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QUESTO È IL SUD:
RIONE SALICELLE

Qui il terremoto non c’è stato: il quartiere nacque dopo; ma se ci fosse (salva la gente), non potrebbe peggiorare le cose: la mano dell’uomo ha provveduto, perché i terremotati non rimpiangessero le macerie. «Nacque per ospitare gli sfollati del sisma dell’80. Lo chiamarono Nuovo Centro Residenziale, NCR, quartiere modello: tre ville comunali, Pretura, l’ufficio delle Poste.» E quello che vedo intorno (periferia di Baghdad dopo la “liberazione”) mi fa desiderare di arrivarci prima possibile. «Dove?» mi chiedono. «All’NCR.» «Ci siamo dentro.» Ops! Le ville? «Be’, mo’ sai, con il problema della monnezza, c’è sempre qualcuno che approfitta di quello spazio...» La Pretura? «Struttura bellissima, ma ci sono voluti più di dieci anni per farla.» E le Poste? «Chiuse dopo un giorno, per gli uffici devastati durante la prima notte, dopo l’inaugurazione. E sai che significa non avere l’ufficio postale?» ti dicono.

Un bel fastidio, immagino. No, di più: «Per consentire ai pensionati di riscuotere, mensilmente, si dovette istituire un servizio navetta, con un pulmino, e traghettarli al più vicino ufficio postale».

Già, perché il quartiere-modello conta circa 20.000 abitanti ed è sorto posticcio sulla coda di Afragola, che in tutto (compreso quelli) ne fa 70.000. Andare ad Afragola da Salicelle (che sempre Afragola è), non è un gran viaggio, ma è scomodo. Disagio seccante, se pensi che le Poste le avevi sotto casa. Disagio che ai pensionati, infine, fu risparmiato. Non che gli mandino la pensione a casa: hanno abolito il pulmino-navetta, perché, si disse, lo trovavano comodo pure i rapinatori, che da Salicelle scendevano in centro ad Afragola, rapina (per forza: con la scusa della giovane età, non gli dai la pensione!), e ritorno a casa in navetta, con il bottino. Il solito... tram tram. Così, ti spiegano, parve una buona soluzione sopprimere il servizio: che ci vadano a spese loro i rapinatori, a rapinare. O rubino prima un’auto, un motorino; ma portarceli noi, proprio no! Oddio, restano a piedi pure i pensionati, ma la perfezione non esiste. La vicenda è di diversi anni fa; il picco di rapine ci fu; gli autori erano quasi sempre di Salicelle, ma una conferma ufficiale, giudiziaria, di questa storia, non c’è. Eppure, vista da qui, appare assolutamente credibile.

Ti viene da pensare che questo accanimento contro il Nuovo Centro Residenziale sia una sorta di pulsione distruttiva ai danni di una patria paesana estranea, da parte di chi, terremotato, ha visto la sua crollare in pochi secondi. Lo pensi, e lo dici pure! «Nooo, ma qua’ terremotat?!» ti rispondono. «Qua non ce n’è manco uno, più. Nel corso degli anni, le case sono state riassegnate secondo criteri, di volta in volta, mutevoli.»

Afragola è una cittadina, può piacere o non piacere, ma i negozi ci sono, gli uffici anche (inclusi quelli postali), strutture per servizi e svago le trovi. A Salicelle non c’è niente: 20.000 abitanti quando scendono in strada (ma gli conviene?), trovano la strada. Forse. Nessuna indicazione: a qualcuno fa comodo così. L’erba sui marciapiedi, dove il marciapiede ancora c’è; le buche, qualche rottame, sporcizia quanto basta; le carte che volano, insieme a cespi secchi di arbusti leggeri (visto mai, nei film, quei villaggi abbandonati del West?); una sensazione di lenta e irreversibile rovina e di pericolo diluita nell’aria, i muri scrostati, i ragazzotti che fanno i duri con i motorini e ti tagliano la strada al pelo, senza guardarti e manco un vaffanculo. Le strade non hanno mai avuto un nome, a Salicelle, i numeri civici non esistono; le palazzine sono identificate con il numero dell’isolato; quelle della cooperativa Nuova Casa, con il nome di un fiore (incluso quello della Rosa...): Palazzo Rosa, Palazzo Mimosa... L’unica via che vanti pubblica esistenza è via Salicelle, ma anche quella senza numeri. Altre, viale Europa, viale Nazioni Unite, piazzale Unicef, sono state battezzate così da una pionieristica dirigente scolastica (che poi incontrerò), a dispetto di tutto.

