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LA MORTE DEL SOLE
Il Sud è 150 anni che “non schiatta e non guarisce”; ma nessuna malattia è per sempre, e se non c’è modo di goderti una resurrezione inutilmente attesa, puoi cedere al fascino complesso dell’agonia di un mondo. L’estetica della decadenza fiorisce dove una civiltà si sta perdendo o vuole perdersi. È un caso che il maggior cantore contemporaneo della fine sia emerso al Sud, a Catania? Oggi tutti lo conoscono come il filosofo amico di Franco Battiato, con il quale ha pure collaborato alla stesura dei sofisticati testi di alcune canzoni e assieme al quale, talvolta, è addirittura comparso, lui così schivo, sul palco. Io incontrai Manlio Sgalambro più di trent’anni fa, quando pubblicò, emergendo dal nulla, il suo primo libro, La morte del sole, per avvertire che eravamo diventati coevi della fine della nostra epoca (evocata dalla scomparsa della stella che ci scalda: svegliarsi una mattina e trovare vuoto il cielo). E se stesse parlando del Sud?
Sgalambro era uno sconosciutissimo pensatore, estraneo a tutti i giri culturali, tranne antiche collaborazioni alla rivista «Tempo Presente», di Nicola Chiaromonte e Ignazio Silone. In assoluta solitudine, aveva riflettuto per quasi quarant’anni, giungendo alla conclusione (poi riemersa nei sofisticati studi di futurologi statunitensi, come Alvin Toffler, in Lo choc del futuro) che il vero problema dell’umanità non è più quello della sua origine, ma della fine, verso cui corre: «Il cervello va in senso contrario alla vita» scriveva; o: «l’uomo è un essere impaurito e tremante, i cui nervi sono saltati»; la scienza? Un inganno, perché in fondo alla sua strada c’è «la scomparsa del mondo».
Eravamo lontani dal ridurci a Grandi Fratelli, politica dei crani incatramati e mignottocrazia, ma Sgalambro leggeva i segni del nulla rampante, nel decadimento della meditazione, nella scomparsa dell’individuo, travolto dall’avvento di masse omologate: «fine delle illusioni, disfacimento dei miti, di tutto ciò, ora lo si riconosce, che è un di più», perché «l’intelligenza viene assorbita dalla ricerca del profitto», per «lavorare, prescindendo dalla verità»; e «nella città mondiale il rumore è diventato il suono fondamentale», mentre «Dio passa frusciando» e debole è l’«eco della vita al suo spegnersi».
Ogni cosa, prima solo desiderio, viene realizzata e muore, «le idee rotolano come le teste mozze dei re. Esse non sono più che trovate, meri espedienti, qualcosa come le donne nude sulle copertine dei rotocalchi». E i valori in cui generazioni di uomini hanno creduto (il muro di Berlino sarebbe crollato dieci anni dopo) si mostrano nella loro «stupidità irrimediabile». Alla fine di questa decadenza, «forse il tempo della ferocia o della compassione», «comunque della grande povertà».
Non ci crederete: ho perso di tutto in questi trent’anni e passa, ma il testo di quell’incontro con Sgalambro no. E vede la luce adesso, per la prima volta. Non fu pubblicato allora, perché scrivevo su un settimanale popolare e suonava così isolata, elitaria, la voce di questo catanese... Estranea all’anima comune; troppo in anticipo o troppo a parte, perché mentre gli altri vivevano, lui li guardava vivere; era in grado di capire dove andavano quelli in cammino, perché seduto sul marciapiedi, a vederli passare. Un privilegio toccato a pochi (il filosofo Plotino, per dire, alla fine dell’impero romano) poter osservare, rendendosene conto, un’era che muore: «Un momento ineguagliabile. Uno spegnersi lento e maestoso, dolce e senza sussulti. Quasi bello come un tramonto cantato».
