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MESSINA, IL RISENTIMENTO
«Voi non potete giudicare.
Voi non avete visto»
(dalle corrispondenze di Claudio Treves, per «Il
Tempo»,
sul terremoto del 1908)
C’è una specie di risentimento o sbaglio nella loro voce? Si parla di Messina, la loro città rasa al suolo, nel 1908, da un terremoto (così violento che i sismografi finirono fuori scala e non riuscirono a segnarne l’ampiezza) e un maremoto (le onde anomale furono tre, in successione, spazzarono le rive calabre e sicule; la più alta era un mostro di 13 metri). Le vittime furono almeno 80.000 su 140.000 abitanti a Messina; 15.000 su 45.000 a Reggio, forse 40.000 in tutta la provincia. «Attendete, prima di dare la notizia», disse, prudente o seccato, ai giornalisti, il capo del governo, Giovanni Giolitti, che non voleva prenderla sul serio, «qualcuno ha confuso la distruzione di qualche casa, con la fine del mondo.» Le due città erano state ricostruite da poco più di un secolo, dopo il sisma che le aveva investite nel 1783.
«La natura...» mormoro. «Già, la natura, ma dopo arrivano gli uomini.» Non capisco. Ma non c’è tempo per domande. In albergo svuoto la busta in cui ho insaccato il mio quotidiano bottino di carta, come sempre, ovunque vada: c’è anche un libro del 1911, appena riprodotto anastaticamente, Un duplice flagello, scritto da uno scampato al disastro, Giacomo Longo (pensare che mi ero detto: e questo, che lo prendo a fare. Troverò, poi, che nell’immediatezza, l’inviato del «Giornale d’Italia» aveva usato le stesse parole di Longo: «Sì; il secondo flagello di Messina è la insipienza dei nostri dirigenti»).
Si narra come l’Italia soccorse la città: «dallo stato d’assedio proclamato dal generale Mazza, forte di “diecimila fucili e cento cannoni”, all’imboscamento delle trentamila tende e trentamila coperte destinate ai superstiti dalla Francia e dall’Inghilterra; dalle ruberie di denaro e preziosi che i soldati al comando del generale Mazza spedivano ai parenti (i loro parenti, non quelli delle vittime), al mancato soccorso delle centinaia di feriti lasciati a morire; dall’immensa quantità di generi alimentari chiusi nei magazzini della Cittadella, alla distribuzione, ai superstiti di “pane nero e pasta ammuffita”; dalla negazione perfino di un sorso d’acqua agli scampati, all’assassinio del figlio del professor Melle, sorpreso dai soldati mentre scavava con le mani in via Cardines alla ricerca della famiglia».
E che diamine: i soccorritori derubano i terremotati e sparano ai superstiti! Sapevo, ma l’avevo presa come una sorta di macabra battuta, che qualcuno, in Parlamento, propose di bombardare le rovine della città (fa niente se sotto c’erano migliaia di sepolti vivi) e cancellarla dalla storia e dalla geografia, spartendone la provincia fra quelle di Catania e Palermo. Sarebbe bastato cannoneggiarla una mezza giornata dal mare. Dicevano sul serio (ancora venti giorni dopo, dalle macerie sarebbero stati estratti vivi dei superstiti). Il governo fece fallire il progetto e il primo ministro, Giolitti (che aveva persino concesso una proroga delle cambiali ai sopravvissuti!), «fu così convinto della eroicità del suo merito, da porre in marzo (tre mesi dopo il disastro; N.d.A.) la candidatura in due collegi della città, sicuro di ottenervi [...] un plebiscito», scrive Francesco Mercadante, nell’introduzione a Il terremoto di Messina, la raccolta di testimonianze e articoli dell’epoca, pubblicata un secolo dopo dall’Istituto di studi storici Gaetano Salvemini (il professore pugliese insegnava nell’università messinese; sopravvisse, ma perse tutta la sua famiglia).
I soldati vennero, scavarono fra le macerie, con quel che avevano, con le mani e con le unghie, ma per recuperare la cassaforte della Banca d’Italia, annunciandone trionfalmente il ritrovamento al capo del governo, Giolitti: «per essi le vittime erano rappresentate dalle casse forti e dai gioielli» scrive Longo. E capitava che si lasciassero morire i sepolti vivi. Un vecchio si avvicina piangendo a un gruppo di soldati «richiede d’aiuto, perché la sua figliola gemeva viva ancora sotto le macerie. Non possiamo – gli risposero: Aspettiamo il nostro capitano», riferisce Longo. E poi: «Gemeva la famiglia Borzì, sotto le macerie [...] i genitori e altri figli erano ancora in condizioni tali da poter essere salvati [...]. Un ufficiale di fanteria li sentì – li vide ed ebbe l’empio coraggio di andare oltre, mormorando: Ho da fare».
I familiari che tentavano di intervenire personalmente erano arrestati o fucilati come “sciacalli”, perché la prima decisione che si prese fu di decretare la pena di morte per i ladri e i saccheggiatori. Rocco Arena e sua moglie Domenica Scarfì, sorpresi a rovistare fra i resti della casa di una loro parente, finirono in prigione per cinque mesi, e i loro tre bimbi rimasero randagi. «Sparate su quelle belve» esortava il socialista Bissolati, sull’«Avanti!». Reazionari o socialisti (fu uno dei fondatori del partito, Camillo Prampolini, bolognese, a distinguere gli italiani fra “nordici e sudici”), non importa quale sia il problema dei meridionali, rivolta contro un’invasione “fraterna” o sopravvivenza a un terremoto, la soluzione sembra essere sempre la stessa: fucilateli! È difficile resistere alla tentazione di concludere che, nell’inconscio dei sottoscala (e talvolta nell’attico della piena consapevolezza) di certi sentimenti nordisti, ci sia l’idea che di terroni meno ce n’è, meglio è; e ogni occasione è buona per sfoltirli, persino una catastrofe.
