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IL DITO E LA LUNA

«Pino presidente!» (non mi si dice di che), scandiscono in piazza, dopo una presentazione di Terroni, in Calabria, e in un teatro in Puglia e in altre occasioni. Prospettiva imbarazzante, visto che la siglia (P.P.) parrebbe la pubblicità di un diuretico.

La butto sullo scherzo: «Non ho i requisiti: sono incensurato, calvo non catramato, non vado a trans con auto di servizio né propria, e la casa nessuno me l’ha pagata a mia insaputa, la banca mi avvisava sempre per la rata del mutuo!». Se dopo la risatina insistono, aggiungo: «Da quarant’anni tento di essere un giornalista decente. Mi pare già parecchio impegnativo» (tacendo, per educazione, l’alterigia del mestiere, così espressa da Enzo Biagi, quando Fanfani ne chiese il licenziamento dal «Corriere della Sera»: «Io sono un giornalista, lui solo un ministro»).

Terroni, in cui ricostruisco 150 anni di Unità d’Italia, visti da Sud, è diventato «un libro bandiera, un vessillo della nuova fierezza meridionale, un inno di guerra culturale e di nostalgia», secondo Pierluigi Battista, vicedirettore del «Corriere della Sera». E, per lo storico Giordano Bruno Guerri, su «il Giornale»: «la rivendicazione dell’orgoglio meridionale, oltre che un tentativo di spiegare – in modo appassionato e polemico – come l’Unità d’Italia abbia danneggiato il Sud e quanto sia costata ai suoi abitanti: ridotti, decennio dopo decennio, a italiani di seconda scelta» (alcuni mesi dopo, Guerri pubblica Il sangue del Sud, che riprende cifre, analisi e denunce sull’invasione del Regno delle Due Sicilie e quella guerra civile che fu spacciata per “lotta al brigantaggio”).

Io volevo solo finire un libro inconcluso da troppi anni, e mi ritrovavo riluttante capopopolo! Mi hanno chiamato all’estero (dal Nord Europa all’America), in università, centri studi o associazioni di connazionali («Ora so perché, col mio cognome duosiciliano, io e mio padre siamo nati a New York e in Italia sono extracomunitario» mi dice Anthony Quattrone, che lavora alla NATO. Altri ti confidano che, letto il libro, il nonno ha confessato l’esistenza di “briganti” nell’album di famiglia: non se ne vergogna più, anzi!).

«Se ti candidi, ti eleggiamo e divieni nostro leader» mi propongono delegazioni di partiti, movimenti meridionalisti, associazioni: mi hanno adottato, mi aiutano a scovare libri, documenti, mi invitano a tenere conferenze; lezioni in un paio di scuole di partito («E di che? Mai frequentato partiti.» «Parla dei temi del libro.» «Ah, vabbe’»); alcuni imprenditori hanno acquistato le copie per i loro dipendenti (specie al Nord!); degli amministratori locali, per le scuole; dei parlamentari, per i loro elettori. La senatrice Adriana Poli Bortone mi vorrebbe candidare a sindaco di Napoli (non ho vocazione al martirio e la città ha avuto troppi amministratori incapaci, per essere ulteriormente castigata); il presidente della Sicilia, Raffaele Lombardo, mi chiede di accettare il ruolo di garante del programma comune di una federazione di gruppi politici meridionalisti; il sindaco di Bari, Michele Emiliano, unico nel Pd a capire la portata dei nuovi sentimenti a Sud, a condividerli e rappresentarli, mi esorta a «prendere le responsabilità»; mi hanno invitato più volte i ragazzi di “Io resto in Calabria”, il movimento del coraggioso imprenditore Pippo Callipo. Non continuo, li cito solo per osservare che la prima è ex An, fondatrice di “Io Sud”; il secondo è un ex democristiano, poi Udc, e ideatore del Mpa (Movimento per l’autonomia); il terzo è del Pd; il quarto è un senza partito, nonostante da destra e da sinistra abbiano cercato di arruolarlo. E questo, per la politica “ufficiale” (che si arricchisce, in pochi mesi, di nuovi soggetti opportunisti, fiancheggiatori o antagonisti, sino a fenomeni “di Palazzo” come Noi Sud e Forza del Sud, di Gianfranco Miccichè, sotto l’inquietante e interessato sguardo di Marcello Dell’Utri).

