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LO SPRECO DEL SUD

La domanda è: cosa sarebbe, dove sarebbe, oggi, l’Italia, se non avesse sprecato il Sud?

Non avesse costretto alla fuga, in un secolo, trasformando la loro terra in un inferno, tredici, forse venti milioni di meridionali? Riporto stime altrui, difformi; ma sono tanti: erano coraggiosi, avevano doti e talenti; credevano nella loro capacità di cambiare la sorte cattiva; erano pieni di dolore, di risentimento, di rabbia, e di speranza riposta ovunque nel mondo, meno che a casa loro ormai (cambia il posto, cambia la fortuna...); molti pensavano di tornare, qualcuno lo fece; tornarono alcuni da vincitori, altri, da vinti: morti alla stima propria e dei paesani, e forse invidiosi di quanti sparirono con la propria sconfitta sotto una croce in terra lontana. E se partirono disperati, non sino al punto di rinunciare a giocarsi l’ultima carta. Erano figli di una incredibile mistura di popoli, eppure così tanto riconoscibili! Erano i primi meridionali ad abbandonare la propria terra nella plurimillenaria storia del Sud. Divennero carne e valore di altre nazioni, ricompensate con degne opere, per l’occasione data a donne e uomini in fuga, di dimostrare che non erano vite di scarto, nomi da perdere.

C’era il più grande stabilimento siderurgico d’Italia, in Calabria, ci lavorarono pure gli emigrati dal Nord (bresciani); e la più grande officina meccanica del tempo, nel Napoletano; la famiglia di imprenditori con più larga fortuna e interessi diversificati (dall’agricoltura alla maggiore flotta privata) erano i Florio di Sicilia; le banche più ricche parlavano meridionale; venivano investitori dalla Gran Bretagna, dalla Francia, dalla Svizzera, dall’Austria, dalla Germania, si associavano a colleghi locali, favoriti dalle condizioni fiscali di uno Stato che credeva nello sviluppo dell’industria e del commercio con l’estero (oggi, il problema dell’Italia è non riuscire ad attrarre capitali internazionali. Allora, il Sud ne era una delle mete preferite; ma se lo ricordi, ti dicono che questa è la prova che l’economia si nutriva di apporti stranieri, come le colonie; mentre, se succedesse oggi, sarebbe prova che il Paese funziona...); i ricchi erano molto ricchi, i poveri molto poveri (era così quasi ovunque, a quei tempi), ma se i meridionali non se ne andavano, come dal Nord d’Italia o da altre regioni europee, dovevano avere ragioni sufficienti per restare (i poveri sono poveri, non cretini), e poi non le ebbero più, se si ridussero alla fuga.

Chi poteva, studiava, ed erano tanti (i due terzi di tutti gli studenti universitari d’Italia erano al Sud); chi non poteva, manco sapeva leggere e scrivere (l’analfabetismo, poi, fu sicuramente favorito dalla guerra d’invasione che imperversò per molti anni, in Meridione, e che chiamarono lotta al brigantaggio): ma se la cultura duosiciliana partorì discipline che hanno riempito il mondo (economia politica, archeologia, vulcanologia, sismologia, moderna storiografia...) avrà avuto radici profonde e basi larghe, o no?

Non voglio dire se questo era molto o poco: era, c’era (e altrove no). Unificato il Paese con le armi e il furto, non ci fu più. E non fu solo questo a non esserci più.

Farini, luogotenente (sorta di viceré) per il Sud appena conquistato, diceva che non arrivavano a cento i meridionali che volevano l’Unità d’Italia e per Massimo D’Azeglio andava bene sparare agli stranieri che occupavano pezzi d’Italia, ma si domandava se era giusto costringere italiani a unirsi ad altri italiani a fucilate.

