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UN BEL POSTO,
ILLUMINATO DI RIMBALZO
Persino la luce, qui (e la barca, le donne, l’origine, il dialetto, la casata nobiliare) non è la stessa di tutti. «Noi abbiamo qualcosa che altrove non c’è»; nessuno te lo dice così, ma tutto quello che fanno e ti mostrano dice questo. Accade un po’ ovunque, ultimamente a Sud, ma a Bagnara Calabra il fenomeno sembra più evidente, forse per la dimensione del borgo, che nel piccolo maggiormente esalta le specificità locali, la coralità dell’opera, l’intensità del sentimento di riappropriazione.
Quaranta volontari, per “Ottobre piovono libri” e per impulso dell’associazione “Insieme per Riaprire la Città”, hanno fatto lettura pubblica di Terroni, per un mese. E, per un mese, il corso della cittadina è stato arricchito da una libreria: Librandosinvolo. Poi, mi hanno chiesto di chiudere la stagione.
Sono in tanti, appassionati, giovani la più parte, con una fertilità interiore che affiora per molti rivi: Maria Rosaria, presto di nuovo mamma, forte e decisa, guida l’associazione (si è rischiata la rinuncia all’iniziativa, quest’anno, perché molti soci hanno dovuto inseguire un lavoro altrove); suo marito Mario Lo Cascio, musicista e compositore, suona il piano con i Mattanza (una vera scoperta!) di Mimmo Martino, istituzione poetico-musicale, per aver recuperato canti vecchi di secoli, in lingua arcaica, altro che dialetto, e in grecanico (il greco bizantino dei monaci basiliani in fuga da Bisanzio e dalle incursioni saracene); Maria è emozionata, ha risolto i problemi, e dice: «Non c’è più un euro; abbiamo le tasche vuote e il cuore pieno»; Roberta fa la giornalista, deve fingere di non vedere gli ostacoli che farebbero desistere i saggi (è lei che mi fa le domande in pubblico); un giovanissimo storico e ricercatore, Domenico Gioffrè, mi dà il suo libro su La Gran Casa dei Ruffo di Bagnara e, con un amico, mi dice, due passi sul lungomare, quel che vale e che si perde del paese.
C’è molta fierezza, per il lavoro di Gioffrè, perché tutti conoscono i Ruffo di Calabria, principi di Scilla (sul promontorio accanto); e non vogliono si perda il valore dei duchi di Bagnara, l’altro ramo del casato di quei Ruffo che riportarono il regno ai Borbone, ributtando a mare i francesi che l’avevano invaso. È stata l’associazione Capo Marturano, sorta meno di dieci anni fa, a chiedere a Gioffrè di condurre lo studio sul lato bagnarota della potente dinastia.
La sala del grand hotel Victoria è strapiena, l’attenzione tanta, fuori, appena attraversata la strada c’è il mare; a sinistra, oltre le vetrate aperte, le luci della Sicilia, che sembra sporgersi verso il paese. L’onda frange lenta sui sassi e l’aria salsa entra a farmi sentire a casa (la prima che ricordo come mia era così, a ridosso del mare, ma sullo Jonio). A fine serata, esplode l’energia dei Mattanza e i sentimenti intuiti prorompono a sassate: la musica li libera; con la musica si può gridare quello cui a malapena si accenna.
Ci tengono, a Bagnara, a quello che li distingue e, a mano a mano, si riscopre e valorizza. «Sarà perché qui pare ci fosse una stazione fenicia, e solo qui» azzardano. Per dire che i Fenici erano più audaci e liberi. Incluse le donne; soprattutto le donne. Sennò come ti spieghi le bagnarote, le mogli dei pescatori, cui hanno alzato pure un monumento, che al ritorno dei loro mariti dalla pesca, li aiutavano a tirare in secca le barche, poi, con ceste di pesci in testa, salivano a piedi sul monte per la “strada del sale”, un sentierino a strapiombo sul mare, fino a Tropea, a vendere pesce, frutta e (appunto) sale; andavano a Villa, a Messina, intraprendenti e autonome quanto nessun’altra donna, sullo Stretto, con i pacchi di sale nascosti sotto le gonne larghe dell’abito tradizionale “a saia”, per sfuggire al dazio. (In Lucania, i mulattieri che portavano prodotti agricoli sulla costa, al rientro, riempivano le botti di acqua di mare. Le guardie, se li sorprendevano, gliele facevano svuotare: contrabbando di sale!)
Belle, forti, roventi le donne di Bagnara. Come Mia Martini, potente nella voce, nella volontà e nei sentimenti; tesa alla perfezione e piuttosto alla morte, senza quella. Anche a lei hanno eretto un monumento, sul lungomare. La forza, qui, il valore, sono declinati al femminile, nella regione forse più maschilista d’Italia.