E non pare che i soccorritori avessero bisogno di farselo ricordare: «Un giovinetto sui quindici anni, bello, biondo, ricciuto, dalle fattezze delicate e che a tutt’i segni pareva di gentile lignaggio [...] s’era salvato per un prodigio e, avendo trovato una camicia e un paio di pantaloni fra le macerie, li aveva raccattati per vestirsi. Arrestato (per sciacallaggio; N.d.A.)... andava chiamando invano “mamma! mamma!”. Il buon maggiore guardò la creatura supplichevole, guardò i carabinieri accigliati [...]. Si voltò dall’altra parte e ordinò: “Fate il vostro dovere!”», riferisce un cronista e testimone, Giovanni Alfredo Cesareo. Fucilato!
«Si spara sui cani, sui gatti, sui ladri» spiega un militare a un altro giornalista, Oddino Morgari, il quale obietta che molti «frugano tra le rovine delle altrui case per procacciarsi quei viveri e quegl’indumenti che il governo non dà. In secondo luogo osservo che se non si fucila il ladro che ruba ai vivi non vi è ragione di fucilare quello che ruba ai morti». Evidentemente, il valore della vita dei meridionali non raggiungeva, nella stima dei soccorritori, il livello di tale logica.
Nelle corrispondenze di alcuni inviati a Messina e Reggio Calabria si legge, anche con coloriture razziste, dell’apatia dei sopravvissuti, in attesa di tutto, seduti magari sulle rovine delle loro case. Ma chi si dava da fare rischiava l’esecuzione sul posto (al “giovanetto Raboni”, che scavava per recuperare il cadavere del padre, «venne imposto di desistere – gli s’intimò l’arresto e lo si minacciò di fucilazione»).
Le autorità si contendevano il diritto di dare ordini a tutti, annullando quelli altrui con i propri. «I militari di terra contro quelli di mare (e reciprocamente)» riassume Mercadante «il prefetto esautorato dal generale, il generale in lotta con l’onorevole De Felice o con l’onorevole Micheli; quest’ultimo in collaborazione con l’autorità ecclesiastica, “padrone della città”» (insomma, di quel che ne restava...).
Goffredo Bellonci, del «Giornale d’Italia», racconta di «un vecchio bianco, curvo, con gli occhi aridi e un tight frusto» che «domanda ad ogni minuto», all’onorevole Micheli (uno dei veri eroi civili, in quel disastro, per quanto bene fece, al fine di risollevare le condizioni e il morale dei sopravvissuti): «Mi dà il permesso di prendere mio figlio?». Il corpo del ragazzo è sotto le macerie e il padre non vuole che imputridisca sotto la pioggia, vorrebbe almeno rispettarne i resti. Ma nemmeno l’onorevole può contraddire l’ordine del generale Mazza, il vecchio rischierebbe d’essere giustiziato sul posto. Nel muto imbarazzo dell’interpellato, l’uomo continua la sua cantilena: «Mi dà il permesso, onorevole?». Il giornalista si allontana sconvolto.
A leggere quelle cronache, ti dici che la sciagura non fu il terremoto, ma l’arrivo dei soccorsi. Ma dici il già detto: «L’opera della insipienza burocratica si mostra ogni giorno più nefasta dell’opera distruttrice perpetrata dalla cieca natura» accusò Luigi Capuana. E uno dei più autorevoli inviati, Goffredo Bellonci, del «Giornale d’Italia», scrisse: «Lasciate che io riveli la miseria di questa spedizione governativa, che non ha provveduto a nulla e a nessuno [...] sono morti di inazione e di soffocazione parecchie migliaia di uomini sepolti». Il Duca di Genova arrivò a Messina tre giorni dopo il sisma, «con a bordo 3.200 uomini di truppa, barelle e altra roba, scarsa sì, ma di pronto soccorso», annota Longo: ma nessuno e niente scese dalla nave, per tre giorni, perché il generale Mazza non aveva completato i suoi piani.
La flotta russa in Mediterraneo, invece, si mosse da Siracusa, giunse in poche ore, ma «durante la navigazione gli equipaggi cercarono di prepararsi al meglio per i soccorsi», riferisce Tatiana Ostakhova, docente di russo a Messina, nel suo Abbiamo visto Messina ardere come una fiaccola – I marinai russi raccontano il terremoto del 28 dicembre del 1908, «si allestirono lettighe, si costituirono squadre di salvataggio, si stabilirono turni di lavoro; la gestione degli ambulatori fu affidata al medico della nave ammiraglia Aleksandre A. Bunge, famoso esploratore dell’Artico; le squadre di soccorso, composte da sei a venti persone ciascuna, furono poste agli ordini dei guardiamarina e coordinate dagli ufficiali» (sarà che invecchio, ma la lettura delle testimonianze riportate dalla professoressa Ostakhova, l’umanità di quella gente straniera, gli eroismi silenziosi... ingoiavo saliva e avevo voglia di trovare qualcuno a cui dire grazie!). Il porto di Messina era devastato, fondali sconvolti, navi affondate, buttate sulla costa. Ma la Makarov del contrammiraglio Litvinov avanzò; nell’impossibilità di attraccare, i marinai si tuffarono e raggiunsero a nuoto la riva. Calate le scialuppe, «Litvinov e i suoi ufficiali, fra i primi a toccare terra, stimarono l’entità dei danni e iniziarono a coordinare le operazioni di soccorso». Dall’incrociatore inglese Sutlej, giunto qualche ora prima, e rimasto «in rada senza intraprendere alcuna azione», videro cosa facevano i russi e li seguirono. In breve, a tutta forza, giunsero la Guilak, la Korietz, la Bogatir, la Slava, la Cesarevitc, agli ordini dell’ammiraglio Ponomareff; e sopraggiungevano le britanniche Minerva, Lancaster, Exmouth, Duncan, Euryalus (le flotte russa e britannica avevano potenziato la loro presenza in Mediterraneo a fini strategici; in Fra le righe, Maria Teresa Di Paola e Sem Savasta, rileggono il ruolo degl’inglesi nello Stretto, in occasione del terremoto, sulla scorta di documenti britannici). Ma alla greca Sfacteria, con a bordo medici, infermieri e un ospedale da campo attrezzato, non fu concesso l’approdo, perché la zona era sottopposta a stato d’assedio!
