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COMPRARSI LA SOLITUDINE

«Che fai?».

«Economia, la Bocconi, sono alla tesi.»

È uno dei ragazzi che mi hanno invitato ad Ariano Irpino, per una discussione su Terroni. Ha piglio da giovane leader naturale. Decide e dispone, con efficienza e pacatezza. Cena in piazza, attrezzata per un popolo interessato più a mangiar insieme che a cosa mangiare: tavolacci e panche, fogli di carta da imballaggio per tovaglie; stoviglie di plastica, vino dalle damigiane, birra come la vuoi, complesso folk-rock sul palco; saremo un migliaio; gli altri ciondolano intorno o seduti per terra, bevono, ballano, fumano e parlano, in attesa che si liberi uno spicchio di mensa.

«Ogni anno, Marcello e i suoi amici dicono che è l’ultima volta che lo fanno. Ogni anno lo fanno, da cinque anni.»

«Mio padre, Michele» lo presenta Marcello.

«Medico condotto; uno degli ultimi in Italia» si descrive il papà.

Dobbiamo alzare i toni, per sovrastare rumori e vocio del Folk-festival cinematografico. Intorno è lo sbarco in Normandia, ma in blue jeans e classe mista, età media liceal-universitaria.

«Ariano rinasce un mese all’anno in estate, quando dalle università tornano i nostri ragazzi» dice papà Michele Gelormini. «Poi ricomincia l’anno accademico e in paese, da un giorno all’altro, si alza l’età media e si abbassano i decibel; poi ci sono i dieci giorni a Natale e una settimana a Pasqua. Qui, non hai altra possibilità: andartene per studiare e studiare per andartene. I nostri giovani arrivano e partono a stormi. Noi restiamo ad aspettarli.»

Marcello è figlio unico? Nooo, sono in quattro: Domenico, Camilla, Marcello e Carmine; ventisette anni, venticinque, ventitré e venti; Medicina a Roma, alla Cattolica, il primo; Medicina alla Statale, a Perugia, la seconda; Economia, Bocconi, il terzo; Economia politica, alla Statale di Milano, il quarto. Laureati a tempo di record e 110 e lode, i primi sono già alle specializzazioni.

«Appena si diplomano, partono e li perdiamo» dice Michele. «Ma siamo molto legati; ci si sente via computer, grazie a Skype, tutti insieme. Con l’ultimo, il rapporto è più difficile: non chiama mai, lo facciamo noi; mentre gli altri ti chiedono consiglio, si discute di libri, di cinema, della lettura dei giornali. Mi interrogo su cosa non riesco a capire, dell’ultimo.»

Quattro, e tutti fuori.

«Come noi, tanti.»

E ce la fa con i soldi?

«Appartengo all’uno per cento di italiani ricchi (secondo il fisco) che guadagnano 100.000 euro all’anno. Ogni figlio mi costa più di mille euro al mese; solo per Camilla mi danno le ricevute e posso scaricarle dalle tasse; gli altri tre, no. Mi hanno multato come evasore fiscale: di iscrizione, Marcello costa 9.000 euro; il commercialista, convinto che tutta la somma fosse scaricabile, la pose in detrazione. Invece, si poteva detrarre solo l’equivalente delle tasse che si pagano all’università statale. Mi fecero settemila euro di multa; riuscii a dimostrare, ricevute alla mano, la mia buona fede, e mi fecero lo sconto: 3.500 euro.»

I soldi dell’iscrizione sono inclusi nei mille euro e passa al mese, per ognuno?

«No, a parte; in aggiunta.»

I libri?

«A parte, in aggiunta.»

I viaggi?

«A parte, in aggiunta.»

Be’, anche uno dei più ricchi d’Italia, come lei, a quasi cinquemila euro di spese fisse al mese, più viaggi, più iscrizioni, più libri e salvo imprevisti, può trovarsi in difficoltà.

«Ci si organizza. E i ragazzi sono bravi, se lo meritano.»