Ma a determinare il sorprendente crollo del Regno delle Due Sicilie, non furono solo la campagna savoiarda di corruzione della dirigenza duosiciliana (militare e politica), la concorrenza di interessi internazionali e piemontesi, la spinta ideale e armata di tanti unitaristi, la debolezza e l’incapacità del re-ragazzino trovatosi sul trono di Napoli, nel momento più difficile. Molto Sud credeva nel valore dell’Italia unita; tantissimi contadini poveri credettero alla promessa della «terra a chi la lavora»; la Sicilia credeva di poter conquistare l’autonomia che da sempre insegue, liberandosi dei Borbone; i colti credettero di poter estendere su un Paese più vasto il loro campo di intervento e di trarre maggiori benefici dalla solidarietà di classe; industriali, commercianti e grandi agricoltori credettero di potersi espandere grazie a un mercato non più solo locale... Furono tutti delusi, persino i più convinti, come Giustino Fortunato, il più puro degli unitaristi, e Liborio Romano, che consegnò il suo Paese a un altro re, pensando che sarebbe stato re di tutti allo stesso modo. Molti di quei delusi, come Carmine Crocco Donatelli, presero le armi e combatterono per anni; lo fece pure Ricciotti, il figlio di Garibaldi (altro deluso confesso), che si unì ai “briganti”.

Il Nord razziò le risorse economiche e umane del Paese, si dette il ruolo di motore e assegnò al Sud quello di gregario, cliente obbligato delle merci settentrionali, riserva di braccia e intelligenze, ma con ruoli subordinati: una colonia interna: ti tocca la parte di Venerdì, perché l’altro ha in mano un fucile e vuole essere Robinson Crusoe. Onestà impone di notare che quello era il sistema con cui i Paesi oggi più potenti del mondo costruirono la loro ricchezza, finanziando lo sviluppo dell’industria a spese di classi sociali subordinate e di colonie interne (vedi la Gran Bretagna, con Irlanda, Scozia) ed esterne; e che, pur così male aggregata, l’Italia ha corso, si è rivelata un Paese di successo, uno dei primi dieci al mondo.

Ma la domanda resta: dove sarebbe, oggi, se invece di distruggere industrie, commerci e fiducia del Sud, costringerne la gente alla fuga, l’Italia si fosse avviata verso il futuro e la competizione con gli altri Paesi, con tutta la forza delle economie e della gente del Nord e del Sud; con i meridionali non sospettosi e rancorosi nemici di uno Stato che li ha impoveriti, uccisi in massa e discriminati, ma quali cittadini accetti e partecipi di un equo destino comune; con l’ardimentosa forza vitale di quei milioni di fuggiaschi sfruttata in patria e non regalata ai concorrenti; con tante energie e intelligenze del Nord non corrotte e spese contro il Sud, ma per il Paese intero: non tese a spostare a Nord quello che è altrove, ma a produrre il nuovo...

Dove sarebbe oggi l’Italia?

Che Paese avremmo, se l’industria calabrese e napoletana avesse potuto seguitare a svilupparsi; le Ferrovie dette “dello Stato” corressero pure al Sud e non solo al Centro-Nord; le autostrade italiane rendessero raggiungibile velocemente pure il Sud; gli aeroporti non fossero talmente tanti al Nord, da risultare a volte inutili, e così pochi, al Sud, da rendere irraggiungibili intere subregioni, quali il Salento, il Cilento, la Lucania intera, gran parte della Calabria, la Sicilia sudoccidentale, il Molise, l’Abruzzo e la Campania interna; se il credito e i servizi bancari avessero lo stesso costo in tutto il Paese e non tariffe più alte per servizi peggiori al Sud; il Mezzogiorno non fosse la più grande area europea senza grandi banche; l’elettricità prodotta al Sud costasse almeno quanto al Nord, dove viene dirottata, e non di più; e la fornitura elettrica fosse affidabile a Sud come a Nord, e non ballerina, con rischi enormi per i macchinari e danni alla produzione...