Pochi giorni, e furono decine le navi lungo la costa sicula (quella calabrese, ugualmente squassata, ebbe sorte peggiore. Un cronista narrò che i superstiti di Villa San Giovanni tentarono invano, per giorni, di attrarre l’attenzione di possibili soccorritori: «Passavano navi italiane, si gridava, si tiravano fucilate: esse proseguivano. Era l’esclusione totale dal mondo dei viventi, mentre i feriti gemevano, i morti imputridivano... Cinquecento persone di più sono morte per mancanza di soccorsi»).
Quando i bersaglieri si decisero a sbarcare a Messina (si eran portate le biciclette!), il primo degli ufficiali toccò terra a spada sguainata. Furono disposte sentinelle ovunque fra le macerie. Una di queste sentì lamenti dalle rovine, ma non si mosse (erano gli ordini). La mattina dopo, al cambio guardia, ne riferì al caporale, che disse al sergente... La segnalazione giunse agli ufficiali imbarcati sul Savoia e da quelli trasferita sul Sardegna (Longo ricostruisce tutta la trafila). Solo nel pomeriggio una ventina di soldati si muove, in armi, e raggiunge il posto. Dove scoprono di non avere pale e picconi ma solo le armi. Si riparte per rifornirsene e, alla buon’ora!, si scava. Sfortunatamente, è troppo tardi.
Più solleciti altri soldati che udirono una voce: «Maria, Maria!», provenire dalle macerie: le rimossero e liberarono... un pappagallo, impolverato, ma vivo (fu adottato dagli ufficiali di una delle nostre navi). Ma c’era pure Maria, lì sotto, viva: giovane, bella, priva di sensi, salvata, grazie al suo ciarliero pennuto.
C’era un proverbio a Messina: «Chiù duru d’a cantunera d’u spitali», ricorda Salvatore Pugliatti, nel libro del centenario, perché del possente Ospedale civico, simile a una fortezza, il bugnato d’angolo era l’opera più massiccia. Non era il solo edificio celebrato per la sua solidità; se ne indicavano altri che avevano retto ai terremoti dei secoli precedenti. Quello del 1908 li ridusse tutti in frantumi. «Rimasero in piedi per triste irrisione – tra i pochi altri» scrive Mercadante «quei due o tre che il Genio civile aveva dichiarato pericolanti.»
«E quello che non distrusse il terremoto, demolirono i soccorritori, che si arricchirono» mi raccontano «con la fornitura della dinamite per tirare giù quello che era rimasto su.»
È stato da poco ristampato il diario di Gaetano la Corte Callier, curatore del Museo storico della città, che tentò invano di impedire fossero abbattute, con «esplosioni della dinamite, una dopo l’altra, preziose e indenni testimonianze monumentali del grande passato architettonico e artistico della città» riferisce Nino Principato, nel presentare il libro di Longo. «31 ottobre 1911. Oggi, a Policara, la ditta Salvago ha chiuso i conti della fornitura di dinamite e capsule al Genio Civile per le demolizioni in Messina dal 4 febbraio 1909 ad oggi» scrive nel suo diaro la Corte Callier. «L’Ing. Ermes D’Orlando può andar contento! Esso ha distrutto Messina più del (terremoto del; N.d.A.) 28 dicembre, ed al Salvago (cognato dell’Ing. Capo Ghersi) ha fatto fare affari d’oro.»
E non era finita, ché il curatore del museo, disperato, ricomincia con l’elenco di quello che non è stato ancora demolito e sta per esserlo: «Il R. Commissario è d’accordo per la distruzione di tutti i monumenti di Messina, ed io non so che fare» per frenare i «vandalici atti, al coperto dalla legge [...]. Mascalzoni!».
«Cadevano così» riassume Principato «chiese rimaste intatte o perfettamente recuperabili come, per citarne alcune, S. Andrea Avellino, Anime del Purgatorio, S. Caterina Valverde, S. Gregorio, S. Chiara, S. Maria delle Grazie, S. Maria Maddalena, S. Orsola, S. Pelagia, S. Giovanni di Malta.» Forse, bombardandola dal mare, come era stato proposto, si sarebbe risparmiato.
«A dispetto dell’insolenza nazionale» scrive Longo, mentre «i soldati e gli ufficiali italiani, armati di tutto pugno, facevano sfoggio di autorità e di potere sopra le macerie», i marinai russi della Makarov che per primi accorsero, «pur di strappare alla morte un uomo, una donna, un bambino», perivano a volte nel crollo delle macerie (al loro sacrificio, alla loro umanità il libro è dedicato). «Vincoli di gratitudine perenne» la città contrasse con la Francia e la Germania, per l’aiuto pronto e generoso, l’invio di beni, spesso sottratti ai terremotati da chi doveva distribuirglieli (le autorità militari italiane); e con gli Stati Uniti, l’Inghilterra e i comitati italiani all’estero.