Insomma, lei e sua moglie siete una sorta di azienda che produce Gelormini laureati da esiliare in Italia, se non altrove.

«E siamo gli unici Gelormini rimasti in Italia. Tutta la mia famiglia emigrò in America. Mio padre, ultimo a dover partire, fu bloccato dallo scoppio della guerra. Così, io e i miei fratelli, siamo nati qui. Con i cugini americani, ormai, non abbiamo più contatti. Loro andarono via con le valigie di cartone, oggi si parte con un pezzo di carta, perché li vogliono laureati.»

Non le dispiace aver lavorato una vita per dare ai suoi figli la possibilità di andarsene?

«E che altro?»

Il dottor Michele ha sessantadue anni, sua moglie sessanta. Ce ne vogliono altri tre, perché pure l’ultimo, Carmine, prenda la sua laurea; poi avranno finito di pagare la loro solitudine. E ce l’avranno gratis.

“Produrre” un laureato, a partire dalla scuola materna, costa 300.000 euro, secondo le ricerche del CISF (Centro internazionale studi sulla famiglia), includendo spese per materiale didattico, libri, accessori, viaggi di istruzione... Dai conti riportati in un’inchiesta di Pietro Reichlin, per il «Sole 24 Ore», si apprende che ci si laurea, in media, in sette anni; per i quali si spendono 60.000 euro scarsi. A tali cifre, dovete aggiungere vitto, alloggio, trasferimenti, se si è fuori sede: fortunato chi se la cava con 20.000 euro all’anno (contro meno della metà della spesa annua per i residenti); ma alcuni genitori mi dicono che fanno fatica a starci con 25.000 («Qualche soldo in tasca glielo vuoi dare?») Vuol dire: la laurea che agli studenti in sede costa meno di 60.000 euro, per i meridionali costretti a spostarsi al Nord comporta un esborso che va da scarsi 150.000 a scarsi 180.000 (la differenza va aggiunta ai 300.000 che sono la normale spesa di “produzione” di un laureato). Ora andate su Universita.it, e scoprite che sono almeno 23.000 all’anno le matricole universitarie meridionali che vanno a studiare al Nord (vi ricordo che la media degli anni, per la laurea, è di sette). Se avete fatto i conti: già per il solo primo anno, per gli studi dei figli, passa dal Sud al Nord, più di mezzo miliardo di euro. Non tutti quei 23.000, poi, arriveranno alla laurea, ma provate ad aggiungere (a scalare), alla spesa per il primo anno, quella per i sei (rispettando la media di sette per la laurea) a seguire. Mi spiego (scusate se lo faccio in maniera infantile): il primo anno, 23.000 e mezzo miliardo di euro; il secondo anno, qualcuno di quei 23.000 abbandona, ma per chi prosegue negli studi, continui a pagare, mentre si aggiungono altri 23.000 e mezzo miliardo di euro; il terzo anno, cala il numero di quelli che avevano iniziato due anni e un anno prima, e per loro continui a pagare, mentre si aggiungono altri 23.000 e mezzo miliardo di euro... così sino a sette. Sono miliardi di euro all’anno (a spanne, non meno di tre) che migrano da Sud a Nord: è il prezzo che si paga all’insufficienza di infrastrutture (nei trasporti, nella salute, nei servizi non è sempre altrettanto visibile, ma il meccanismo è esattamente lo stesso: ogni carenza costa a chi ce l’ha e arricchisce chi non ce l’ha. Il che incrementa il ritardo di chi è dietro e che ha finanziato e continua a finanziare il vantaggio altrui). Uno studio del 2007, condotto dal professor Roberto Ciampicacigli, direttore del Censis, avverte che nella «bilancia commerciale dei saperi», i flussi «sono tutti orientati nella direttrice Sud verso Nord»; generando il maggior “saldo attivo” (guadagno), di 800 milioni di euro all’anno, in Emilia Romagna; e il maggior saldo negativo, di 500 milioni, in Puglia.