Volesse dire qualcosa, forse sarebbe questa: «Se sei di qui, stattene a casa. Se non sei di qui, vattene a casa». Non so nulla delle persone che mi hanno invitato. Mi hanno detto che sono dei volontari, lavorano con la scuola, la parrocchia. Non ho avuto il coraggio di dire no. E ora mi chiedo se non dovevo informarmi meglio... Sai la droga, qui! «Qui? Nooo» mi assicurerà, poi, uno dei volontari. «Qua non ne gira.» E si racconta una storia, sul perché: «L’avrebbe giurato la vedova del boss, al marito morente, Gennaro Moccia, ucciso dai killer del clan rivale, i Magliulo, durante la guerra di camorra». (Vero o non vero, droga non ne gira. Quei pochi che hanno provato a smerciarne sono stati gambizzati.) Però, la vedova!, almeno qualcuno in famiglia... Mi guardano strano (non lo dicono, ma è chiaro lo stesso: «Ma dove vive questo: e fa il giornalista, lo scrittore, è del Sud?»): «La vedova è Anna Mazza!».

Uh, Madonna, è vero: Anna Mazza, vedova Moccia. È già nella storia: prima donna condannata per associazione mafiosa. «Ma che dici, quale condanna?» mi avverte un collega di Napoli. «Lei adesso è pulita. Assolta.» Ops... le mie scuse alla signora: girano tante di quelle chiacchiere... Poi, camorristicamente parlando, sono successe molte altre cose sulla pelle e nella carne di Salicelle; nuovi poteri criminali (in cui la dinastia Moccia compare con un paio di figli, uno all’ergastolo per più omicidi); nuove alleanze e strategie. Ma c’è bisogno di questi inferni, per creare paradisi altrove: al degrado del quartiere modello corrisponderebbero linde strutture turistiche dal Veneto al lago di Garda (riva lombarda), forse anche in Cilento. Stando a NCR, si vede bene la doppia faccia del male: qui opprime, deprime e toglie; altrove, la ricchezza così sottratta si presenta generosa, ligia alle regole, e si moltiplica con beneficio diffuso, avendo nulla di incivile, a parte l’inconffessabile origine.

Non ha molto interesse che questa sia Salicelle, Afragola, o un’altra cittadina del Sud; che il fiato pesante che infesta la vita della gente sia quello della camorra, della ’ndrangheta o di cosa nostra: il risultato, dove questo accade, è ovunque uguale, ovunque accada. Qualunque sia il potere che governa Salicelle è forte, perché non ci sono faide, sparatorie. Se la camorra qui fosse più debole, si avrebbero problemi per lo scontro fra contendenti o con le istituzioni. Qua, tutto tranquillo: si sa chi comanda. «Un voto costa 50 euro o beni di prima necessità: zucchero, caffè, prosciutto. Paga la destra, gode pure la sinistra, ché la spesa la fanno alla Coop. L’amministrazione comunale è stata sciolta tre volte per mafia: è successo sia con il centrodestra sia con il centrosinistra.» Par condicio.

Uno che vuole farti capire in breve, la dice così: «Salicelle sta ad Afragola, come il Sud sta all’Italia». E ’sta cosa la sapevo già: non si è mai abbastanza meridionali, per esserlo di tutti.

