Genova, 22 aprile 2012
A volte assaltavano la Bastiglia: non prendevano solo il controllo delle strade, ma quello di tutto lo stadio.
Dal punto di vista della squadra di casa, la partita Genoa-Siena stava andando malissimo. I rossoblù erano prossimi alla retrocessione e, anche se giocavano in casa, al fischio dell’intervallo perdevano 3 a 0 contro il Siena. Gli ultrà sulla Gradinata Nord urlavano e si sbracciavano. Non si trattava dei soliti cori coordinati, ma di urla isolate che lasciavano presagire ribellione nell’aria.
Al quarto minuto del secondo tempo il Siena segnò la quarta rete e gli ultrà iniziarono a muoversi. Il capo degli steward si rese conto che la situazione stava diventando pericolosa e decise di far abbandonare ai suoi ragazzi la gradinata. Quando le porte si aprirono circa duecento ultrà, guidati da Cobra e Ciclope, fecero irruzione, forzando il cancello più vicino e invadendo la tribuna centrale. Presto furono al centro della tribuna, in piedi di fronte al plexiglass che sovrastava il campo. Il loro era un misto di rabbia e impeto: i canti si innalzavano all’unisono e le braccia si muovevano in aria avanti e indietro con gesti identici. Vennero lanciate sull’erba bombe carta e razzi. All’ottavo minuto l’arbitro sospese la partita.
I giocatori del Siena si avviarono verso gli spogliatoi ma quelli del Genoa non riuscirono a fare lo stesso. Cobra e i suoi compagni erano in piedi sulla tettoia bianca del tunnel dei giocatori, con le stecche incurvate come una fisarmonica. I giocatori del Genoa erano fermi a centro campo con la polizia, i giornalisti e i dirigenti della squadra. Di colpo gli ultrà sembravano al comando. Continuavano a puntare il dito in direzione dell’erba per richiamare l’attenzione dei giocatori. «Venite qua, pezzi di merda», gridavano. Qualcuno faceva il segno di tagliare la gola. «Il Genoa siamo noi», dicevano. «Vi veniamo a prendere stasera al mare», gridava Ciclope, «ci vediamo stasera».
Era una scena ipnotica. I cittadini comuni – una massa scura di uomini con gli occhiali da sole, felpe col cappuccio e jeans – tenevano in pugno l’aristocrazia della Serie A. Il cronista di Sky lo definì uno spettacolo «surreale e grottesco». Marco Rossi, il capitano rossoblù, si avvicinò al gruppo che ormai cantava incessantemente: «Il Genoa siamo noi!». Gli ultrà chiesero ai giocatori di togliersi le maglie, perché secondo loro erano indegni di indossare quei colori. Il cronista della rai provò a fare del suo meglio per cercare di capire le motivazioni degli ultrà commentando: «La rabbia dei tifosi dovrebbe essere sempre ascoltata», disse, «è sempre frutto di grande amore… perfino l’odio è figlio di troppo amore».
Enrico Preziosi, il presidente della squadra, era entrato in campo preoccupato per la penalizzazione di punti che il club avrebbe subito in caso di sospensione della partita e acconsentì che i giocatori si togliessero le maglie, un gesto di resa simbolica nei confronti degli ultrà. Rossi si tolse la maglietta. Gli altri giocatori fecero lo stesso. Uno di loro piangeva. «C’è molta tristezza in queste immagini», disse il cronista della rai. «Questo è un obbligo, un ricatto, un’intimidazione».
Il simbolismo di quel pomeriggio era eloquente. I giovani giocatori si ritrovarono denudati e in lacrime, in piedi sotto a uomini più anziani di loro che li stavano minacciando con la violenza. Beppe Sculli – il calabrese con conoscenze nel mondo della criminalità e un trascorso di accuse per la compravendita di partite – dopo aver giocato con la Lazio era tornato al Genoa. Si rifiutò di togliersi la maglia. Quello che poteva apparire come un coraggioso gesto di sfida era in realtà un tentativo di mettere d’accordo le parti coinvolte. Si avvicinò alla sommità del tunnel dei giocatori e avvicinò la testa a quella di Cobra e, con le braccia l’uno sulla nuca dell’altro, si misero a bisbigliare. «Sculli è uno di noi», cominciarono a urlare gli ultrà. Sculli, dopo aver parlato con Ciminiera usando il telefonino di uno dei dirigenti della squadra, convinse gli ultrà a porre fine alla protesta. Gridò al capitano di riconsegnare le magliette ai giocatori. La partita riprese.
Questo, come tanti altri eventi iconici che vedevano il coinvolgimento degli ultrà, poteva essere letto in maniere diametralmente opposte. Da un lato i genoani avevano solamente fatto quello che ogni altro gruppo ultrà sognava: avevano ribadito pubblicamente che la maglia era più sacra dei giocatori superpagati, anche più sacra dello stesso sport. Avevano difeso i colori della città dall’umiliazione e, a parte essersi levati di torno qualche steward lungo il cammino, non avevano commesso nessun crimine. Fu «la protesta più civile mai vista nel mondo del calcio», mi disse Ciminiera. In tanti ricordarono le parole di Fabrizio De André, il cantautore genovese che in alcune note sul calcio scrisse: «Un individuo facilmente influenzabile a cui la società insegna continuamente che la vita è soltanto una lotta a coltello per la sopravvivenza facilmente diventerà un fanatico […] considererà la sconfitta come una tragedia personale causatagli da altri e contro questi altri potrà arrivare a compiere gesti di violenza, sia prima che la sconfitta si verifichi, per scongiurarla, sia dopo che s’è verificata, per vendicarsi».