Nell’immensa amarezza per quel che documenta, l’autore di Un duplice flagello attribuisce il comportamento delle autorità italiane al fatto che «le due Camere sono state in ogni tempo asservite ai signori del Settentrione»; e «l’opera di quaranta secoli distrutta in quaranta secondi» resta una tragedia «tutta siciliana, anzi tutta messinese», estranea «alla insipienza ed alla inettezza del Governo», forse per «quell’antagonismo feroce e bestiale, che i settentrionali hanno mai sempre allevato contro questa terra». Perché inviarono truppe «senza vettovaglie» e «uomini capaci di strappare il pane dalla bocca dei superstiti», non attrezzati ai soccorsi: «senza pompe, senza corde, senza picconi», ma con «diecimila fucili, diecimila baionette, un milione di cartucce e cento cannoni», che «arrestavano chiunque incontrassero sulle macerie col pretesto di furto perpetrato, ma in sostanza non arrestavano mai un ladro». Mentre «si videro le pubbliche autorità», è scritto in Il terremoto di Messina, «concentrare tutte le loro forze soprattutto nella ricerca di valori».
Alcuni corrispondenti raccontano di sciacalli giunti dalle città vicine, sorpresi e abbattuti sul posto. La famiglia del capitano di fanteria Munafò perì nel crollo della casa; scampò, ma incastrato fra le macerie, tranne la testa, solo un figlio di dodici anni, che vide giungere otto soldati e si pensò finalmente libero; ma quelli, insieme al portiere del palazzo, sopravvissuto pure lui, si dedicarono alla cassaforte, poi divisero fra loro gioielli, contanti e titoli di rendita e fuggirono lasciando lì il ragazzino. La cui testimonianza fu determinante per far arrestare i militari, mentre cercavano di vendere i titoli a Palermo. L’inviato del «Corriere della Sera» riferisce di un ufficiale fucilato mentre nascondeva sotto la divisa manciate di banconote. Il crepitio delle armi da fuoco («Quanta gente è stata fucilata e revolverata in questi giorni, fra queste macerie!» si legge nella corrispondenza del giornale milanese) era diventato la colonna sonora della città distrutta, oltre il lamento dei sepolti e dei feriti abbandonati sul molo, al freddo (era gennaio, tirava nevischio sullo Stretto), che morivano «a cento a cento» (Longo). Francesi e tedeschi sbarcano grandi quantità di farina, ma il comando generale italiano distribuisce ai superstiti del pane nero «in ragione di 800 grammi ogni tre persone e per tutto il giorno, mentre il pane bianco veniva sperperato e divorato dagli ufficiali e dai soldati» e quello che avanzava «lo mettevano in vendita». Le 24 grandi tende portate dai francesi (ma in tutto, gli aiuti internazionali ne faranno arrivare trentamila) vengono requisite dal colonnello Bellozzi «ad uso e consumo esclusivo di lui e dei suoi ufficiali»; soltanto una viene data ai terremotati, «ma la mattina del terzo giorno, i tenenti Caporaso e Usigli, con due caporali, tre soldati e un furiere, vennero a rilevare la tenda». Anche l’ultima!
Un piroscafo statunitense arrivò a Messina per sbarcare aiuti, ma le autorità glielo impedirono; per non riportarli indietro, il capitano della nave accostò tre volte nei pressi, facendo trasbordare i beni sulle barche che si avvicinavano. L’ultima volta, all’altezza di Ganzirri (sulla punta nord dello Stretto), dove il pescatore Giuseppe Burrascano raggiunse il bastimento, con la sua barca, caricò gli aiuti e tornò a riva: un tenente colonnello e una ventina di suoi uomini sequestrarono tutto, mentre il delegato di polizia (tale Vercelli) arrestava il pescatore e suo figlio, manco avessero rubato e non ricevuto in dono, riferisce Longo. Che poi fa un elenco di beni arrivati a Messina e non ai messinesi sopravvissuti: burro, strutto (tranne, una volta sola, 25 grammi a famiglia), patate olandesi, caffè, zucchero, frutti canditi, carne, tacchini, cioccolata, prosciutti, gelati, «ed il resto ve lo dirò poi», mentre un maresciallo della sussistenza vendeva, «come cosa sua», tendine e coperte di lana.
Alcuni giorni dopo il disastro, il ministero delle Poste e Telegrafi aprì un ufficio, in un baraccone quasi sul molo, ma «non funzionava per il pubblico (a nessuno fu dato spedire un pacco e tanto meno riceverlo dai parenti lontani)», mentre i militari dei vari reggimenti spedivano alle rispettive famiglie «dai settanta ai cento pacchi al giorno» e «denaro – denaro – e sempre denaro, e la cui provenienza non poteva essere che una... una sola, e quella!».
Longo si augurava di poter dimostrare tutto in tribunale, se mai si fosse giunti a un processo, anche solo per diffamazione, contro di lui. E contrapponeva il comportamento dei tanti inetti o disonesti a quello di «certi pochi uomini», i cui nomi «stanno scritti a caratteri indelebili in fondo ai nostri cuori», come quello del maggiore medico Farina, della Direzione di Sanità militare di Firenze («anima eletta di pietà»), interessato soprattutto alla sorte degli orfani, che aiutava in ogni modo («Che c’è buona gente? Che fate? Quanti bambini dormono qua dentro?», per distribuire in proporzione); o quello del «suo degno successore», sottotenente medico Vito Ciaccio («buono, pietoso»). Si duole, Longo, di non essere riuscito a conservare i nomi di tutti gli onesti e provvidi soccorritori, come quelli dei sottotenenti Ciccarelli e Filippini, del tenente del 9° bersaglieri Torrebruno, Falsacapi e del capitano del 19°, Mazzoni, pare persino punito dai superiori «forse per essere troppo buono»; o degli «apostoli di carità» sottotenente di vascello Alberto Pezzi e tenente Pini. E fra le città che più si adoperarono per i terremotati, a parte Catania e Palermo, cita Genova «che ben ricordava ciò che Messina avea fatto» quando il colera imperversò in Liguria; e Milano, «la nobile, generosa e patriottica Milano» che più di ogni città italiana fece. Mentre Giuseppe Di Rosa, in 1908: Messina e Como – Profughi e orfani, racconta come la città lombarda soccorse e accolse messinesi in fuga dal disastro. Alcuni dei quali ripagarono Como arricchendola, poi, con il loro talento imprenditoriale o culturale. «Ma New York superò tutto e tutti.»