Cosa sarebbe, dove sarebbe l’Italia, se fosse stata equa? O solo furba? Per un secolo e mezzo, il Paese ha sprecato le possibilità e le risorse del Sud, come se avesse tagliato ulivi per venderne il legno, invece di trarne olio per secoli. E oggi ha paura del deserto: un Paese in declino, dove i prepotenti arraffano pure le briciole dalla tavola degli ultimi, ottenendo solo di rinviare il crollo e renderlo più rovinoso, ove e quando non si riuscisse a fermarlo in tempo. Il sistema è lo stesso da sempre: invece di cercare, come gli altri Paesi, il modo di produrre insieme altra ricchezza, per non soccombere alla più lunga e seria crisi degli ultimi cinquant’anni, il più forte toglie agli altri, per salvare se stesso a spese di tutti: spostando a Malpensa quello che c’è già, ma a Fiumicino (e riuscendo a far fallire la compagnia di bandiera); volendo trasferire a Milano i ministeri che sono già a Roma, come le reti Rai, e via di seguito; con i fondi per le aree sottoutilizzate spesi a beneficio di quelle già più sviluppate, sino alla truffa del presunto federalismo, che si traduce solo nell’ulteriore spostamento di soldi dalle Regioni meno ricche a quelle più solide. Il tutto, con un aggravio di spese e di problemi, la cui soluzione viene resa, così, sempre più lontana e difficile.

Contro questa deriva, pare ergersi un risveglio di identità meridionale che può rivelarsi salvifico per l’intero Paese e che sembra maturato da quella “storia inconsapevole” (ora, sempre meno tale), di cui Fernand Braudel parla in Storia e scienze sociali, «la quale si svolge al di sotto dei “riflettori” dei grandi avvenimenti» ricorda Andrea Giovanni Noto, in Messina 1908, «come luogo privilegiato delle evoluzioni lente, delle “inerzie”, delle “prigioni di lunga durata”». Da cui si esce; magari tardi, ma si esce.

Il nostro Paese non è nato da un incontro, ma da uno scontro (come la Francia, gli Stati Uniti, il Giappone, la Russia...), che ci divise fra vincitori e vinti.

Il valore dei vincitori si misura da quello che distruggono (l’impero persiano, la cultura india, il genio di Archimede o il tempio di Gerusalemme). In alcune culture, questo potere misurabile con la distruzione è stato ritualizzato, come prova l’altrimenti incomprensibile istituzione del potlatch, fra gli indiani della costa nordoccidentale d’America: ogni anno, le tribù si incontravano per decidere quale dovesse avere lo scettro del comando, sino al successivo raduno. A vincere era quella che disintegrava la quantità maggiore di ricchezza propria: è pura riduzione della guerra a gara, come lo sport, perché ottiene lo stesso risultato, senza spargimento di sangue, ma salvando, intatta, la funzione e la potenza annientatrice del vincitore.

Il valore dei vinti, invece, si misura da quello che riescono a salvare (vedi gli ebrei, in duemila anni di persecuzioni). In questo senso, comunque giudichi ognuno il valore del Risorgimento, dalla parte dei vincitori o da quella dei vinti, si dovrebbe convenire che, dopo 150 anni di separazione effettiva e unione nominale, gli uni e gli altri possono trovare un valore comune solo nel recupero di quanto resta, ovvero, nella valorizzazione di quello che i vincitori non hanno distrutto e i vinti hanno salvato, o vincitori e vinti hanno costruito insieme.

Il contrario vedrebbe il Sud cercare un nuovo sviluppo da solo, a partire dalla memoria ritrovata (percorso faticoso e di incerto esito, ma con il vantaggio del potere sul proprio destino, non più in mani altrui); e un Nord, convinto di aver fatto un affare, finire con la cassa in orbita tedesca, ma in posizione subordinata, terronica (immaginate cosa succederebbe quando un Bossi o un similBossi, dicesse di pulirsi il culo con la bandiera bavarese...): com’era prima, con l’Austria.

E perderebbe pure la cassa.

Aprile Pino - 2011 - Giù Al Sud
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