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IL FURTO DELL’ACQUA

«Quello che l’Italia ha fatto al Sud, la Puglia ha fatto a Caposele» dice il sindaco dell’orgoglioso e risentito paese irpino, Pasquale Farina: «Ci ha rubato la ricchezza, il nostro tesoro, l’acqua».

E bisogna sentire con quali termini e quale tono ne parla. Per l’ospite (onore immeritato? sono pugliese; o forse per mostrarmi l’entità del delitto), si aprono le porte del tempio: la camera di captazione della sorgente del Sele. Non si potrebbe, sono in corso lavori di manutenzione. L’assessore è architetto, mostra ammirato le opere di un secolo fa, efficienti, perfette come appena costruite. L’acqua erompe subito tanta, subito fiume e fiume grande, potente e prepotente: non esce dalla montagna, la sfonda, la sventra; il Sele è fiume che usa il monte, non ne è dono.

«Sino a 5.000 litri al secondo!» si gonfia la voce dell’assessore Salvatore Conforti. E prova a dargli torto, mentre quei 5.000 litri ti esplodono a un metro sotto i piedi, dall’utero di roccia del monte Paflagone. «Questo è il colore dell’acqua; il colore vero» mormora Nancy Malanga, dell’associazione di volontari (sono una decina, guidati da Antonio Ruglio) che cura le iniziative culturali, turistiche, legate alla sorgente. È un verdino trasparentissimo, tenue tenue, che diventa riconoscibile soltanto nei vortici.

Per me, pugliese, non è una visita, ma un pellegrinaggio: sono nel santuario dell’acqua che ci cambiò il destino e la storia. È questa vena il dio che portò la vita nella mia regione, dopo millenni di sete (la Puglia è scheggia d’Africa migrata a nord. Pure quella...). Le donne della Murgia raschiavano acqua dai sassi, la raccoglievano nelle cisterne, la riadoperavano in usi a igiene a scalare, come si fa nel deserto, dall’uomo agli animali, dall’abitazione ai campi. «Esiste una scena significativa della fiction Rai su Giuseppe Di Vittorio» (il bracciante pugliese che fondò il sindacato moderno), ricorda Michele Ceres, sul periodico di Caposele, «La Sorgente», in cui si mostrano «gli abitanti di Cerignola che si affannano, durante un acquazzone estivo, a raccogliere in grossi recipienti l’acqua piovana che scorre lungo una strada in lieve pendio. È difficile per noi di Caposele immaginare che una comunità possa vivere con poca acqua a disposizione.»

Mi torna in mente un aneddoto che Carlo Levi raccontò a Salvatore Giannella, per la rivista «Il Mondo», quando qualcuno sparò alla statua di Di Vittorio, negli anni Settanta: il grande sindacalista compì il suo primo viaggio a Firenze, in treno, per un congresso. Nella stazione di arrivo, ebbe bisogno di usare il bagno. C’era una catenella; la tirò, per la maledetta curiosità che tradisce pure i migliori, e fu il disastro: vennero giù secchiate d’acqua che andarono perse nella tazza, senza che nulla si potesse fare per impedirlo. Un istante dopo, tutto era finito; sparite anche le prove del misfatto. Ma Peppino Di Vittorio era di leggendaria onestà e andò a denunciarsi al capostazione: era pronto a risarcire, non immaginava di procurare cotanto danno, tirando la catena... Il capostazione, superata l’iniziale perplessità, gli spiegò che non c’era nulla di cui scusarsi: lo sciacquone era lì apposta per ripulire, ogni volta, la tazza dopo l’uso. «Ma erano almeno dodici litri di acqua!» balbettò il sindacalista, sconcertato. «Al mio paese, è la paga di un giorno di lavoro, per un bracciante.»