Così diversi i bagnaroti, che «non abbiamo le doppie, il che fa apparire bizzarro, ai vicini, il nostro parlare; e a volte incomprensibile, per gli equivoci che genera» dice Mario. A un passo, lungo la costa, a nord e a sud del paese, ci sono Palmi e Scilla; ma lì il gallo è jaddhu, o gaddhu come nel resto della Calabria, mentre a Bagnara è gaiu. Si arriva alla scomparsa, a volte, delle residue consonanti fra le invadenti vocali. L’esempio classico è «“jeu ìa jà”, e sembra cinese. Significa: io sono andato là» continua Mario, che pure è nato lucano, da padre siciliano, «mentre gli altri calabresi dicono: “eu ìa ddhà”, noi, non potendo forzare la doppia d, perdiamo pure la singola...».
E ti dicono del villaggio neolitico affiorato e ricoperto sulla collina nel cantiere dell’autostrada; della villa liberty della famiglia «di grandi latifondisti, ancora padroni di mezzo Aspromonte» che va in malora sullo sperone fra Bagnara e la sua frazione orientale; della grotta a lungo abitata, in un passato remoto, poi divenuta luogo di culto e penitenza di anacoreti basiliani, che anni fa fu riscoperta e depredata da forestieri (è la grotta di San Sebastiano, sulla “strada del sale”: in epoca recente furono avviati scavi archeologici che portarono alla luce «reperti e strutture del neolitico, abbandonati e dimenticati da chi doveva tutelarli». Lì, dove, vox populi, sarebbe stato tenuto prigioniero John Paul Getty III, nel 1973, primo sequestrato di ’ndrangheta).
La sfioritura del gusto e del bello ha imbruttito pure questo paese, con case anonime e decadenti, che il Tirreno potrebbe portarsi via (nella notte di capodanno dell’80, una spaventosa mareggiata scavalcò la murata sulla spiaggia e invase le strade, tanto che a tre parallele dal lungomare, verso monte, l’acqua arrivava ai polpacci. Vennero ghermite barche e auto; fu un miracolo se sparirono nei flutti solo le cose e non anche le persone).
Il giorno dopo è molto presto, mentre percorriamo la vecchia strada per andare a Villa San Giovanni. La luce del mattino resta a lungo proprietà dello Jonio (aperto a est e a sud, regno dell’alba e dello scirocco): è fermata dai rostri dell’Aspromonte, perché il Tirreno dà a ovest e a nord, luogo di tramonti e tramontane. «È stato detto, di Bagnara, che non ha né sole né luna,» riferisce Mario «il testo tradizionale, diventato una canzone, dice: “pe stasira sugnu ccà gioiuzza cara e domani non lu sacciu undi mi scura, se mi scura pi li parti di Bagnara, undi non avi no suli e no luna...”, per stasera sono qui, gioia cara, e domani sera non so dove sarò, se dovessi trovarmi dalle parti di Bagnara, dove non c’è né sole né luna... D’inverno, il sole lo vediamo comparire sulle montagne alle nostre spalle verso le dieci.» Il giorno deve scavalcare la Calabria per illuminare i bagnaroti.
Ma una luce fresca rende ugualmente bella questa riva, mentre passi sullo Sfalassà, il fiume sormontato, duecento metri più in alto, da uno dei più arditi viadotti d’Europa; e, una gola avanti, danno di freddo le cascate di un altro rio, alle cave di Musella (dal nome del proprietario, fatto saltare in aria con la sua auto a Reggio Calabria, dalla ’ndrangheta).
Siamo abituati alla luce, come all’aria; e ci vuole un po’, perché ti accorga che c’è, senza che ci sia pure il sole: qui, arriva prima la luce, di rimbalzo, poi sopraggiunge il sole. Davanti, c’è lo Stretto che si apre, con i frangenti dello scirocco che entra teso e si spinge nel Tirreno; per la stessa via, la luce si infila da est, perché trova il varco, e infiamma la striscia estrema dell’isola, Punta Faro, su cui si erge il pilone dell’alta tensione. Lì, la luce è anche calore, qui, per ora, soltanto luce. È un posto che ti schianta l’anima; nemmeno l’orgia di cemento a vista e sporco, di muri non intonacati o solo in parte, riesce a diminuirlo. E il colore del mare è subito di quello profondo, che s’inabissa. Uno dei paesini da cui si fuggiva, a cui voltare le spalle, senza futuro. E che ora lo cerca e lo trova nella riscoperta del suo passato. Forse, verrebbe da dire, perché non è rimasto altro.
Con che cuore te ne vai da qui, dove tutto è così diverso, raro, bello?
«Eppure, tanti se ne devono andare» dice Mario. «Ecco, immagina con che cuore uno se va da Bagnara. E capisci chi resta; comunque.»