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D’ORIGINE
«Pino Aprile, di origine pugliese...» esordisce il professor Anthony Julian Tamburri, direttore dell’Istituto di Italianistica (il John Calandra) della City University of New York, a Manhattan.
«...pugliese, professore, pugliese e basta», lo interrompo.
E lui: «Appunto: di origine pugliese...».
Non ci siamo capiti. Ma già è più comprensibile che accada qui, negli Stati Uniti, dove tutti hanno o hanno avuto, in famiglia, origine altrove; e quelli che erano originari del luogo, gli indiani, sono stati sterminati: gli unici sbagliati, perché stavano a casa loro. Succede (e non ho fatto nessuna analogia con l’invasione delle Due Sicilie e il massacro dei nativi; siete stati voi a pensarci).
Ma fateci caso: un meridionale, gli chiedi di dov’è, ti senti rispondere quasi sempre che è «di origine...» e segue la regione. Ora, che senso ha «di origine»? Se a un milanese da trent’anni a Palermo chiedi: «Di dove sei?», lui ti dice: «Di Milano»; magari aggiunge che sta da trent’anni a Palermo, ma non dice: «Di origine milanese». È milanese; sta altrove, può darsi gli piaccia pure e ci resti a vita, ma è di Milano.
Perché un meridionale, invece, specie se al Nord, capita che sia soltanto “originario” della sua regione? Quell’aggiunta sembra, anzi è, una presa di distanza. Segnala un fatto o un’intenzione: il distacco dall’origine, non dal luogo. Se uno è milanese, è milanese; se è «di origine» pugliese, può rinunciare a essere ancora pugliese. Come dire: è successo, non l’ho fatto apposta, ma posso smettere; con il tempo, altrove, sono diventato altro. A maggior ragione se dice: «Di origine pugliese, ma sono trent’anni che sto a Milano»; meneghino per usucapione.
A volte, l’indagine porta ad acquisire un dettaglio ulteriore: «Ormai, torno sempre meno in Puglia». Pure il milanese a Palermo può dirti: «Ormai, torno sempre meno a Milano». Ma, mentre il secondo vuol dire che è assente dalla città, il primo è assente dall’essere pugliese, persino se rientra nella sua regione, periodicamente, più spesso di quanto non faccia quell’altro. Il nordico parla di geografia, il terrone sterronizzato di antropologia.
Il distacco, come si vede, è consumato; almeno nel desiderio di essere di preciso qualcos’altro, visto che non si può (o non si vuole, o non conviene) restare quel che si era. Questo succede solo se l’identità “di origine” è avvertita come perdente, debole: chi va via dalla Puglia, dalla Calabria, se ne allontana, spesso in tutti i sensi, non avendo trovato modo di restarci (non ti hanno voluto, non conveniva...). Chi va via da Milano non ha il problema di smettere di essere di Milano, la sua carta di identità è più spendibile, moneta forte al mercato del pregiudizio. La sua lontananza da Milano è solo chilometrica.
Ma non necessariamente i terroni padanizzati di seconda generazione sono i più accesi leghisti o “originari immemori”. I moti profondi dell’animo non muoiono mai, e possono avere impreviste risorgive. Accade che i figli di quei “pugliesi di origine”, pur nati a Milano, si riscoprano pugliesi: avvertono meno la condizione meticcia dei genitori, sono quasi sempre più colti, hanno visto più mondo dei loro padri e delle loro madri e non da emigrati; sono permeabili al fascino dei luoghi e della storia e, fecondati dalla curiosità e dal maggior sapere, quei semi dimenticati germogliano. E puoi sentir dire, a volte: «Sono pugliese, nato a Milano, perché i miei si erano trasferiti qui». O anche: «Sono apulo-bergamasco, nato a Milano; ma siccome prevale l’identità più forte... Insomma, sono un pugliese di Bergamo» mi spiega (e mi sarei aspettato dicesse il contrario) il collega Antonio Carnevale, responsabile delle pagine culturali di «Panorama»; gli avevo chiesto del cognome eteropadano. Il papà è pugliese dichiarato, non “d’origine”, nonostante la lunga permanenza in terra infidelorum. «Appartenere a una cultura significa condividerne la lingua» dice Antonio «e a Milano ricordano ancora quando mia sorella alle elementari scrisse, in un tema in classe: “inchianare le scale”»; ’nchianà, in dialetto pugliese, significa “salire” (e meno male che non si trattava del verbo “vedere”, che all’infinito fa t’kjemend).
Si arriva, così, a una sorta di inversione identitaria: i genitori nati in Puglia (o Calabria, o...) sono milanesi o bergamaschi “di origine” pugliese (o...); i loro figli nati a Milano o Bergamo possono scoprirsi pugliesi (o...), di origine milanese o bergamasca. I primi migranti da un’identità all’altra, per bisogno; i secondi per scelta o riemersione sentimentale. C’è tanta umanità che con dolore qualcuno perde o rinnega e altri ritrova, fra le mille sfumature di quella terra di nessuno (o di tutti) degli apolidi identitari. Il trauma dell’amputazione dell’identità, se irrisolto, è un disagio che si tramanda di padre in figlio (e lo si avverte fortissimo, soprattutto fra gli emigrati oltreoceano); e si risolve, quando si risolve, solo con una riconquista che, invece di continuare a togliere, comincia ad aggiungere. Arricchisce. Il sindaco di Gaeta, Anthony (Antonio, a Gaeta) Raimondi, è nato a Sommerville, Boston, Stati Uniti; il sindaco di Sommerville, Joseph (Giuseppe, a Gaeta) Curtatone, schivò di poco la nascita a Gaeta, come sua sorella (lui è nato in USA): i suoi abitavano in via Piave 15, dove ora vive Antonio Ciano, fondatore del Partito del Sud, ex emigrato a Sommerville.