Una terra senz’acqua viene arsa dal sole, si sbriciola in polvere che il vento solleva e il calore mantiene a mezz’aria. Orazio (“poeta latino”, ma era lucano di Venosa; mentre il primo “poeta latino”, Quinto Ennio, era pugliese, del Salento) diceva che l’afa della Puglia arrivava alle stelle. Le case delle mie nonne, dei miei zii, in campagna e al paese, lo ricordo bene (ero bimbo, adolescente, non parlo di secoli fa), avevano il pozzo da cui si attingeva il tesoro idrico che vi si convogliava con la pioggia, dai tetti a mandorla, o dalle feritoie dell’aia concava, nella cisterna. Noi, invece, già trasferiti in città, aprivamo il rubinetto (ed eravamo i primi pugliesi nella storia della Puglia!); anche se non sempre al gesto corrispondeva il presunto ovvio: il flusso dell’acqua; che era poca, contingentata. Solo molti anni dopo, la rete fu arricchita con gli apporti di altri bacini. Abitavo a Bari, allora, il capoluogo della regione, avevo poco meno di trent’anni, moglie, due figlie, e la mattina, quante volte!, mi toccava fare la doccia con una bottiglia di acqua minerale (non è vero che non si può, è solo questione di metodo).

Ed ero già della generazione fortunata dei pugliesi: il Sele era stato catturato da più di mezzo secolo, ma gli si chiedeva troppo: irrigare i campi, dissetare quattro milioni di persone, alimentare le aziende della montante industrializzazione della Puglia, con impianti colossali.

«La fine della nostra ricchezza segnò la nascita della vostra» mi dice il sindaco. Non è solo cronaca, è rimprovero. Ed è vero. Ti mostrano una foto d’epoca («Ecco com’era»): già a cominciare dalla bocca della sorgente, edifici affacciati sull’acqua vorticosa. E te li enumerano: mulini, tintorie, gualchiere per l’industria tessile... Caposele era uno dei centri più industrializzati dell’Alta Irpinia, con Sant’Angelo dei Lombardi e Calitri. Una eccellenza figlia dell’imponente quantità di acqua che sgorga da questi monti. Ai mulini di Caposele arrivava grano da macinare sin dalla Lucania; e così per le gualchiere, dove le stoffe artigianali (specie di lana) venivano pressate e ingentilite a colpi di magli in legno azionati dall’acqua, per essere poi tinte e dilavate. Poco distante, le ferriere trattavano il minerale inviato dall’isola d’Elba. «Eravamo ricchi,» borbotta l’assessore «d’acqua e per l’acqua.»

E, ancora oggi, qui tutto gira intorno alla sorgente. «Sorgente» si chiama il periodico (corposo, ben fatto) di Caposele; “Sorgente del sapere” si chiama l’associazione che organizza gli eventi culturali, appoggiandosi pure alla libreria Pergamon di Michele Cetta, a Sant’Angelo dei Lombardi (l’unica, mi dicono, in una subregione di 45 chilometri di raggio, fra Capitanata e Irpinia) e sull’attivismo di giovanissime volontarie del Presidio del libro, come Maria Stanco e Gerardina Giammarino (una laureanda in relazioni internazionali e diplomatiche, l’altra laureata in organizzazione di eventi culturali, indirizzo cinema. Qui?).

Un ampio slargo asfaltato trasuda acqua: «La sorgente vuole fuggire» commentano. Ti mostrano la prigione: «Lì,» sotto la parete umida e precipite del Paflagone «c’era il laghetto che la sorgente creava; oggi è chiuso da una copertura di cemento armato».

Il Sele non vede più il sole: imbrigliato in galleria, appena nato, scorre per 240 chilometri, sfruttando principi idraulici, meccanici e pendenze minime che tengono l’acqua in continuo movimento, ma che a fine percorso non arrivano a 100 metri di dislivello, dai 419 di partenza. «Se butti qui dentro una barchetta di carta,» dice l’assessore Conforti «fra tre giorni, tanto ci mette l’acqua ad arrivarci, la vedi uscire dalla bocca di Santa Maria di Leuca», la punta estrema del tacco d’Italia, ultimo sasso di Puglia. Lì, questa straordinaria opera di ingegneria genera la meraviglia finale: la cascata dal promontorio che si affaccia sull’incontro fra Adriatico e Jonio. Le acque residue, periodicamente, vengono sversate a mare, con un salto spettacolare. È il modo di spurgare la condotta, ma produce bellezza.