Perché mai una persona dotata del noto senso di equità padana come la Gelmini (e tanti altri come lei e prima di lei) dovrebbe adoperarsi per ripianare uno squilibrio Nord-Sud che, solo per l’università, rende tanto (a loro, si capisce)?

E ancora: il 60 per cento dei meridionali laureati al Nord, ci resta; vuol dire che, per misurare la vera perdita del Mezzogiorno, a quella cifra va aggiunta la ricchezza che ognuno di loro, da allora in poi, genera altrove, con la sua competenza (e su cui il Nord non ha investito nulla, anzi, ci ha guadagnato): sono i calcoli che si fanno per valutare l’entità dei “capitali umani” trasferiti. Si misura così la perdita (o il guadagno) prodotto dall’emigrazione, non soltanto intellettuale. Il sistema deriva dalla stima del valore degli animali da fatica.

Quei giovani laureati sono un capitale accumulato in anni, con immensi sacrifici, ma che non rende niente al Sud. Pura perdita, in favore del Nord.

È la stessa cosa che limitarsi il pane per una vita, per acquistare 300.000, 400.000 euro di Bot; poi, quando ci siete riusciti, passa il signor Brambilla a ritirarli. Naturalmente, voi siete contenti che il figlio abbia un buon lavoro, in una buona azienda, peccato così lontano; erano contenti pure i genitori di laureati indiani che trovavano adeguata occupazione a Londra o New York, non a Calcutta. Ma se l’India oggi corre come corre e domina nell’informatica, è perché quelle eccellenze restano in patria; perché l’India non è più colonia.

E non basta, dei laureati meridionali (ovunque, anche al Sud), con il massimo dei voti, nel 2004, uno su quattro non restava o non tornava al Sud; con la cura del governo a trazione leghista, in soli tre anni, la percentuale è salita a quasi uno su due. E questo per le eccellenze. Sul totale dei 67.000 laureati meridionali (dati 2007), meno di uno ogni sette ha possibilità di trovare lavoro degno al Sud. Gli altri, o si accontentano, o se ne devono andare.

Se fosse sanato lo squilibrio Nord-Sud di strutture universitarie (ma date fiducia alla Gelmini: se resta abbastanza a lungo, dovremo mandare i figli al Nord pure per la scuola materna), tutti quei miliardi di euro che riceve, il Settentrione li perderebbe. E che so’ scemi? (Ripeto: la Gelmini, lì, non rappresenta nulla, nemmeno se stessa, più o meno come gli altri: è solo la sintesi di volontà vaste, potenti e persino antiche. Se lei facesse qualcosa in senso contrario, cambierebbero il ministro. Insomma, un po’ come l’amministratore delegato delle Ferrovie. Il che non li assolve.)

Il dottor Gelormini e la professoressa sua moglie saranno lieti e fieri del contributo dato al Paese; anzi alla parte del Paese che comanda. E, con loro, quello stuolo di genitori meridionali convinti di sacrificarsi per i propri ragazzi, mentre lo fanno per sostenere un sistema economico coloniale. Quanto a quel che il Paese fa per i loro figli, non so se abbiano letto un illuminante articolo del professor Gianfranco Viesti, docente di Economia all’Università di Bari (ora anche alla guida della Fiera del Levante), occhiuto analista delle discriminazioni istituzionali a danno del Sud: tratta delle sovvenzioni in favore dei ricercatori laureati meridionali. Bisogna avere la pazienza di seguire cose che sembrano un po’ complicate, ma la porcheria si vede benissimo:

– una legge del 1992 dispone finanziamenti per le imprese che investono nel Mezzogiorno (potevano usufruirne anche le altre, ma meno);