Mentre durissime sono le accuse al presidente del Comitato di Soccorso, il sindaco di Roma, Ernesto Nathan, sull’uso dei milioni raccolti dalla solidarietà internazionale; e sulla gestione pubblica degli aiuti in danaro e beni (spesso distribuiti a possidenti, nobildonne, senatori, prostitute, amici e parenti), mentre si lasciavano «orfani e vedove senza suffragio e senza conforto»; e sugli appalti per la costruzione delle baracche, che il Genio Civile pagava 350 lire l’una e venivano erette in subappalto a non più di 105, 110 (mica solo a L’Aquila c’era chi rideva per gli affari del terremoto, all’ombra della Cricca); e peggio ancora i mutui per la ricostruzione delle case: «chiunque entro i sei mesi dalla data dello sgombero, non avrà fatto domanda di mutuo o almeno dichiarazione di voler ricostruire direttamente la propria casa, questa e l’area su cui sorgeva, passerà a proprietà esclusiva dell’Unione Messinese», un ente creato apposta per subentrare nei diritti altrui. «Fu così che tanti persero, a Messina, pure quello che il terremoto aveva risparmiato. Ai superstiti, in quelle condizioni, si chiedeva di garantire i mutui, svolgere pratiche, sottoporsi a percorsi burocratici, in un caos totale, in tempi stretti, pena l’essere privati di tutto, a beneficio di pochi speculatori venuti da ogni parte d’Italia» racconta Donatella Rinaldo, ricercatrice universitaria. La sua era famiglia di importanti imprenditori, a Messina. E si vide sottrarre a quel modo le proprietà, che furono assegnate ad altri. I furbi e potenti «fecero incetta dei diritti a mutuo, essendo essi commerciabili», scrive Andrea Giovanni Bono, «finendo con il mandare in crisi non solo gli strati più poveri della società, ma pure i ceti medi e la piccola borghesia».
Il terremoto distrusse la popolazione; la speculazione ne distrusse il tessuto e la struttura sociale; la politica distrusse l’economia, perché in un “clima di illegalità”, il ministro dei Lavori pubblici fece in modo che l’incarico della ricostruzione fosse assegnato a cooperative emiliane e romagnole, cui (solo dopo le proteste) si chiese di accordarsi con quelle locali (avete presente i lavori per la Salerno-Reggio Calabria?)
I militari russi consegnarono alle autorità italiane un tesoro, venti milioni di lire (cifra enorme, per quel tempo), trovati fra le rovine del caveau di una banca; ad Arnaldo Cipolla, del «Corriere della Sera», due ufficiali dello zar chiesero a chi consegnare un cesto pieno di gioielli. Altre decine e decine di milioni in contanti, in titoli, in oro e pacchi di gioielli vennero alla fine recuperati.
E ne fu erede, scrive Longo, «il Governo italiano» che da una parte garantiva la resurrezione di Messina, dall’altra le tolse «la manifattura dei tabacchi – il collegio e il Tribunale militare – le si tentò togliere la R. Università degli studi e si lasciò il suo Comune e la sua Provincia nell’arbitrio di applicare una miriade di tasse, alle quali non sapeano più che nome dare». (Giovanni Cena, su Nuova Antologia, riferì lo scambio di battute fra un militare e una superstite: «Sapete, buona donna, che fucilano chi ruba?» – «Che vuole, recuperiamo qualcosa: questa era casa mia. Tanto si piglierà tutto il governo!».)
Sembrava quasi che il governo italiano avesse colto l’occasione del disastro, per punire Messina, piuttosto che aiutarla. E, a ben guardare, il sospetto potrebbe non essere infondato, perché la rocca messinese, con quella di Civitella del Tronto, fu l’ultima a cedere all’assedio delle truppe piemontesi. La città aveva dimostrato, in maniera plateale, la sua disistima al nuovo governo, alle elezioni del 1866, l’anno in cui, fra l’altro, esplode in tutta la Sicilia, la rivolta del Sette e Mezzo (i giorni che durò), per la delusione di essere passati dalla scarsa autonomia sotto i Borbone, alla nessuna autonomia e alla miseria con i Savoia, che pure erano stati appoggiati, nella loro impresa di conquista.
Su quanta ricchezza fosse sepolta sotto le macerie imperversarono stime: l’Austria valutò non ci fosse meno di un miliardo, forse più di uno (su ottanta dell’intera ricchezza nazionale!); economisti stranieri e italiani, fra cui Francesco Saverio Nitti, ridussero la cifra alla metà scarsa.