«Ancora oggi,» continua l’assessore «dopo un secolo, è il più lungo acquedotto del mondo (c’è chi dice solo d’Europa, adesso; N.d.A.), il terzo per portata d’acqua.» Sono passati guerra e terremoti su questa vena, senza romperla. La palazzina costruita a sorvegliare la sorgente fu la prima in Italia, in cemento armato: è intatta; oggi la utilizzano i carabinieri. Mentre gli opifici, le case in pietra che compaiono nelle vecchie foto, non ci sono più. A parte il campanile, rimasto lì, come un cippo, a ricordare che Caposele, una volta, era in un altro posto, proteso sulla bocca d’acqua (la chiesa è stata ricomposta altrove, sasso per sasso).

«Lo presero per un pazzo» dice l’assessore. Parla dell’ingegner Camillo Rosalba (cui è intitolata la prima galleria), quando propose il suo progetto; il primo a concepire un’impresa che sembrava impossibile: captare acque a centinaia di chilometri di distanza, per dare alla Puglia i fiumi che non ha. Vinse la gara per dissetare la regione più arida d’Italia, ma non riuscì a vedere realizzata la sua idea. Fu un facoltoso ingegnere barese a riprenderne le fila, rivisitandola, e a concludere un accordo con il Comune di Caposele («Hanno venduto e ballano!» commentarono i vicini dei caposelesi, quando in paese si fece festa, per la cessione della fonte); i tempi per l’avvio dell’opera, però, scaddero senza che si iniziassero i lavori. E, tanto per rispettare le buone tradizioni nazionali, si finì a causa; e dovette subentrare lo Stato, con il ministero dei Lavori pubblici. Era il 1905: in cambio di 700.000 lire, il Comune accettava che le acque del Sele divenissero demanio dello Stato; meno 500 litri al secondo, che avrebbero continuato a scorrere nell’alveo naturale (riducibili a 200, se la portata complessiva della fonte fosse scesa a meno di 4.000 litri al secondo). A questo modo, la Puglia avrebbe avuto il suo acquedotto e i mulini, i frantoi oleari, le tintorie e le gualchiere dei caposelesi non si sarebbero fermati.

Ma se la fame non guarda in faccia nessuno, figurarsi la sete... E qui scopro la storia che non sapevo. Ha ragione il sindaco di Caposele: la Puglia ha fatto loro quel che l’Italia ha fatto al Sud. Né è diverso il modo in cui la cosa è stata raccontata. Il Risorgimento è una fulgida cavalcata di visionari che realizzarono un sogno con la forza dei loro ideali (peccato abbiano dimenticato di dirci chi calpestarono, cavalcando cavalcando); e il colossale acquedotto fu l’esaltante risultato dell’incontro di uomini capaci di pensare e agire senza limiti: dall’ingegner Rosalba, al ministro Jatta, al barone Pavoncelli, tutti convinti che quando l’impossibile diviene necessario, l’impossibile non è più tale. Suona bene narrato così, no? I lavori cominciarono nel 1906 e nel 1915 l’acqua sgorgava da una fontana nel centro di Bari, forando l’Appennino dov’è più largo, scavalcando orridi e gravine profonde centinaia di metri: bastarono dieci anni e si stupì il mondo (oggi, nello stesso tempo, non si fa un marciapiede). E noi così abbiamo appreso la fine della “naturale”, “atavica” sete di Puglia. C’è di che essere tutti fieri e contenti, no?