Ecco, questo è il fuori, di Salicelle. A essere superficiali, può capitare di farsi giudici di quel che si vede. Il dentro di Salicelle è altro; e a essere superficiali, può capitare di sentirsi giudicati; e con molte ragioni in più, almeno nel mio caso. Salicelle è la negazione dell’anima mediterranea: paese senza piazza, strada senza struscio; un posto dove non ci si incontra, ci si chiude. Ma questo è allontanarsi dalla vita, che ferve, c’è, produce, quando ci si mischia. Tanti piccoli mondi, chiusi da muri e una porta, non sono gente, non sono vita, non sono paese: somigliano a un cimitero, dove si sta, ma ognuno per conto suo, morti o vivi, non fa differenza, nel proprio spazio dedicato.

Così, per incontrarsi, a Salicelle, ci vuole del coraggio e un posto chiuso ma ampio. Una piazza coperta, diciamo; uno spazio mediterraneo per l’uso, nordico come ambiente: per trovarsi con gli altri, devi rinunciare al sole, a Salicelle; o rinunciare a Salicelle, per stare con gli altri al sole.

Cosa rimane a 20.000 abitanti, oltre restare a casa o evaderne quando si può, per quanto può? La scuola e la chiesa. «Per operare in una situazione come questa, ci vogliono degli eroi» mi dice un amico che ha voluto accompagnarmi da Napoli.

Ci sono dei «volontari che vengono da fuori», me li presentano così (be’, “fuori”, per molti di loro è Afragola. Cioè, lo stesso comune. Il che sembra suggerire che, nel sentire collettivo, “fuori” non è chi viene da Afragola, ma Salicelle, sotto sotto, mai accettata come parte di Afragola). Hanno creato un circolo culturale universitario, con altre associazioni, laiche e religiose. Sono loro che mi hanno invitato. Ma, alla vigilia dell’incontro, il comandante dei Vigili Urbani, «accompagnato da un funzionario dell’Azienda sanitaria di Nola (quello competente, di Afragola, si era rifiutato) ci chiude la sede del cafè-cabaret» mi spiega Lucio Iavarone, referente delle associazioni di volontari. «Per motivi sanitari.» Da giurarci: sempre su monnezza o similmonnezza vai a sbattere! «Era finita la carta igienica in bagno.» Scherza? «No.» E solo per questo? «Be’, non solo, per esempio, era finito pure il sapone.» Lodevole rigore; non applicabile fuori, perché bisognerebbe chiudere l’intero quartiere, per il motivo opposto: la debordante presenza di carta, igienica e no, incluso il materiale che quella carta non ha rimosso a dovere, e altre porcherie, non solo biologiche. Ma non si può arrivare a tutto. E gli occhiuti funzionari forse non hanno fatto caso, per via del manchevole cesso culturale, a quel cesso di quartiere. Qualche tempo dopo, Iavarone mi informa che «il giudice ha dissequestrato il cafè-cabaret, giudicando eccessiva la solerzia delle autorità competenti. Le quali, nel frattempo, hanno altro a cui pensare, per un’indagine che ha investito l’ufficio dei Vigili Urbani, con richiesta d’arresto di alcuni stretti collaboratori del comandante». Accidenti: vuoi vedere che era finita la carta igienica pure là?

Persa la comodità del cafè-cabaret, mi avevano chiamato imbarazzati, i volontari, per dirmi che la sede del nostro incontro avrebbe potuto essere un po’ rimediata. Li avevo rassicurati: lo faremo per strada, al bar, a casa d’Irene, nel ristorante di Alice, nei cessi pubblici (persino senza carta igienica e con l’obbligo di portarsela da casa), ma ci sarò. La cosa si è risaputa. E i volontari hanno avuto il sostegno e la solidarietà dal Comune (no, non di Afragola, quello interessato; quello accanto, Acerra). La presentazione di un libro che si chiama Terroni, in un paese del Sud, sembra essere diventata una sfida. Se lo racconti, non ti credono. Ma i volontari hanno ora avuto l’appoggio della scuola e raddoppiato le loro iniziative. È lì che mi portano. Ormai sono suggestionato: mi pare Fort Apache.