– nella legge finanziaria per il 2008, il governo Prodi decide di vedere quanti di quei soldi non sono stati spesi (perché le imprese vi hanno rinunciato, o non ne avevano diritto, o hanno lasciato scadere i termini); e di destinarli a giovani laureati del Sud, per «favorire il loro inserimento lavorativo; ma anche» scrive Viesti «la riduzione del costo del lavoro per tecnici e ricercatori impiegati in nuove imprese innovatrici (le “start up”) sempre al Sud»;

– il governo Prodi cade e, nel 2009, il nuovo governo Berlusconi destina quelle risorse alla rottamazione degli autoveicoli (non ridere: è vero). «I giovani laureati e ricercatori del Mezzogiorno vengono così rottamati» riassume Viesti (e dagli torto!). Si tratta di una somma imponente: 933 milioni di euro. Tanto che il governo a ricatto leghista stabilisce di finanziare, con quei soldi, pure la «valorizzazione dello stile e della produzione italiana» (e che sarà mai? Sarebbe stato più onesto scrivere: tutto e il contrario di tutto), più gli «incentivi ai distretti industriali», e persino «il sistema produttivo delle armi di Brescia», l’emittenza locale (50 milioni) e «il sistema dell’illuminazione del Veneto». Scusate... e i laureati e ricercatori del Sud? Ops, sono finiti i soldi! «Dopo essere stati “rottamati”, vengono adesso “folgorati”», chiosa Viesti, in favore del Veneto a illuminazione sovvenzionata (sapete quelli che: «Noi facciamo da soli, lo facciano pure al Sud»? Loro). I giovani laureati e ricercatori meridionali lasciati per strada potrebbero anche apprezzare che, grazie agli aiuti all’industria bresciana delle armi, sarà più facile acquistare una pistola per spararsi, se disperati, sperando che non abbiano letto il Manuale del perfetto suicida, che dice al primo punto: non sprecate il vostro suicidio, eliminate prima chi vi sta più sulle scatole;

– e non è finita, perché, scopre Viesti il tenace, l’allora ministro allo Sviluppo economico, Claudio Scajola, trova (a sua insaputa?) 152 milioni di risparmi per il 2010. E, un attimo prima di dimettersi per via della casa che qualcuno gli ha pagato, senza manco avvisarlo (ce n’è di cafoni in giro...), divide quei soldi fra tv locali, «programmazione negoziata nel Centronord» (niente Sud: perché ci avevate creduto?), un altro po’ di soldi a Lombardia e Veneto (quelli abituati a far da soli) e 50 milioni all’industria degli armamenti. E so’ finiti gli euri un’altra volta. Così, «dopo essere stati rottamati e folgorati, i giovani laureati e ricercatori meridionali sono definitivamente battuti, armi alla mano», conclude il professore, che fra gli altri difetti, ha quello dell’ironia: tanto, hai voglia a dirlo, non succede niente; almeno ti ci diverti, per amaro che sia quel riso.

Ora, prendete il libro degli esercizi per una democrazia equa e solidale e, quale compito a casa, raccontate cosa sarebbe accaduto se tali porcherie fossero state fatte a beneficio dei sistemi di illuminazione della Lucania, dell’industria campana della pasta e dell’allevamento tarantino delle cozze, sottraendo oltre un miliardo di euro ai giovani laureati e ricercatori del Nord (si ricorda che è vietato riportare pernacchie di Umberto Bossi, gesti di Borghezio, comunicati della scuola padana gestita dalla moglie di Bossi e finanziata con soldi pubblici, mentre ne tolgono alla scuola pubblica; e i silenzi di riflessione del Pd).