Filosofi e futurologi (a volte), poeti (se grandi) e bambini (inconsapevoli) sono antenne che colgono l’essenza dei tempi, che ai tanti sfugge, perché se ne ubriacano. Mi dicevo che Sgalambro aveva avvertito la decadenza della nostra era, perché meridionale e isolato (il Sud è anticipatore, perché decade prima, da 150 anni, per vocazione e per legge dello Stato). Aveva 58 anni, quando lo incontrai. Non si è mai laureato; abbandonò l’università, «perché già allora era evidente la sua povertà» e si immerse nei libri e nel pensiero, sorretto dal modesto reddito di un agrumeto. Non ha mai “lavorato”, nel senso che nessuno lo pagò mai per i suoi studi. Pochi viaggi, per consultare libri rari, in biblioteche lontane (legge francese, tedesco, spagnolo, inglese, latino). Sposato; ma fu Ersilia a cercare lui, che aveva quasi quarant’anni, quando lei andò a chiedergli consiglio per una tesi sugli operatori di magia. Hanno cinque figli.
Da giovane, pensava di finire avvocato, ma assistette, a Catania, all’ultimo processo conclusosi con la pena di morte, in Italia. Il contrasto fra la liturgia legale, i complimenti agli avvocati, per la “vittoria” e lo sguardo sperduto del condannato che non aveva capito la sentenza, lo disgustarono: «Ero troppo debole, per una cosa tanto forte».
Si ritirò a meditare: «Coniare pensieri, questo è ciò che rimane» ha scritto «e morire pensando». Avevo letto la frase a un collega milanese, persona in gamba e molto attiva, che mi stima e mi è (ricambiato) amico. Giuro che mi parve preoccupato: «Sì, ma tu che vuoi fare?». E fu quella sua uscita così spontanea a farmi vedere più chiara la sintesi, che Sgalambro rappresentava, di quell’idea che oppone a un Sud del pensiero, un Nord dell’agire (come se pensare non fosse agire e agire non presupponesse un pensiero, almeno altrui, a volte...). E decisi di andare in Sicilia, a trovarlo.
«Gli indiani» mi disse il filosofo catanese «avevano un certo concetto della vita: per una parte bisognava immergersi in essa intensamente e per un’altra, ritirarsi a meditare.» Solo molto tardi lui raccolse i suoi pensieri in libro, «questa forma decaduta della meditazione, in Occidente. Ma se scendi in piazza a parlare di filosofia, come Socrate, oggi finisci in manicomio. Così, bisogna scrivere il libro, che è come parlare, ma rimane cosa morta, inerte: non dice nulla». Gli chiesi perché e me lo spiegò con un aneddoto: «Qualche anno fa, un cabarettista, un poeta, non ricordo, passò dalla Germania Est a quella Ovest. “Lì” commentò dopo qualche tempo “ogni cosa che riusciamo a dire è importante, perché non si può dire nulla. Qui, poiché tutto si può dire, niente è importante”.»
Avevo 24 anni, quando a Michele Abbate, Signore della Terza Pagina, della «Gazzetta del Mezzogiorno», di cui ero cronista ultimo arrivato, parlai di un libro che avevo in mente. Gli esposi l’idea e mi parve strano che stesse ad ascoltarmi, lui che aveva fama di scorbutico degli spazi siderali della cultura. «Che ne pensi?» chiesi. Non disse nulla sul progetto, ma: «Domandati: “Che vale fare il libro, se il libro non rifà la gente?”. Poi, decidi.» Il Vangelo era già stato scritto, il Capitale, pure; lasciai perdere, intimidito. (Molti anni dopo, mi posi obiettivi più bassi e cominciai a scrivere libri. O, forse, approfittai della dolorosa assenza di Michele.)
Ma girai a Manlio Sgalambro, a proposito del suo libro, il criterio-Abbate. «Chi cambia l’altro, lo perde» rispose lui. «Io non voglio cambiare l’altro. Che resti com’è. Non do consigli neppure ai figli.» E questa è la ferocia dei miti; ché tali sono, secondo la definizione di Norberto Bobbio (Elogio della mitezza), perché lasciano l’altro essere quel che è. Non credo ci sia modo di essere più cattivi.