No. Io quasi ignoravo esistesse un paese che si chiama Caposele e che noi pugliesi gli avessimo rubato l’acqua; ma che loro fossero ancora incazzati, non potevo immaginarlo! (Che senso ha che lo siano, dopo cento anni? Il senso che sono cento anni che ti prendi la mia acqua. Che senso ha parlare, dopo centocinquant’anni, delle stragi e dei saccheggi di cui fu vittima il Sud, per unificare l’Italia? Il senso che da centocinquant’anni lo stato di subordinazione costruito a mano armata viene mantenuto con la politica e le leggi.) Ha ragione Ceres, quando scrive che i pugliesi non sembrano «coscienti del fatto che la loro crescita si basa, tutto sommato, su ciò che i linguisti chiamerebbero un ossimoro, ovvero un furto legalizzato». Proprio quel che i meridionalisti (da Salvemini a Dorso, a quasi tutti gli altri, sino a Viesti, oggi) hanno sempre rimproverato al Nord, cresciuto a spese del Sud, sottraendogli “legalmente” (ma anche non legalmente) le risorse: dall’oro delle Due Sicilie ai fondi, europei e no, stanziati per il Mezzogiorno e spesi in Lombardia e dintorni dal ministro dell’Economia padana (abusivamente detta italiana), Giulio Tremonti.

Il potere contrattuale del Comune di Caposele, contro il ministero ai Lavori pubblici prima e il vorace Acquedotto pugliese, poi (spalleggiato da decisivi uomini di governo pugliesi), era ridicolo. Fra i più tenaci sostenitori dell’opera c’era il parlamentare Antonio Jatta, pugliese di Ruvo, uomo di grande competenza e autorevolezza; ministro ai Lavori pubblici era il barone Giuseppe Pavoncelli, pugliese pure lui (e dopo, durante il fascismo, per cinque anni, lo stesso incarico sarà affidato al barese Araldo di Crollalanza). In molti brigarono per sottrarre ai caposelesi pure la residua portata a loro riconosciuta dal patto di cessione della fonte. Ci furono riunioni a Bari, a Roma, ad Avellino, si fece un sopralluogo, «cui non partecipò il Comune, perché non invitato (che squallore!)», nota Ceres (ma va’! Proprio come oggi, quando alle riunioni per definire le norme federaliste, con cui rubare al Mezzogiorno pure gli spiccioli, non invitano nessuno del Sud).

E sarebbe stato strano pretendere che i ladri invitassero il derubato alla progettazione del furto!

Il 4 maggio 1939, la decisione è presa, lo scippo è compiuto: al Comune daranno un indennizzo di un milione e mezzo; 300.000 lire agl’imprenditori che vedranno sparire le loro aziende. Caposele non ha più niente: né l’acqua di cui era così fiera, né il distretto industriale. È la fine di tutto. Il 27 maggio arriva in paese il prefetto di Avellino: deve salire in municipio per la firma dell’atto. Ma la popolazione insorge, fatto inaudito, durante il fascismo, vigilia della guerra. Le donne impediscono l’arresto dei loro uomini, opponendosi ai carabinieri; prefetto e autorità sono costretti a cercare riparo nel paese vicino. Nei giorni seguenti (si può dire... calmate le acque?), i protagonisti della rivolta vengono arrestati e processati; il più attivo, don Pasquale Ilaria, mutilato di guerra, è confinato alle Tremiti, il maestro elementare Camillo Benincasa è trasferito d’autorità, su altri piombano pene inferiori.

Caposele, metafora del Meridione anche in questo, è spoglia e domata. Pochi mesi dopo, con l’accordo dei ministeri della Guerra e dei Lavori pubblici, l’Acquedotto pugliese può prendersi pure le acque rimaste comunali, ma solo di notte (come i ladri); tre anni dopo, anche di giorno (come i prepotenti). Passeranno trent’anni, prima che Caposele venga «parzialmente e irrisoriamente risarcito», scrive Ceres. E spiega: «le acque di Caposele e di Cassano Irpino sono state destinate per la quasi totalità alle popolazioni pugliesi e lucane e solo in minima parte a pochi comuni della nostra provincia; quelle di Serino all’area metropolitana di Napoli; quelle di Calabritto e Senerchia al Cilento. Non una sola sorgente alimenta attività produttive locali. Ragionando per paradossi, è come se i caposelesi si appropriassero di un tratto di costa del Gargano per fruire degli utili connessi al turismo». O come se la Lombardia vedesse il proprio bilancio gonfiato dal petrolio e dal gas estratti in Sicilia, Lucania, Calabria e Puglia. Come se.