Ma oltre ai gruppi culturalmente e numericamente più apprezzabili, come il Partito del Sud, il Movimento Neoborbonico, Insorgenza, scopro una miriade di formazioni (fra 100 e 150, mi dicono) anche micro, talvolta monocellulari, ma attivissime, di giovani e no, persone non impegnate in politica che ora si cercano e dicono: «Facciamo qualcosa». A volte ti commuovono: si tassano, per pagarti viaggio e sosta da loro, discutere del libro e, soprattutto, di «Cosa fare adesso?».

Come si fa a pensare tutto questo conseguenza del libro? Quello che c’era nella stanza non l’ha generato il dito che ha acceso la luce; c’era anche al buio, solo che non lo vedevamo.

Giancarlo Mazzuca, già direttore del «Quotidiano Nazionale», poi parlamentare, teme, e lo scrive, che il mio libro alimenti «la rivolta del Sud». Perché ricordo che è stato “unito” con fucilazioni, tortura, lager, progetto di deportare i meridionali in Patagonia; tasse solo al Sud, per pagare le spese della guerra subita; mentre, nella cassa comune del Paese ormai unico, arrivano dall’ex Regno delle Due Sicilie i due terzi dei soldi e il residuo terzo, da Nord e Centro insieme... e poi, insomma, tutte quelle altre cose che, quando le metti in fila, ti ribolle il sangue. Ma davvero si pensava restassero senza conseguenze vent’anni di insulti leghisti (e non solo) contro i meridionali “topi”, “porci”, “merdacce”, “cancro”; la continua sottrazione al Sud, in favore del Nord, dei soldi per le aree sottoutilizzate, per le scuole cadenti, per porti e strade dissestate di Sicilia e Calabria; il Comitato interministeriale per l’economia (CIPE) che sblocca finalmente i fondi per i lavori pubblici, assegnandone 99 parti su cento al Nord e una al Sud? E dopo il coro di proteste, si riunisce di nuovo e procede a una ulteriore distribuzione di fondi, esattamente nella stessa proporzione, per un totale di oltre 30 miliardi di euro a Nord e poco più di 300 milioni a Sud? E se fosse accaduto il contrario? E se parlamentari meridionali inveissero contro “topi milanesi” e “merdacce padane”? Qualcuno comincia a chiederserlo.

No, rispondo a Mazzuca, tutto questo un libro può forse raccontarlo, non generarlo. Sì, ci sono libri capaci di cambiare la gente e la storia, ma il mio non è fra questi: papà si chiamava Giorgio, non faceva il falegname e io sono nato di febbraio.

Ci si ostina a non voler vedere che Terroni e gli altri libri sul tema sono il dito; la luna è quel che succede al Sud, l’ansia sempre più forte e diffusa di recupero di equità per se stessi e per la propria storia. Ma le frettolose meningi di editorialisti lombardocentrici, mentre l’Italia sta facendo harakiri, non riescono ad andare oltre: «Il Sud deve fare autocritica».

E qualsiasi cosa il Sud faccia, anche solo raccontarsi, persino aver ragione, è sempre un errore: o è sbagliato il cosa, o è sbagliato il come, o è sbagliato il quando. Tutto, meno che chiedersi perché. Nel presentare i libri più letti del 2010, bilancio di fine anno, Antonio Carioti, sempre sul «Corriere della Sera», si stupisce di Terroni sul podio, «un successo in parte comprensibile» scrive «visto che il Sud ha molte più ragioni del Nord di lamentarsi per come andarono le cose nel Risorgimento, ma forse controproducente, visto che oggi delegittimare l’unità d’Italia favorisce proprio chi vuole abbandonare il Sud al proprio destino». Traduco: hai ragione, ma meglio non dirlo, sennò delegittimi l’Unità. L’onestà di intenti di Carioti è evidente, ma il risultato non cambia: se parli avendo torto, è sbagliato il cosa; avendo ragione, è sbagliato il quando; o il come, se qualcuno (stavolta, io) «enfatizza le recriminazioni meridionali contro lo Stato unitario».