La prima cosa che pensi è: qui non hanno soldi (una tinteggiata ai muri ci vorrebbe; le scarpe, le camicie, i calzoni di alcuni presenti hanno superato l’età del servizio attivo, persino considerandone i tempi secondo gli allungamenti previsti dall’ultima riforma pensionistica; le sedie, meglio saggiarne la solidità, prima di affidarvisi...); la seconda è: sono tesi (lo diresti un misto di rivalsa, orgoglio, forse persino di timore del dopo, del gesto. Si avverte, e forte, questo qualcosa, ma non so dirlo meglio, me ne scuso).

Gli studenti delle medie hanno realizzato oggetti, collage, quadri (ora in mostra) ispirati all’Unità d’Italia, il tema è: “La storia imbavagliata”. E ci sono i ragazzini delle scuole inferiori, armati di flautuzzi di canna, quelli a due, tre euro dal cinese (fino a otto, se made in Italy). Quello hanno e gli deve bastare. Come ribelli contadini alla guerra con falci e forconi, loro entrano nella musica con un pezzo di canna. E il loro maestro (altro volontario) li educa al miglior uso del quasi niente. Sono intimiditi, piegati dal compito, si guardano a vicenda e poi il professore. Alcuni chiudono gli occhi, quando cominciano a suonare. Il fiato corto dell’emozione strozza qualche nota; il colpevole sfiora il pianto, non riuscendo a perdonarselo. Fanno ’O surdato ’nnammurate e ’O sole mio; e quello che vedo sui volti degli ascoltatori non ha nulla a che fare con la volenterosa bontà dell’esecuzione. Tutto quello che accade qui, stasera, sembra opporsi a qualcosa.

E non è solo una mia sensazione, se Enzo Gulì, appassionato cultore di storia partenopea, spenta l’ultima nota, dice: «La poderosa fioritura della musica napoletana, che pure era già grande, quella che ha conquistato il mondo, esplose dopo il 1860, come sfogo artistico di un popolo vinto». Non ci avevo mai pensato: alle stragi di Cialdini, Pinelli, De Sonnaz e altri macellai, forse dobbiamo Marechiare, Era de maggio! Voglio capirci qualcosa di più di questa faccenda. Non ora.

La dottoressa Giovanna Mugione, il dirigente scolastico dell’Istituto comprensivo Europa Unita, che ci ospita, è arrivata qui due anni fa. Se fu una condanna, non lo dice. «Ma se sono rimasta, è per mia scelta» rimarca le sillabe, indurendo i muscoli delle spalle, che le tirano indietro il collo. «Perché qui c’è da fare; perché credo nei miei alunni.» E quei genitori, quei nonni, sui gradoni del piccolo anfiteatro, sollevano il mento.

Come punizione all’accidentale ministro alla Pubblica istruzione, per i danni fatti a queste scuole di frontiera (ha distribuito in tutt’Italia i soldi destinati al risanamento degli edifici scolastici del Sud e insultato gli insegnanti meridionali), la costringerei in una classe di queste, a guardare cos’è la scuola, quando c’è solo la scuola e deve esserti scuola di tutto: italiano, matematica, civismo, coraggio, democrazia, dignità e antimafia.

Antimo Ceparano, poeta e attore, impiegato all’Ansaldo, recita ’O surdat e’ Gaeta (E ’a Riggina! / Signò!... Quant’era bella! / E che core teneva! / E che maniere! / Mo’ na bona parola a’ sentinella, / mo’ na strignuta ’e mana a l’artigliere... / Steva sempe cu nui!...). L’intensità con cui viene vissuto (non declamato) il poema è molto contagiosa: colpisce me, ma qualcosa di molto serio scende sui volti degli ascoltatori, che il napoletano lo capiscono tutto, non a tratti, come me. Sto assistendo a una specie di rito, e ne resto coinvolto.

Ammiro questa gente, riconosco la loro superiorità civile: sono loro che puntellano la casa; noi ci limitiamo ad abitarla, cercando di non sporcare per terra. Ma è la dirigente scolastica che dice a me: «Lei forse non sa quello che ci ha dato. Grazie». Andrei a nascondermi.