E il ministro alla Pubblica istruzione non dice niente? Era troppo occupata a varare una norma per impedire ai professori meritevoli del Sud di sorpassare, nell’assegnazione delle supplenze al Nord, i colleghi settentrionali più scarsi. Così, nel 2009, stabilì che chi si spostava da una provincia all’altra, non poteva più entrare nelle graduatorie con il suo punteggio, ma doveva aggiungersi in coda ai residenti, pur se di punteggio inferiore. Come dire: se avanza qualcosa, dopo il Trota, lo diamo all’Einstein di Campobasso. Ricordo ai distratti, che è lo stesso ministro che ha sfasciato la Pubblica istruzione in nome della meritocrazia (ma perché, ci avevate creduto?); per esempio, facendo in modo che risultassero meritevoli e ricevessero altri soldi, in base a criteri “obiettivi” (cioè: obiettivamente settentrionali) solo le università del Nord. Con la norma sulle supplenze, fu ancora più chiaro quale fosse il vero merito da premiare: essere settentrionali, non importa se scarsi. E se ci si imbatte nel merito di insegnanti meridionali, certificato da alti punteggi, come da norme ministeriali, li si costringe in coda, dietro ai bianchi!

La Consulta, supremo giudice, ha bocciato la novità, perché «comporta il totale sacrificio del principio» che è stato «posto a fondamento della procedura di reclutamento dei docenti». E quale sarebbe? Quello “del merito”, come: non ve l’ha detto la Gelmini? È stato calcolato che se i 15.000 insegnanti meritevoli e penalizzati soltanto perché meridionali facessero causa allo Stato, il danno oscillerebbe fra i 200 e i 300 milioni di euro.

Mentre il presidente leghista del Piemonte, Roberto Cota, fa passare una legge per evitare che studenti meridionali meritevoli abbiano borse di studio nella sua regione: preferisce destinarle a quelli locali, anche nel caso dovessero rivelarsi meno bravi. Così, mentre in tutto il mondo le università, per innalzare il proprio livello culturale (la Gelmini direbbe: “merito”), offrono facilitazioni di ogni tipo ai migliori, sia professori sia studenti, nell’Italia a infezione leghista e gelminian-tremontiana, si obbligano i migliori ad accodarsi ai peggiori, ove si tratti dei peggiori del posto, e il posto sia a Nord.

Così, persino il Trota rischia di prendere una borsa di studio (avvisatelo, però, che deve almeno iscriversi... Che fa, presidente Cota, lascia un attimo il posacenere con il sigaro di Bossi padre e telefona lei?).

La cosa non dovrebbe dispiacere al ministro Gelmini, nota per aver preso quasi mezzo miliardo di euro destinati, per legge, alle più malmesse scuole del Sud e averlo distribuito a tutt’Italia (lo so che l’ho già detto, ma continuerò a ripeterlo, finché qualcuno non comincerà a vergognarsi). Ora, se rubi la mia penna, sei un ladro e meriti una punizione; se sottrai alla parte più svantaggiata del Paese le risorse attribuitele per legge, diventi ministro alla Pubblica istruzione del Centro-Nord. La Gelmini applica il metodo in uso da 150 anni e che il ministro alle Finanze padane, Giulio Tremonti, adotta per dirottare i fondi delle aree sottoutilizzate (FAS) al Nord. Non sono né peggiori, né migliori dei loro predecessori: se si va indietro, nella storia dell’Italia-si-fa-per-dire-unita, si scopre che questo accade sin dall’inizio, per le strade, le scuole, le ferrovie, le bonifiche, gli aeroporti... Io parlo di loro, solo perché miei contemporanei (quando si dice la fortuna!); ma se fossimo in un diverso periodo della storia unitaria, le cose non cambierebbero: stesso sistema, stessa discriminazione antimeridionale. Si è solo abbassato il livello dei protagonisti.

L’incredibile ministro alla Pubblica istruzione, però, ha voluto metterci del suo, ripulendo i libri della “sua” scuola, da poeti e scrittori meridionali, dotati o no di premio Nobel per la letteratura. Ma questa è un’altra storia; la racconto alla voce: La setta dei Poeti Estinti. Una storia molto “istruttiva”. Infatti, la signora è, con decenza parlando, ministro della Pubblica istruzione (scusate se lo ripeto spesso, ma siccome non mi credono, quando lo dico...).

Aprile Pino - 2011 - Giù Al Sud
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