Prudenza... ché ci sono milioni di leghisti pronti a battersi, minaccia Bossi (ministro della Repubblica, non uno sbruffone qualsiasi; o uno sbruffone qualsiasi, disgraziatamente ministro della Repubblica): e vogliamo dargli un pretesto? Perché, vi risulta che sinora ne abbia mai avuto bisogno? Molti, a Sud, reagiscono ormai con insofferenza a questi consigli («Attenzione» commenta su Facebook la lettrice che mi “posta” la pagina del «Corriere», «per Carioti, siamo già colpevoli di qualcos’altro»); a me sembra che nascano spesso in buona fede, da analisi svelte, per l’abitudine, sia a Nord sia a Sud, di sottostimare ruolo e diritti dei meridionali; e di individuare le ragioni dei comportamenti antimeridionali (sino a giustificarli), sempre in una colpa del Sud: sì, la Lega sarà becera, ma esprime e cavalca l’esasperazione del Nord per l’inefficienza del Sud; sì, si sono presi i fondi destinati al Mezzogiorno, ma perché “quelli” non li usano, li spendono male, li rubano (così glieli tolgono, ma a fin di bene, metti che servano a completare quei quattro chilometri della statale 36 per il lago di Como, in costruzione da oltre 10 anni, al prezzo di 57 milioni di euro, pari a 115 vecchi miliardi di lire, a chilometro. Tutto in pianura. Record mondiale): se la prendano, piuttosto, i meridionali, con i loro amministratori corrotti (potremmo farci prestare Scajola, Verdini, Berlusconi Silvio, con uso di fratello minore Paolo pregiudicato, di legale promosso ministro e pregiudicato Cesare Previti, e braccio destro Marcello Dell’Utri con condanne per mafia in due gradi di giudizio, e monumento all’“eroe” di famiglia Antonio Mangano, pluriomicida, trafficante d’ogni porcheria, condannato all’ergastolo); sì, forse la Lega esagera nei toni, ma i meridionali dovrebbero fare autocritica...

Angelo Panebianco, sullo stesso giornale, aveva avvertito che se il Sud non la smette di replicare alle provocazioni leghiste, la Lega ne approfitterà per spaccare il Paese. Quindi, se succedesse, la colpa sarebbe del Sud che non sta più zitto, quando lo insultano. E se l’Italia si dividesse, il Sud perderebbe, avvisa Panebianco, perché non ha i soldi del Nord (sembra il consiglio dato alle mogli picchiate dai mariti: lui non è cattivo, figlia mia, è carattere! E potresti pure evitare di rispondere, lo sai che si imbestialisce, se lo provochi. E comunque è un lavoratore, porta a casa lo stipendio. Poi come fai con i figli?). È la forza delle idee...: il Nord non ha i soldi. Vuoi vedere che se Ghandi sconfisse l’impero britannico, senza sparare un colpo, e liberò il subcontinente indiano, fu perché era ruscito a diventare più ricco della regina d’Inghilterra? (Risparmiando fino all’osso, però: uno straccetto sulle pubenda, scalzo, due chicchi di riso nella ciotola... se ce l’aveva la ciotola).

C’è stupore, vien da dire, quasi fastidio, in certi commentatori del Nord, per le pretese di chi non sa più stare al suo posto. Se gli argomenti scendono a questi livelli, è perché non vengono mai esposti al rischio del confronto: la voce del Sud non compare quasi mai sulla “grande stampa” (il giorno dopo il raduno, a Catania, di migliaia di attivisti meridionali, per creare una formazione politica unitaria, non c’era un rigo sui quotidiani nazionali, ma non siamo stati privati di foto e cronaca della rottura della fune, durante una sfida “al tiro” fra leghisti).

Immediate e roventi le reazioni sulla sterminata lavagna che è il web, specie Facebook, ogni volta che un articolo del genere appare. Se l’autore è del Nord, la circostanza basta come spiegazione; se meridionale, è un venduto. La mancata comprensione dei comportamenti approfondisce il solco. Si trascura che ognuno legge la realtà attraverso la lente della sua esperienza e dei suoi interessi, che reputa (si spera in buona fede) legittimi. Così, è facile che sui giornali del Nord si sottovalutino i rischi delle pretese leghiste, persino le più spudorate manifestazioni di razzismo (di cui, magari, qualcosa, non dicendolo, si condivide). E se scrivi su un giornale di Milano, è comprensibile che sia portato ad approfondire questioni a te più vicine e a giudicare con maggiore superficialità e minore indulgenza le più distanti. Questo vale per tutti: da Sud, si legge sempre più spesso come malafede, supponenza e razzismo tutto quel che appare denigratorio verso i meridionali. A volte lo è, ma non è detto che lo sia sempre in modo consapevole (per dire, la Lega Nord è un partito razzista, ma non sono tali tutti quelli che la votano); da Nord, si generalizza il male del Sud e si sospetta delle sue eccellenze: saranno vere? E se sì, ottenute con quale imbroglio? Come può essere meridionale lo studente più bravo d’Italia? «Tutti sanno quanto questi voti siano fasulli» sostiene Roger Abravanel, consulente della Gelmini (chi si somiglia si piglia) che ogni anno denuncia questo “scandalo”. E punta il dito specialmente contro Reggio Calabria.