Messina risorse per un carattere che fu il valore più grande salvato dai superstiti. Ci sono un paio di corrispondenze di Giuseppe Antonio Borgese, per «La Stampa», che sono fra le più belle pagine di giornalismo: raccontano la rinascita della città. Subito dopo la catastrofe, «i messinesi sparirono, abbandonando il loro suolo ai soldati, ai marinai e ai funzionari in missione speciale». Ma quando proprio sembrò che la loro città potesse morire, i sopravvissuti riapparvero: «vivono alla spicciolata, consci unicamente delle loro necessità individuali. Chiedono soccorsi, raccolgono vettovaglie, si fabbricano un alloggio» e, ottenuto il permesso di scavo, «esumano i loro parenti morti, frugano nel fango per racimolare l’eredità». E tornano ad «agire come individui e cominciano a sentire come messinesi»: temono che le città vicine possano approfittare della loro sventura, criticano le autorità, «si dolgono che i forestieri – piemontesi o napoletani o romani poco importa – esercitino diritto d’imperio sulla loro città». E, per quella «solidità del legame che avvince l’uomo alla terra ove nacque e che nemmeno l’ecatombe, nemmeno la fame può sciogliere, finirete per commuovervi». Vero, anche per come lui lo racconta: che lezione! «Non mancano dunque né le autorità militari né le civili, non mancano i giornali né i comizi (ci furono elezioni tre mesi dopo il sisma; N.d.A.) perché si possa parlare d’una città risorta. Mancano soltanto le case, le strade, le piazze.»
Che faranno, ma non per resistere al prossimo terremoto: «la città ideale rimarrà ideale. Ed è così facile prevedere come andranno le cose, che quasi non vale la pena di prevederle». Infatti: non sorse la città antisismica, non si preferì il più elastico legno alla pietra, perché non solo i messinesi, ma noi italiani «preferiamo morire sotto il marmo, anziché vivere nel legno».
È rinata come ha potuto, brutta e fragile, con meravigliose eccezioni. E il sentimento di quel che ha perso; e il sentimento di quel che la città non ha avuto, nel bisogno; di quel che non aveva avuto prima dall’Italia appena unita e addirittura le era stato tolto; lo stesso che accompagna l’ormai comica promessa nazionale del ponte sullo Stretto, che da mezzo secolo giustifica il non fare altre cose, nell’attesa che (non) se ne faccia una molto più grande (Nino Calarco, profeta del ponte, e Piero Orteca hanno potuto ripubblicare nel 2010, dopo ventisei anni, il loro Lo Stretto di Messina e gli scenari geostrategici del Terzo Millennio senza cambiare una parola!). Non è cosa nuova: il terremoto si abbatté sul «costrutto antico dell’opera del governo in cinquant’anni di regno: i pubblici servizi inesistenti», riporta Mercadante. Almeno quello che non c’era, anche se avrebbe dovuto esserci, non venne distrutto. Sarà un’altra buona ragione per non fare il ponte, né tutto il resto?
Non solo: l’Unità aveva condannato Messina a una feroce regressione economica e commerciale. La città nacque per essere un porto; di quello viveva, da lì traeva la sua ricchezza. E, nel sistema di protezione doganale borbonico (che permise una promettente espansione industriale), «Messina godeva del particolare privilegio del porto franco, che le aveva consentito un ruolo tra i più dinamici ed economicamente positivi», scrive il professor Pasquale Amato, docente di Storia contemporanea a Messina e a Reggio Calabria, in Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi. «La popolazione era costituita in massima parte da artigiani, da addetti alla piccola industria legata alle attività portuali, da un elevato numero di lavoratori portuali, da operai delle numerose fabbriche di derivati di agrumi, vini, tessuti di seta, pelli e pesce conservato, da una numerosa media e piccola borghesia industriale e commerciale e da una forte presenza di liberi professionisti, di impiegati e insegnanti».
Messina era «fulcro economico di un sistema che coinvolgeva la propria provincia e le province attuali di Reggio e di Vibo Valentia». C’erano 161 filande di seta sulla costa calabrese dello Stretto, nel 1860 (sparirono, piano piano, dopo l’Unità, come il resto del comparto industriale del Sud); la produzione di essenze-base per l’industria profumiera poneva il porto messinese al centro di traffici con l’Europa più ricca, colta e moderna.
Appena arrivati, i piemontesi imposero la loro tariffa doganale, come al resto del Meridione: il che comportò il declino dell’industria meridionale e della quantità di merci in transito per il porto siciliano; che, ancora peggio, smise pure di essere porto franco. La depressione colpì l’intera area dello Stretto; su poco più di 105.000 abitanti (allora), Messina perse, ricordo, 33.000 posti di lavoro! La città dello Stretto era l’unica in cui la maggioranza del corpo elettorale non era composta da votanti per diritto di reddito, ma da professionisti, commercianti, piccoli e medi imprenditori, borghesia artigiana. E alle votazioni del 1866, per protesta, elesse deputato Giuseppe Mazzini (che mai era stato nella città di cui diveniva rappresentante): ineleggibile, perché condannato a morte dal Regno di Sardegna (noto per aver giustiziato più patrioti italiani dell’Austria). Per due volte il risultato delle votazioni fu annullato dalla Camera; per tre volte Messina rielesse Mazzini, la cui nomina fu infine convalidata. Ma lui la rifiutò (rubo al professor Amato una interessante osservazione, in proposito: a chi, in Parlamento, sostenne che la sentenza contro Mazzini non era valida, perché gli stati preunitari non esistevano più, la maggioranza liberal-conservatrice obiettò che l’argomento era vero per tutti gli altri ex Stati, meno quello dei Savoia, «di cui il Regno d’Italia era da considerarsi un’espansione territoriale». Per chi ancora avesse qualche dubbio).
Nello stesso anno, 1866 (forse qualcuno intuì che la città aveva ragioni per dolersi), Stefano Jacini, ministro ai Lavori pubblici, propose la costruzione di un ponte sullo Stretto. Eccolo là!