Vogliono raccontare, raccontarsi, ma il tono è rivendicativo. A uno a uno, con le loro domande, ti consegnano un brandello della propria storia. Ma uno di loro, ingegnere elettronico, Rosario Terracciano, fonde, e quasi confonde, la sua vicenda con quella del territorio, anzi, da questa la fa derivare. Narra la scoperta dello straordinario livello scientifico che trovò all’Italsider di Bagnoli, lo stabilimento siderurgico che per un secolo fu volano economico, politico, sociale di Napoli. La sua chiusura, che Terracciano giura ingiustificata, amputò la città: nella testa, prima che nel portafogli.

Lui si occupava dei sistemi informatici. Dice degli acciai speciali che producevano; fra i più pregiati al mondo. E il lamierino per auto probabilmente era il migliore in assoluto, al punto che il Giappone lo comprava di nascosto (forse per non ammettere il divario con la sua industria siderurgica, se ho capito bene). È una filippica appassionata. «Facevamo cose importanti, noi; facevamo cose belle ed eravamo stimati ovunque per il nostro lavoro!»

Il racconto del mutato panorama del suo percorso quotidiano da pendolare potrebbe essere una pagina di storia economica. O un numero di cabaret-verità. Elenca le aziende che incrociava lungo la via: «La Fabbrica dello spirito, la Manifattura Tabacchi (oggi discarica), Partenavia e Montefibre, Richardson-Merrel, Fag, Avis (Avioindustrie), Ciba Geigy e Fondedile; l’Industria Politecnica Meridionale, Sofer, Cirio, Birreria Peroni, Centrale del latte, Pirelli, Meltem, Olivetti, Magrini, Sirma, Eternit, Mecfond, Remington, Snia Viscosa, la mia Italsider...

E mo’? Mo’, nessuna di queste aziende esiste più. Lungo la mia strada, per quei paesi, trovo solo centri commerciali: l’Appia Center, il Campania, Le porte di Napoli, Eldo, Ikea, Medi, La Reggia Designer Outlet (La Reggia... sfottono pure!), Le Ginestre, Auchan (quattro!), San Paolo, Jambo, Mercogliano, Carrefour, Città mercato, Le cascate, La masseria, Le aquile, Vulcano buono, Castorama Italia, Meridiana... Ci sono 811 centri commerciali a Napoli e provincia, secondo le Pagine Gialle.

Dello stabilimento Cirio era direttore il mio compianto zio, Giancarlo Argentino: mi ci portava da bambino, mi spiegava i processi di lavorazione; ne ero affascinato: sono cresciuto fra quelle macchine, è lì che ho deciso di fare l’ingegnere, da grande. E mo’? È un supermercato GS! (Lo stabilimento era a San Giovanni a Teduccio, baluardo della cultura industriale e operaia di Napoli, già dalla creazione delle officine di Pietrarsa, le più grandi e moderne d’Italia sino all’Unità d’Italia; poi condannate al declino: si sparò ad altezza d’uomo sulle maestranze che volevano impedirlo. Furono, infine, trasformate in museo. Almeno, per consolazione dell’ingegner Terracciano, non sono ancora diventate un centro commerciale. Per ora; N.d.A.)

Lì noi facevamo cose importanti, che gli altri compravano. Avevamo lavoro, dignità e orgoglio. Ora, dov’erano quelle fabbriche, gli altri vendono cose che noi compriamo; e per farcele comprare, ci danno, magari, una pensione d’invalidità, per potercela rimproverare. Da produttori a clienti assistiti... Ihiiiii, che soddisfaziooone!».

Mentre vado via, Iavarone mi raggiunge: «Non farti impressionare da quello che hai visto: Afragola rinasce, incluso Salicelle. Non hai idea di quante cose ottime sono in cantiere, quanti vi partecipano, si impegnano. E quello che riusciremo a fare qui, a Napoli, in Campania, a partire proprio dalla monnezza, che può essere trasformata in ricchezza vera, potrebbe diventare un esempio per tutti, in Italia, in Europa. Si può fare».

Eccone un altro che non ha letto Giorgio Bocca e non sa che questa terra è irredimibile.

Aprile Pino - 2011 - Giù Al Sud
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