Neanche la volontà di dimenticare riesce a recidere, davvero e per sempre, quei fili dell’anima. Il professor Robert Rossicone insegna Storia alla scuola pubblica, a Brooklyn. Per questo viene a sapere in anticipo che Ilaria Marra Rosiglioni traduce Terroni in inglese, con la supervisione del professor Tamburri. A cui scrive, «desperate to get a copy to read», impaziente di leggerlo. E, per spiegare il perché, racconta la sua Storia: i suoi familiari emigrarono da Basilicata, Campania e Abruzzo (anzi, “Abruzzi”, come si diceva una volta) a cavallo del Novecento, per le «horrid conditions created by Garibaldi’s invasion of the Kingdon of the Two Sicilies», per le orrende condizioni in cui fu ridotto il Sud, a seguito dell’invasione. I suoi bisnonni, come i loro genitori, erano fedeli ai Borbone, venivano da San Fele, Potenza, si chiamavano Dondiego e Pietropinto. E lui, ora, sta cercando di ricostruire quali erano davvero le condizioni di vita, prima e dopo l’arrivo di Garibaldi e dei piemontesi, per indurre i suoi avi alla fuga, e non solo: «once in America», una volta in America, il suo bisnonno allontanò da sé tutto quello che fosse “italiano”, rifiutando pure di insegnare la lingua ai suoi figli («including my grandmother», incluso la nonna del professor Rossicone) e persino rinunciando ad avere ancora un nome italiano (lo mutò in Bell, per americanizzarlo).
Da cento anni, nessuno nella famiglia del professore ha più parlato italiano; nemmeno lui lo parla. Ma la violenza dello strappo non ha strappato la radice. E lui, oggi, ha due figli e vuole che sappiano «who we are and where we come from», chi siamo e da dove siamo venuti. E perché dovettero lasciare «my ancestors homeland», la terra dei miei avi.
A fine incontro con gli studenti, alla State University of New York, la Stony Brook di Long Island, mi si avvicina una ragazzona sui vent’anni, e fa: «Mio patrei, mi ha dettow di venirei qui, per sapere chi sonow». Ha gli occhi liquidi
Forse, sono proprio le identità di ritorno le più forti.
Per questo mi incuriosisce l’idea di volerne ripescare una solo celta dove si sono stratificati popoli e culture, generando un sentire che di tutti quegli apporti non può che essere la somma. Ne parlo con Gilberto Oneto, architetto leghista convinto, studioso di identità padane, mentre attendiamo l’avvio della puntata de L’Infedele, di Gad Lerner, di cui entrambi siamo ospiti.
Gli faccio una battuta sul mai esistito Alberto da Giussano, totem della Lega: «Capisco la necessità di miti fondanti, però...». «Non è molto importante che si tratti di un personaggio storico “vero”» replica lui «le costruzioni dei miti nazionali sono piene di personaggi inventati o ampiamente rivisitati (Guglielmo Tell, el Cid Campeador, Giovanna d’Arco). La mitologia italiana è piena di Balilla, Francesco Ferrucci, disfide di Barletta, eccetera. L’anomalia è, semmai, nel recupero di un mito risorgimentale creato in chiave anti-tedesca (l’Alberto; N.d.A.).»
«Ma se la Celtic League manco vi vuole!».
«Se ti riferisci alla Celtic League di rugby, l’Italia è stata appena ammessa, con Galles, Scozia e Irlanda. Se, invece, si parla della omonima unione delle sei comunità che parlano gaelico, non mi risulta che ci sia mai stato nessun tentativo di entrarci. Non c’è motivo: in Padania si parlano lingue celto-romanze (come in Francia o Spagna), certo non lingue celte. Il riferimento ai celti rientra, semmai, nella necessità di miti di riferimento più appropriati di quello di Alberto da Giussano, perché si riferisce a lotte contro Roma. In ogni caso, si tratta di enfatizzazioni di giornalisti e avversari: i riferimenti storici sono un po’ ottocenteschi, quelli padani sono molto più moderni, avendo a che fare con caratteri socioeconomici e diritti all’autodeterminazione, cioè al riconoscimento della volontà popolare come vero segno identitario.»
Osservo che lui, come altre teste pensanti, è stato messo da parte dalla Lega; che, nel passaggio dall’ideologo Gianfranco Miglio al Trota, si è persa qualcosa (la mia opinione è che abbia trovato la sua vera natura, ma me la tengo).
«Quasi tutti i partiti contemporanei hanno in scarsa simpatia la cultura, ma l’opera bossiana è stata così sistematica e “professionale” da far pensare a un preciso progetto anti-autonomista, di cui il Trota è solo la “comica finale”» dice.
Durante la trasmissione, Gad Lerner mi informa che «stanno arrivando migliaia di messaggi di tuoi estimatori (una valanga mai vista, nella storia del programma, diranno poi; N.d.A.): protestano, perché ti faccio “parlare poco”» dei temi meridionali, ovvio. «Non ho tutti questi parenti» dico. La cosa colpisce molto loro, non me: io lo so cosa sta montando a Sud, è il Nord che rischia di scoprirlo tutto insieme. Scriverò, poi, sul blog Terroni, che Lerner non ha limitato i miei interventi, anzi: quella è proprio la cifra della trasmissione.
Ma la montagna di messaggi e la conversazione con Oneto mi mostrano che la ricerca di identità più diverse e lontane, se compiuta in modo conflittuale, può solo evolvere a spese di quella nazionale-italiana, che dovrebbe, invece, esserne la somma, il contenitore di tante felici e invidiate differenze.