Poi, scopri (non lui) che alle Olimpiadi nazionali di Fisica, la medaglia è andata a uno studente di Reggio Calabria; che è calabrese anche il terzo classificato fra gli juniores; che il liceo Vinci di Reggio Calabria, nella lista dei migliori siti stilata dall’Econtet Award, sezione E-Government Institutions, è preceduto solo da altri due.

Il pregiudizio antimeridionale è così radicato, che tutto quello che è Sud è, e non può che essere, negativo; e quel che è negativo è del Sud. Sino alla caricatura. Giorgio Bocca, antimeridionalista dichiarato, per spiegare l’arretratezza del Mezzogiorno preunitario e post-unitario (vi ho già detto che, per lui, Napoli è irredimibile? Io, invece, credo che tutti possano essere redenti, persino Giorgio Bocca), rispolvera l’abusatissimo e disonesto argomento dell’analfabetismo nel Regno delle Due Sicilie. Cita, su «l’Espresso», le percentuali, maggiori al Sud che al Nord (un censimento falsato da dieci anni di chiusura delle scuole in Meridione, causa invasione piemontese e guerra). E mostra la distanza: in Piemonte, gli analfabeti erano quasi la metà che in Sardegna, dove si raggiungeva il massimo: 90 per cento. Capito mi hai? Peccato che la Sardegna fosse regno sabaudo, non delle Due Sicilie; se aveva il primato degli analfabeti, non devi prendertela con Napoli, ma con Torino. La trappola mentale, la forza del pregiudizio, regala l’isola al Sud, quando “rovina la media” al Nord. E, nelle statistiche, anche retroattive, sulle condizioni delle macroregioni italiane, la sabauda Sardegna la trovi sistematicamente regalata al Sud; in tal modo, le medie del Sud diventano ancora peggiori, quelle del Nord, ancora migliori (possiamo aggiungerci una ulteriore lettura: nell’espandersi a tutta l’Italia, il Piemonte estese il suo modo di concepire un Paese diviso fra un Nord che guida e prende e un Sud che segue e dà).

Ne volete un altro esempio? Lo pesco nella nutrita collezione messa insieme dal professor Gianfranco Viesti, che scopre una vera perla fra le pagine de «Il Sole 24 Ore», il quale, nel 2010, conduce una indagine su quanto sono migliorate le regioni italiane, nel decennio che precede il federalismo. Così, sulla base di quaranta indicatori divisi in otto “aree”, si stila una classifica, Il Medagliere delle Regioni, che «premia soprattutto chi si è mosso, in questi anni, in maniera virtuosa». Tutti gli altri giornali l’hanno ripresa; eccola: Lazio 17 punti; Lombardia e Veneto 16; Trentino, Emilia, Liguria e Marche 12; Friuli e Toscana 10,5; Valle d’Aosta e Piemonte 8,5; Abruzzo 8; Basilicata e Molise 7,5; Campania 7; Umbria 6,5; Puglia e Sicilia 4; Calabria 2; Sardegna –1.

«Nei primi dieci posti» osserva il professor Viesti «ci sono solo regioni del Centro-Nord. Che novità c’è, si potrebbe chiedere il lettore medio? Le regioni del Nord diventano sempre più brave, e quelle del Sud sempre meno brave. È esattamente quello che ci dicono tutti. Tanti soldi, pochi risultati. Il solito spreco.»

