioni degli ultrà, il club decise di non ingaggiarlo. Un altro giocatore olandese di origini surinamensi di nome Aron Winter fu acquistato dalla Lazio nel 1992 e immediatamente, sui muri bianchi di marmo dello Stadio Olimpico, apparvero degli slogan antisemiti, tra cui “Winter raus” e “Sporco ebreo”, accompagnati da una svastica.
Dalla fine della seconda guerra mondiale, l’antifascismo era stato la pietra angolare della fondazione della Repubblica Italiana. Ma il crollo dell’Unione Sovietica aveva minato la credibilità dei partiti comunisti italiani, e dal 1992 la Democrazia Cristiana, altro pilastro della politica italiana postbellica, era stata decimata da scandali legati alla corruzione. Questi eventi causarono la fine della Prima Repubblica e si creò un vuoto politico e ideologico.
Tanti di coloro che si inserirono in questo vuoto fondevano il populismo del calcio con la passione per la componente autoritaria della storia italiana. Quando il presidente dell’A.C. Milan, Silvio Berlusconi, entrò in politica fondando il partito di Forza Italia grazie all’aiuto delle associazioni di tifosi del Milan e di Publitalia, incentrò la sua sdrucciolevole propaganda sul tema dell’anticomunismo. Riconobbe nel msi e nella Lega Nord i perfetti alleati politici. Grazie al suo vasto impero mediatico, tramite cui diffuse il suo messaggio nelle case degli italiani, Berlusconi sdoganò il fascismo. Tutti potevano vedere quello che stava succedendo. Fu un’assidua e sottile riabilitazione di un estremismo politico che per cinquant’anni era stato ripudiato dall’opinione pubblica. Berlusconi non mancava di esprimere la sua ammirazione per Mussolini ed evitò apertamente di celebrare la Festa della Liberazione del 25 aprile. Dal 1994 molti neofascisti imprigionati tra gli anni Settanta e Ottanta si ritrovarono a far parte dei maggiori partiti politici, se non addirittura della classe dirigente del governo.
Il pericolo divenne talmente grave che nel 1993 venne promulgata la Legge Mancino, che condannava gesti, azioni e slogan legati all’ideologia nazifascista. Era un aggiornamento della Legge Scelba del 1952, che vietava la riorganizzazione del partito fascista. Tuttavia quella legislazione venne applicata talmente di rado che i partiti fascisti riemergenti poterono agire indisturbati. Furono in grado di presentarsi all’opinione pubblica come vittime e martiri, godendo allo stesso tempo dell’impunità durante la loro campagna di proselitismo.