Altri, però, ebbero l’impressione che quel pomeriggio alla fine avesse portato a galla l’intimidazione che ribolliva da sempre sullo sfondo della vita ultrà. Solo pochi mesi prima gli ultrà avevano circondato i calciatori durante gli allenamenti e, stando a quanto affermano alcuni, erano talmente contro un giocatore che fu venduto. Preziosi, alla conferenza stampa che seguì la partita contro il Siena, riportò la sua versione dei fatti: «Noi abbiamo sempre avuto paura di questa gente qua. Perché questa gente qui ti dice: “Ti prendo”, “ti spacco”, “ti rompo”. Vengono a casa, vengono allo stadio, vengono a dare schiaffi ai giocatori. […] Sanno tutto di tutto, e noi li accompagniamo sempre e, oltretutto, con un senso di disagio ma anche un po’ di paura». Aggiunse anche che per lui erano «il male di Genoa», e avrebbero dovuto andare in galera.
Gli eventi dei mesi successivi persuasero molti che l’analisi di Preziosi fosse pressoché esatta. La paura instillata dagli ultrà era tale che solo uno degli steward presenti quel giorno ebbe il coraggio di identificare i protagonisti della rivolta alla polizia. Pochi mesi dopo uno dei leader dell’insurrezione di Genoa-Siena – un siciliano con precedenti per spaccio che in seguito venne catturato per delitti collegati alla droga – venne arrestato per il pestaggio di un meccanico che non aveva svolto le riparazioni richieste abbastanza velocemente. Lui e il fratello avevano tanto sangue sulle scarpe e sui vestiti che dovettero fingere di essere caduti dallo scooter.
Dal momento che l’ultrà era il figlio di un mafioso siciliano, cominciò ad apparire evidente, e non era la prima volta, che gli ultrà non si circondavano solo di teppistelli ma anche di criminali della malavita. Nel 2017 la commissione parlamentare antimafia istituì il Comitato Mafia e Sport, che indicava la tifoseria genoana come un esempio di «acquisizione da parte di una frangia di tifosi, di metodi caratteristici al crimine organizzato». La commissione interrogò Francesco Cozzi, il procuratore capo di Genova che dichiarò che gli ultrà «si imponevano con la forza delle minacce e che le loro modalità di comportamento si avvicinano molto a quelle delle organizzazioni di tipo mafioso. […] Applicando i maccanismi del crimine organizzato, esercitavano un potere intimidatorio sulle decisioni della società».
L’abilità degli ultrà di sospendere le partite, nonostante non venisse sfruttata spesso, stava diventando più comune e diffusa. Il derby Salernitana-Nocerina del 10 novembre 2013 fu una parodia mai vista prima. Dopo appena cinquanta secondi dal fischio d’inizio, l’allenatore della Nocerina aveva già effettuato tre sostituzioni. Ma nei successivi ventuno minuti di gioco i suoi giocatori continuarono a cadere a terra uno dopo l’altro, afferrandosi i polpacci o le costole. Dato che il numero massimo di sostituzioni consentite era già stato raggiunto, la Nocerina non poteva effettuare sostituzioni, quindi la squadra si ritrovò a proseguire l’incontro con dieci uomini, e poi con nove. Quando il numero scese a sei, l’arbitro fu costretto dal regolamento a sospendere la partita. In quel momento, sullo stadio volò un aereo che trasportava uno striscione con su scritto, a lettere rosse cubitali: “rispetto per nocera e gli ultras”.
Il retroscena era che gli ultrà della Nocerina erano stati diffidati dall’assistere alla partita nonostante migliaia di loro avessero la tessera del tifoso, ed erano così arrabbiati che in qualche modo erano riusciti a convincere i giocatori a simulare degli infortuni. Cosa gli dissero per persuaderli era un mistero. Era facile per i media nazionali ritrarre Nocera come un luogo di intimidazioni di stampo mafioso non ultimo per via delle morti estranee agli avvenimenti sportivi che si verificavano nella zona. Il padre del proprietario del club era rimasto ucciso in uno scontro tra bande anni prima, e uno degli ultrà venne ammazzato con un colpo di pistola soltanto il mese precedente a quella iconica “non-partita”.
Ma gli ultrà raccontavano una storia completamente diversa. Erano in buoni rapporti con i giocatori, che volevano dimostrare solidarietà ai loro tifosi. Non c’erano state minacce, soltanto richieste. L’autobiografia di Aniello Califano sugli anni in cui era stato ultrà nocerino sottolineano l’importanza della presenza alle partite: «Quei due colori sono per noi la libertà; sono la nostra vittoria contro il tempo». La curva era il posto dove riscattare i torti subiti: «Noi siamo la nostra terra, martoriata, sfruttata, disprezzata ma unica, amata e piena di vita vera. Ed è per questo che, tanto tempo fa, facemmo della nostra rabbia la nostra bandiera». Se gli ultrà non potevano andare a una partita, avrebbero fatto in modo che nessun altro potesse farlo.