L’acquedotto pugliese fu l’opera più imponente che venne varata per risarcire il Mezzogiorno, dopo decenni di razzia e drenaggio di risorse a favore del Nord (con leggi che imponevano tasse più alte a Sud e investimenti pubblici soltanto a Nord). Fu il frutto più ricco della diversa coscienza nazionale sorta grazie agli studi, all’impegno sociale e politico dei primi meridionalisti, che erano in gran parte settentrionali. Non fu il solo, perché altre iniziative (come la legge per Napoli, poi estesa all’intero Meridione) fecero dei primi anni del Novecento, uno dei due soli periodi, nei centocinquant’anni di storia unitaria (l’altro fu dopo la Seconda guerra mondiale), in cui si ridusse quel divario, sorto a partire dal 1861, fra le due aree del Paese. A riprova che, quando si vuole, si fa, si sa come, e si riesce.

Il Sele ora dà da bere ad alcuni in Lucania e Molise; a molti in Puglia. Ma la sete dell’Acquedotto pugliese è inestinguibile, perché ha captato anche parte delle sorgenti del fiume Calore, nel contiguo comune di Cassano Irpino, e le convoglia, dopo un viaggio di 15 chilometri attraverso una montagna e con una cascata, a ridosso della fonte del Sele. L’ente pugliese ha catturato pure il fiume Fortore, con la diga di Occhito; e l’Agri, con l’invaso artificiale del Pertusillo; e il Sinni, con quello di Senise; e l’Ofanto, con la diga a Conza della Campania; e il torrente Locone, con un invaso sulle Murge; e le acque della falda sotterranea, ricchissima, ma a rischio, per eccesso di prelievo (ed è un vero spreco che non si incentivi il recupero e la riattivazione delle migliaia di cisterne di raccolta dell’acqua piovana, scavate in tanti secoli).

«5.000 litri al secondo...» continua a borbottare, l’assessore-architetto, mentre li vediamo prorompere, quei 5.000 litri, convinti (se l’acqua potesse avere intenzione) di essere il parto della montagna che conquista la luce. Invece, no: l’acquedotto nega la luce alla sorgente, che viene chiusa in tubi e condotte, come se la montagna-madre fosse lunga centinaia di chilometri, perché la nascita, la via d’uscita, si riduca a un miserabile rubinetto. 5.000 litri al secondo: provate a immaginarli: cinque metri cubi, cinque tonnellate. Ogni secondo; contate: 1 (5.000 litri), 2 (5.000 litri), 3 (5.000 litri)... E valutate in quanti secondi quei cinque metri cubi al secondo riempirebbero tutti gli ambienti della vostra casa, il palazzo. Questa è la potenza del Sele. E adesso, aprite il rubinetto, contate quanti secondi ci vogliono per riempire il bicchiere; ogni dieci bicchieri, un litro; e ora moltiplicate per 5.000 quel tempo; e per milioni (i pugliesi, più un po’ di lucani e molisani) il vostro gesto.

I fiumi erano dei, un tempo: quando vedi la forza di quest’onda vergine, capisci perché. E quando la vedi imprigionata, costretta al buio e offerta in sacrificio alla sete della Puglia, comprendi quanto le dobbiamo.

«È santa questa fonte» dice l’assessore Conforti. «Per via dei ritardi lungo il percorso dentro la montagna, carsica, l’acqua sgorga alla sorgente con la sua portata massima, proprio quando ce n’è più bisogno: in estate!»