Mi sa che comincio a capire il (ri)sentimento messinese. Provo a riassumere: la sua rocca resse sino all’ultimo e i suoi difensori, invece dell’onore delle armi, ebbero gl’insulti dell’omicida di professione Enrico (Caino) Cialdini; appena annessa all’Italia, vide il porto declassato e sfiorire le industrie di cui era perno; per cinquant’anni, il nuovo governo la ignorò e quando il terremoto la distrusse, mandò i bersaglieri a fucilare i superstiti e a rubare gli aiuti (mentre si celebravano i 50 anni dell’Unità: Prezzolini propose di utilizzare per i soccorsi le cifre disposte per i festeggiamenti). Oggi (celebrazioni in corso dei 150 anni dell’Unità), da almeno un altro mezzo secolo prendono in giro la città e lo Stretto con la storia del ponte. E adesso, pensatevi messinesi.
La città c’è, ma non somiglia a quella che era. «Messina,» aveva scritto nell’immediatezza del disastro Ugo Fleres «la Messina vera, la Messina nostra è stata e non sarà più: la Messina ventura sarà un’altra e sarà di altri.» E così è andata: i sopravvissuti che, in forza del loro carattere, fecero rinascere la città, non riuscirono, per insufficienza demografica e non solo, a salvare quel carattere (figlio di una storia e un’attitudine secolare a industria e commerci) da un nuovo terremoto: la calata di funzionari pubblici, immigrati, speculatori da tutta Italia. I quali «operavano con mentalità da “conquistatori” e “sfruttatori”» spiega Andrea Giovanni Noto, nel suo bellissimo Messina 1908. I disastri e la percezione del terrore nell’evento terremoto. Molti vennero dai centri rurali, nel raggio d’un centinaio di chilometri (usi e teste lontane da quelli di una città che il porto e gli scambi, di ogni tipo, aprivano al mondo); decine di migliaia erano «funzionari in missione, per la ricostituzione degli uffici» e tanti «mediocri impresari e trafficanti di origine settentrionale». Ne derivarono «depressione», «sciattezza del tono sociale», «un certo provincialismo».
«Città collusa e spenta» me la descrive Maurizio Castagna, attivo in movimenti autonomisti siciliani. «A ereditare Messina fu una classe parassitaria, collusa con il nuovo potere. Mentre in tutto il Mezzogiorno questa complice accettazione di subalternità fu lenta, qui il fenomeno ha una data: 28 dicembre 1908, il terremoto. Persino dopo il disastro, il porto rimase uno scalo importante, poi... e ora è solo di passaggio: ci si arriva per andare altrove. Di questo si vive e di posto pubblico, rendita edilizia; tutto si lascia scorrere e finire, come non appartenesse alla città. Nell’indifferenza (un crimine, in una città di mare) si è persa un’eccellenza, i cantieri Rodriquez, passati da 800 a 20 dipendenti.»
Castagna dedica tutto il tempo che gli lascia libero il lavoro di preparatore atletico e docente universitario di Scienze motorie, ai temi storici, economici, sociali del Sud, ma in particolare della Sicilia («Credi che qualcuno abbia fatto qualcosa per la soppressione dell’ennesima linea ferroviaria, la Canicattì-Siracusa, un anno fa? Tutti zitti. Non c’è una linea tra Agrigento e Siracusa e comunque arrivare dallo Jonio all’interno della Sicilia vuol dire compiere un viaggio di 7, 8 ore, terrificante! Da Gela, la martoriata Gela, nessuno si azzarda più a prender treni per la costa orientale, men che meno per quella occidentale e settentrionale. Credi si preoccupi qualcuno che se atterri dopo il tramonto, a Catania, non c’è un pullman che ti porti in città, sino alle 5 del mattino dopo: o dormi lì o ti sveni con il taxi? Credi che...?»).
L’acquisita conoscenza della costante mortificazione del Sud, a beneficio della parte più ricca e prepotente del Paese ha mutato gli orientamenti politici di Castagna. È poco interessato, ormai, agli schieramenti ideologici; solo alle cose che si fanno o non si fanno; e come. Era partito da destra, «ma ora ho una visione sociale molto diversa: l’unico strascico ideologico che mi porto dietro è quello relativo alla socializzazione dell’economia e del lavoro, dei commerci e della moneta. Dopo un’esperienza da volontario in Afghanistan, fra la gente che vive in condizioni spaventose, ho capito che non esistono destra e sinistra, ma centri di interesse che usano alcuni popoli per opprimerne altri» dice. «Non rifarei quel che ho fatto, per una errata comprensione del sistema.»
E non è affermazione da nulla, nel suo caso: il suo nome era nell’elenco trovato con il memoriale di Aldo Moro, nel covo delle Brigate Rosse, in via Montenevoso, a Milano, quale membro di Stay Behind, quella Gladio, formazione paramilitare segreta e anticomunista, creata dall’Alleanza atlantica. Medaglia d’oro ai Giochi del Mediterraneo di Smirne, nei duecento metri delfino, quarto ai campionati del mondo di gran fondo (anni dopo, recordman di resistenza in piscina: 26 ore), aveva 22 anni, quando fu avvicinato dai servizi segreti, a Napoli, dov’è nato (solo da 15 anni è a Messina, la città di suo padre).
«Ci addestrarono per anni; ci portavano in un aeroporto in pullman oscurati, come gli aerei con cui ci trasferivano in una base militare segreta: all’italiana, s’intende, ché al ritorno, i piloti caricavano in cabina casse di Cannonau di Alghero. Insomma avrebbero fatto prima a dirci che eravamo a Capo Caccia. In tanti anni, mai visto un’arma. Non mi era chiaro a che pro tutto quell’addestramento, senza mai essere impegnati, nemmeno per un’azione dimostrativa. Poi, temo di averlo capito: siamo stati usati, per coprire una sezione sporca. Vincenzo Parisi, allora capo della Polizia, era mio zio; si chiese (ad alta voce) come mai le BR, in possesso di documenti all’epoca esplosivi per il Sistema Atlantico, li avessero tenuti nascosti, invece di divulgarli! (Se ci fai un pensierino anche tu...). Ci dissero che eravamo dei galantuomini; invece fummo galanfessi.»