Questo guardare per riflettere senza intervenire, per capire e non per fare; e quindi inutile, secondo una concezione della cultura oggi molto diffusa e condivisa, è il peccato dei meridionali (dimenticando che fu gente così a pensare l’Occidente com’è). L’isolamento di Sgalambro mi parve incarnare, più che rappresentare, la presunta inattività colta del Mezzogiorno (quegl’intellettuali della Magna Graecia, su cui ironizzava Gianni Agnelli). «È bene che il filosofo stia in provincia» rispose lui. «Questo permette di vivere a distanza gli avvenimenti, vederli chiaro da lontano, senza esserne coinvolti. In provincia, i fenomeni si vivono con il distacco dei re.»
Ci può essere qualche svantaggio: la solitudine; e persino far derivare l’irraggiungibilità fisica del Sud non solo dall’iniqua distribuzione, in Italia, di strade, ferrovie, aeroporti, in 150 anni di diseguale Unità, ma pure dalla voglia più o meno cosciente del Sud, di starsene appartato. Per Sgalambro (che poi instaurò il fertilissimo e lungo sodalizio culturale con Franco Battiato), per troppo tempo, «la cosa più dolorosa è stata vivere senza dialogo, senz’alcuno con cui confrontare le idee, valutarle. È stato duro. Non si sa se la pochezza di quello con cui parli è anche la tua; perché ci si commisura all’altro, ma all’altro scadente».
Immaginavo i suoi figli cosa potessero rispondere alla domanda: che fa tuo padre? (Quel mio importante collega me l’aveva chiesto, perché “fare il filosofo” non è considerato fare.) «Non so come se la siano cavata,» replicò lui «ma la cosa deve averli imbarazzati parecchio. Soprattutto in un contesto in cui lo studioso, se non ha un ruolo, non ha significato.» Né lui si preoccupava di “regolarizzare la propria posizione” con l’università, sede ufficiale della cultura. «Quello che si fa nelle università è riproducibile come le cose che si fanno in una fabbrica. Essa è per il numero, non per l’individuo.»
Forse è migliorato, col tempo, ma non era un gran parlatore, per mancanza di allenamento (e aveva qualche remora, persino per i libri: «Un pensiero si contempla, non si legge»). Fu una felice sorpresa vederlo sul palco, tanti anni dopo, durante un concerto di Franco Battiato, recitare parole alte con la sua voce severa. Ma forse avrei potuto già immaginarlo, per quel che mi disse della massa in cui sparisce l’individuo, «questa specie di beato niente in cui ci si può immergere, come nella folla di una grande città. Credo che la massa sia, come dire?, ciò che deve essere, che sarà. Avvenga la massa. Non rimpiango». Pur sapendo che «dove l’individuo tende a scomparire nella massa, lì una civiltà muore». E cosa nasce dopo? «Usualmente, una nuova civiltà. Purtroppo,» aggiunse, perché «la più probabile ipotesi è che alla nostra ne segua una dell’angustia, dei poveri.» Riletto adesso, inquieta un po’.
Quando me lo diceva, avevo lasciato da pochi anni Taranto, allora al momento più alto della sua epopea industriale siderurgica. Non sembrava che la direzione del futuro, almeno per il Sud o le sue parti più promettenti, potesse essere quella vista da Sgalambro (ma quella è stata). È vero che la sua era una visione ben più ampia, universale, ma io ero da lui, perché mi sembrava che impersonasse un’idea del Sud e pensieri del Sud, pur proponendosi scenari che avevano per protagonista l’uomo, non il proprio spazio, tantomeno così ristretto.
«Penso che la ferocia sia sempre una chance, per l’uomo, se chance si può chiamare» aggiunse. «La ferocia nasce dal fatto che non resta più niente. Schopenhauer riteneva che se i nostri stivali fossero sporchi e non avessimo altro, per pulirli, che il grasso umano, ci procureremmo il grasso umano»: il nazismo lo fece. Né, quando Sgalambro me lo diceva, potevamo immaginare che le coste della sua Sicilia sarebbero diventate, in ogni senso, l’ultima spiaggia per decine di migliaia di disperati e la civile Italia avrebbe proposto di bombardare quei naufraghi della vita e del mare. La regressione verso la ferocia, quale segno del disfacimento di una civiltà. E se così è, i primi a cadere sono i più deboli: nella scena modesta del nostro Paese, significa vedere il più ricco Nord inferocirsi contro lo zoppicante Sud e rubargli pure la stampella, per farne legna da camino. Ma la storia narra di orde impoverite che hanno travolto imperi ricchi e organizzati. E talvolta, li hanno rigenerati. Se così è, solo il Sud dato per morto può ridare vita all’intero Paese.