Lo sapevamo già, giusto? Ma il professore si accorge che «non è chiaro quali siano i quaranta indicatori. Non è chiaro come vengono aggregati. Non è chiaro che cosa esattamente significhi una “performance” positiva». Roba da specialisti, e lascia correre. Preferisce concentrarsi sul modo in cui viene costruita la classifica finale: «Gli autori dell’indagine assegnano i punteggi nel modo seguente. Per ognuna delle otto aree danno 3 punti alle regioni che partono da una situazione migliore della media italiana e hanno una performance positiva. Va bene. Poi danno 1,5 punti alle regioni che partono da una situazione peggiore della media italiana e hanno una performance positiva. Chissà perché, chi sta peggio e migliora merita meno punti di chi sta meglio e migliora. Potrebbe essere benissimo il contrario. Ma andiamo ancora avanti. Gli autori dell’indagine tolgono un punto a chi sta peggio e ha una performance negativa. Corretto. Ma, infine, sorpresa, a chi sta meglio e ha una performance negativa viene dato un punto. Positivo. Ma come? Non è una indagine che premia chi ha migliorato? E se è così perché si dà un punto a chi ha peggiorato?».

Il professor Viesti, allora, prova a vedere cosa accade se, seguendo una logica di tipo umano, terrestre, quella normale, diciamo, si danno punti negativi a chi fa male e positivi a chi fa bene (guardate dove riesce ad arrivare chi ha studiato!!): «Accettiamo tutti i numeri dell’indagine, diamoli tutti per buoni,» scrive, ma «diamo un punto se la regione migliora; togliamo un punto se la regione peggiora. Stiamo cioè pienamente al gioco degli autori: valutiamo così chi si è mosso in maniera virtuosa. La classifica che ne scaturisce è la seguente: Lazio e Campania 4 punti; Liguria 3; Basilicata e Molise 2; Sicilia 1; Abruzzo, Puglia e Calabria 0; Trentino e Valle d’Aosta –1; Lombardia e Veneto –2; Friuli e Sardegna –3; Umbria, Piemonte, Toscana, Marche ed Emilia –4. Magia. Nei primi dieci posti ci sono sette delle otto regioni del Sud. Con gli stessi numeri usati nella ricerca; gli stessi indicatori; gli stessi otto ambiti. Senza nessun “trucco” tecnico».

La verità, quindi, è che le regioni del Nord, nei dieci anni precedenti, hanno avuto comportamenti peggiori di quelle del Sud. Ma «una classifica del genere non può esistere» scrive Viesti. «Non deve esistere (ed è facile farla sparire: basta assegnare punteggi in modo assurdo come fa “Il Sole 24 Ore”; tanto il lettore medio mica se ne accorge). Non sia mai che il lettore medio de “Il Sole 24 Ore” sia informato che qualcosa di buono succede al Sud: se no, come facciamo a convincerlo ogni giorno che più soldi togliamo al Sud, meglio è per tutti?»

Questo riflesso condizionato a danno del Mezzogiorno c’è da sempre; ed è stato fatto proprio dai meridionali. Ma ora è sempre meno accetto (e a questo il Nord non era preparato) per l’insofferenza dei meridionali, che cresce con l’acquisizione di consapevolezza.

Il mio libro (ma avrebbe potuto essere un altro, perché l’argomento ha partorito un insospettato ma robusto genere editoriale) è solo uno strumento che rende manifesto un sentire in crescita, sempre più diffuso e più profondo, ma preesistente. Lo si poteva capire prima, volendo e dedicandovi un po’ di attenzione, come hanno fatto Paolo Mieli, sin da quando era direttore de «La Stampa», poi sul «Corriere della Sera»; Paolo Granzotto su «il Giornale», e pochi altri (troppo occupati, i più, nell’analisi delle dichiarazioni del Trota su miss Padania o miss Padania sul Trota): sono sorti movimenti politici, ma li hanno derisi (l’è minga la Lega!); sono nate testate giornalistiche che affrontavano temi storici, identitari, ma non ci si è preso il fastidio di buttarvi uno sguardo; sono state fornite analisi economiche serie, ma si è preferito ignorarle... Prima o poi, uno dei segnali di quanto stava e sta montando, a Sud, doveva risuonare più forte degli altri. E quando questo accade, si considera “fenomeno” lo strumento che dice la cosa, e non la cosa.

Aspetta, che non ricordo chi è che deve fare autocritica...

Aprile Pino - 2011 - Giù Al Sud
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