Si capisce che la cosa ancora lo disturba; ma la disillusione non gli ha fatto passare la voglia di impegnarsi, di fare. La formazione meridionalista nata da destra, Insorgenza (ma in cui trovi pure degli operai di incazzatissima sinistra di Pomigliano), gli sta stretta: «È più importante il risultato, di chi lo ottiene» dice. Collabora con ogni sorta di gruppo impegnato nel sociale in Sicilia, come il “Muovi”, a Palermo, guidato dal giovane avvocato Marcello Capetta (sorto da sinistra, con la Rete di Leoluca Orlando: «Un lavoro straordinario nei quartieri più difficili»); Fonso Genchi, che propose l’istituzione di un reddito di cittadinanza da attribuire ai più indigenti, con una moneta alternativa, lo Scec, finanziata dalla solidarietà e spendibile nei negozi convenzionati; o “La Sicilia ai Siciliani”, che Fonso Genchi anima, con il catanese Santo Trovato e l’avvocato Roberto La Rosa di Palermo («Per il Giro d’Italia, sull’Etna, organizzarono una cosa bellissima, con le nostre bandiere. E ora parte un cineforum informativo e itinerante, per tutta l’isola»); o le iniziative di “Aria Nuova” e “Sciatu”, di Paolo Scicolone, a Gela (ex Insorgenza, pure lui), «e di tutti i siciliani contro l’impero multinazionale che ruba la nostra energia e avvelena la nostra gente, privando zone fertilissime dell’acqua potabile». Partecipa alle manifestazioni, organizzate da chiunque, per l’applicazione integrale dello Statuto speciale dell’isola; aiuta l’avvocato Fabrizio Palmieri, dell’Associazione culturale Demetra, che si spende «per il popolo di via Palermo, a Messina; una strada lunghissima, intorno alla quale gravita una comunità trascurata, in difficoltà»; sostiene Identità Mediterranea. Con l’Mpa, il movimento per l’autonomia della Sicilia, dice che stabilirà rapporti, solo quando il suo leader e fondatore, Raffaele Lombardo, presidente della Regione, irromperà, come suo diritto, nelle riunioni di governo, per votare, con pari dignità.
Lo ascolto e riconosco, nella sua esperienza, quella di tanti di analogo percorso, da destra, da centro, su temi meridionalisti; o da sinistra, come Antonio Ciano, Beppe De Santis (e molti altri), il primo ex comunista, poi fondatore del Partito del Sud, di cui è segretario il secondo, dopo essere stato dirigente della Cgil, organizzatore dell’Mpa di Raffaele Lombardo. Un po’ degli strascichi ideologici restano, ma gli uni e gli altri si incontrano in quell’area comune del “che fare?”, ove tutti convergono. Il muro di Berlino è caduto e questo ha rivelato l’altezza (prima sottaciuta) del muro di pregiudizi e politica squilibrata, in Italia, fra Nord e Sud. Sotto quel muro si addensa ora un popolo consapevole, sempre più indifferente al colore dei picconi.
«Messina non sa cos’è stata, per questo è così. E non fu il terremoto a farle questo» continua Castagna, mentre mi riaccompagna a Catania, in aeroporto (E “questo”, è ben descritto da Andrea Giovanni Noto: «un’intera comunità per molti secoli laboriosa e dinamica, divenuta da quel giorno, al contrario, sempre più distratta, infiacchita, indifferente, immemore della propria tradizione e dei propri destini, incapace di “scandalizzarsi”»).
L’ambizione di Castagna e di molti è recuperare la memoria, per farne strumento di ricostruzione sociale, arma politica; con cui rivendicare diritti: «In forza dello Statuto, il presidente della Sicilia dovrebbe partecipare al Consiglio dei ministri, quando si tratta qualunque cosa riguardi l’isola; in Sicilia dovrebbero restare le tasse per le attività economiche che producono valore qui (tanti miliardi di euro da rendere autosufficiente l’isola; N.d.A.); quando c’era il Banco di Sicilia, per legge, i depositi bancari non potevano uscire dall’isola...».
Avvenisse, forse Nettuno tornerebbe a dare le spalle al mare: fino al giorno del terremoto, la statua del dio, sulla fontana del Montorsoli che il Senato della città fece costruire nel Cinquecento, era in porto e, volta verso la città; il dio le tendeva il braccio quasi, fu scritto, nel gesto di donarle il mare. Dopo il sisma, la fontana fu riedificata dinanzi alla Prefettura, ma con la statua del dio fronte-mare, a cui tende il braccio, quasi a difendere, da quello, la città.
A destra l’Etna è ancora imbiancato sino a metà di neve e, dalle bocche in su, dal fumo della colata in corso; a sinistra, il verde cupo dell’Aspromonte, sull’altra sponda, sembra quasi ombra, sa di mistero; in mezzo, la maestralata tesa tiene basse ma crestate le onde, e dà al mare quel colore elettrico, smaltato, che mette paura ma affascina (a patto di starne fuori...). Dio, quant’è bello ’sto posto!
Castagna mi saluta due volte: «Ciao»; e poi, «Antudo, semper!», che sta per Animus Tuus Dominus: il coraggio è il tuo signore. Era il motto dei Vespri siciliani, 730 anni fa («Ormai, l’hanno imparato anche gli irlandesi e i catalani, con i quali siamo in contatto da sempre, nell’ideale di un’Europa dei popoli, diversa da questa, dei banchieri e dei finanzieri»). Okay, Antudo!