«Ci sono quelli che amano le rinascite, sottolineano i momenti in cui la civiltà risorge. Ma bisogna tener conto anche di questi momenti finali. Io mi sono ritagliato un piccolo orto, da cui osservare l’attimo in cui la civiltà finisce.»
È brutto? chiesi. «Dipende da quanto senso teatrale, dello spettacolo, si ha. Per me, quello che mi può legare al mio tempo, anche brutto, può essere questo senso del vedere, l’occasione che ho di guardare una civiltà che muore. Mille si lanceranno a soccorrere un uomo in pericolo; uno solo si fermerà a osservare, per capire. Io vorrei essere quell’uno. Il problema di salvare un uomo non mi interessa, personalmente; guardare come si fa, forse sì. Sono molto curioso, a riguardo, visto anche che diffido dei salvatori.»
Basteranno una trentina di anni per mostrare, a lui e a me, i più poveri fra i presunti salvatori, a Lampedusa, in Calabria, in Salento, adoperarsi per soccorrere gli ultimi della Terra; e i più ricchi accanirsi contro, per tenerli lontano.
Ma lui, Sgalambro, non si sente coinvolto: non interviene, osserva. «Con Schopenhauer» mi diceva «posso ringraziare gli dei di non dover badare all’impero romano». Riflettere gli basta, il “fare” è per altri: «Non c’è alcuna dignità nel fare le cose; forse solo si salva la forma, il modo di farle» (me lo disse, con le stesse parole, Jorge Luis Borges). E quell’agitazione del cercare, del produrre, dell’aggiungere che è il vanto di alcuni, non suscita alcun fascino in lui (espressione massima, mi pareva, della riflessione prevalente sull’agire, che si rimprovera al Sud, ritenendola, a torto, sterile; perché le cose si vedono e appaiono vere, le idee non si vedono e sono vere: lo dice il filosofo Karl Popper, non io).
Così, per Sgalambro, la scienza che “fa” le cose, è sempre un danno, «anche quando apporta i mezzi per debellare una malattia. Bisogna chiedersi qual è il progetto conclusivo della scienza. Essa parla con il linguaggio della matematica e della tecnica, che ha prodotto la bomba atomica. E perché non vedere nella bomba il giudizio della scienza sull’umanità?».
Una scienza che con la matematica («tribunale del mondo») conta gli uomini e con la tecnica li distrugge. La scienza come arma di una civiltà che «esaurisce tutto il possibile, che diventa reale, disilludendoci». La scienza che più avanza, più distrugge l’impossibile. Proibito sognare, ridotto a progettare. Ma «per dire che tutto è vano, bisogna che si sia cumulata una enorme cultura».
E valeva la pena farlo, mi spiegava Sgalambro, per scoprire che tutto è vano.
Non so quanto pesi questo sentimento meridionale così forte ed ecumenico, da descrivere il destino di tutti; so che c’è, e persino se ne ha paura, lo si deride, perché si ritiene porti all’inazione. Non sono abbastanza colto e intelligente per dare una vera risposta; so soltanto che, qualunque sia il pensiero, non è mai inattivo. Che se l’uomo creativamente fa, è perché pensa. O no? E non mi sembra da buttare la consolazione estetica che, dovesse finir male il Sud, l’Italia e il resto, nessuno ce lo racconterà bene quanto questo catanese. Valeva la pena conoscerlo, no?, magari anche solo come esempio di quel Meridione che, pur di non lavorare, è disposto a tutto. Umberto Bossi, per esempio, si è dato alla politica, pur di non lavorare. Ma la circostanza, come si può rilevare, non riduce tutti allo stesso modo: quel dito leghista è l’inno del nulla a cui si riduce una civiltà. Mi sa che Sgalambro ci ha azzeccato in pieno.