I pugliesi sanno che c’è Caposele e cosa gli abbiamo fatto? Solo io ignoravo l’entità del debito? «L’Acquedotto ci ha persino reso invisibili» rivela l’assessore. «Il nostro paese non è riportato, nelle mappe militari, perché “obiettivo sensibile”: un attacco terroristico qui, contaminando l’acqua, colpirebbe quattro milioni di persone in Puglia.»

La mia regione dovrebbe istituire un pellegrinaggio annuale alla fonte della sua ricchezza. E restituirne una parte generosa o almeno equa a Caposele. I nostri scolari delle elementari dovrebbero apprendere la prima lezione di cittadinanza pugliese alle fonti del Sele: la vita della loro terra sorge lì. Caposele è Puglia fuori Puglia; è sua madre: e qui che le “si rompono le acque”.

E qualcuno dovrebbe raccontare loro cos’era prima la nostra terra (siticulosa, scrisse Orazio). Da appena tre, quattro generazioni, il sogno dei pugliesi per decine di migliaia di anni è un fatto quotidiano così banale, che nemmeno si immagina la vita di prima. Quelli della generazione di mio padre, che lo sapevano, per averlo vissuto, non ci sono più. E il miracolo quotidiano, passa inavvertito. Ci si dimentica pure di dire grazie...

«Non sappiamo nemmeno quali diritti abbiamo sulla residua quota di 363 litri al secondo,» dice Conforti «regolati da una convenzione fra il nostro Comune e l’Acquedotto pugliese, che scade nel 2012, dopo un secolo.» Ne parliamo alla vigilia del referendum (giugno 2011) contro la privatizzazione dell’acqua. «Quello che può succedere allo scadere dei cento anni è un mistero. Abbiamo consultato luminari, scavato negli archivi alla ricerca di documenti... Ma è come giocare a poker, senza neanche sapere qual è la posta. Potrebbe venir fuori qualche normativa europea che cambia tutto e annullare le convenzioni come quella nostra con l’Acquedotto pugliese.»

Nel dubbio, loro hanno preparato una bozza; dentro c’è un po’ di tutto: la richiesta di soldi (1,5-2 milioni all’anno, che per il Comune sarebbero tanti, visto che non ne ha nemmeno per chiudere le buche nelle strade. «“Sono pochi, chiedetene 10” ci dicono alcuni, in paese» riferisce Conforti. «Come se la questione fosse quanti prenderne, non quanti riuscire ad averne»); di investimenti, infrastrutture («Il nostro territorio è franoso, ha bisogno di opere di consolidamento. Il gran piazzale dinanzi alla sorgente, sistemato e attrezzato, tornerebbe utile per iniziative turistiche. Sarebbe tutto lavoro per il paese»); di energia («La cascata delle acque di Cassano, un salto di 45 metri, a ridosso della nostra sorgente, potrebbe alimentare una centrale idroelettrica e fornire energia gratuita per usi civili, industriali»); di poteri («Se ci dessero la gestione della “casa” della sorgente, potremmo sfruttarla a fini turistici. Oggi è chiusa al pubblico e ogni volta, noi stessi, per farci aprire la porta e mostrare la nascita del fiume a qualche visitatore, dobbiamo chiedere il permesso all’Acquedotto pugliese, a Bari.» Capisco di essere stato un privilegiato).

Per la prima volta, il Comune trova nei dirigenti dell’Acquedotto e nel presidente della Puglia, Nichi Vendola, interlocutori disponibili. Dopo cento anni.

Ha ragione il sindaco di Caposele: mentre il Sud recupera la memoria e chiede conto al Paese e al Nord di quel che gli è stato sottratto e gli ha impedito di evolversi come avrebbe potuto, Caposele riscopre la storia della sorgente rubata, di una possibilità di sviluppo che era già avviata e fu distrutta. E la risorta coscienza mostra diritti negati. Nel rispetto dei quali c’è la possibilità di futuro e rinascita. Perché, chi vuole equità, deve darla.

E poi dicono che la storia non serve a niente.

Aprile Pino - 2011 - Giù Al Sud
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