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I MERIDIONALI DOVREBBERO
PRODURRE SOLO FRUTTA E ORTAGGI

«I meridionali? L’agricoltura.» Tu sei pronto a consentire: certo, anche. Ma il tono è tale che non hanno bisogno di aggiungere: «E basta!». Quante volte me lo sento dire? Gli sembra una buona idea: il clima, il sole... Ma le pianure sono al Nord (31 per cento del territorio, contro il 14 del Sud, zero virgola in Calabria) e al Centro; i grandi fiumi e le piogge nella stagione giusta per l’irrigazione scorrono al Nord e al Centro. In Puglia, dare acqua alle piante costava sino a dieci volte più che in Emilia, perché bisognava andarla a cercare nel sottosuolo, con pozzi sempre più profondi.

Il Sud è terra di molte montagne petrose; hai le argille impermeabili più instabili del pianeta e le pendici più franose (un intero uliveto, a Cetraro, nel Cosentino, scivolò nella notte sul vigneto a valle: gli alberi rimangano al proprietario dell’uliveto, la terra a quello del vigneto, sentenziò il giudice, salomonico); i monti che si allargano alla base, e le vette sprofondano, si sfaldano; gli altipiani di poca terra e tanti sassi; i soli deserti esistenti nel nostro Paese; la paradossale “aridità pedologica”, dovuta all’eccesso di sodio nel terreno, che cattura l’acqua e, rigonfiando gli strati superficiali, le impedisce di penetrare in profondità, dove invano la cercano le radici delle piante (tanto che l’agricoltura del Sud, scrivevano gli analisti, è penalizzata più dalla troppa acqua che ristagna d’inverno, che dalla scarsità estiva); le fiumare che scendono a precipizio dai monti, con imprevedibile frequenza, a devastare la rigogliosa, ma esigua fascia costiera, troppo stretta per frenarne l’impeto e regolarne il corso; gli strati d’acqua dolce infiltrati da quella salmastra, che affiorano gonfiati dalle piogge e rendono la terra salina e improduttiva; i terremoti più funesti; i soli vulcani attivi d’Europa (escluse le lontane isole atlantiche), fra i più grandi del mondo, che periodicamente distruggono quel che costruiscono; il sole che irradia così impietoso da bruciare, talvolta, il lavoro di un anno in pochi giorni; un freddo che, a dispetto della latitudine, fa della Basilicata una delle regioni più gelide del Paese.

Dal Nord si può immaginare la fertilità del Sud molto al di là del vero, come si fece per le colonie africane; ma dietro le strette pianure costiere, si stendono troppe ossute montagne, roventi d’estate, ghiacce d’inverno. Si attribuiva la ricchezza degli agrumeti, degli orti, alla natura ricca e generosa, trascurando il lavoro di chi aveva terrazzato, con secolare fatica, colline scoscese sul mare, strappato frutto ai dirupi. Sembrava quasi ingiusto che quel paradiso fosse nelle mani dei (poveri) diavoli che pure lo rendevano e mantenevano tale. Gli esploratori di Mosè tornano dalla Terra Promessa con grappoli d’uva che toccano il suolo, per mostrare la ricchezza del Paese «che il Signore ci darà». Poca curiosità per chi ha lavorato la vigna e ignora che stanno per portargli via il raccolto.

Nella distinzione del territorio fra buono per l’agricoltura (polpa) e no (osso), il Sud è la parte più sfavorita d’Italia, avvertivano i primi meridionalisti: 13 per cento scarso di polpa, 87 di osso (rubo dati e aneddoti un po’ a tutti, da Giustino Fortunato a Friedrich Vochting, La Questione Meridionale). Ma in secoli di fatica, genio ed esperienza, qui hanno saputo rendere fruttifero l’osso. Nella mia Puglia, la necessità ha selezionato i più grandi aridocultori del Mediterraneo, capaci di tirar su tesori vegetali catturando l’umidità dell’aria, di notte, con i sassi dei muretti (gli agronomi israeliani che hanno messo a coltura il deserto del Negev, erano ospiti nelle masserie pugliesi).

Ma era convinzione diffusa che il Sud fosse il giardino d’Italia, da cui attingere primizie e abbondanza; e non avesse vocazione più sicura di questa. Un’opinione fondata sulla superficialità e la convenienza (badino alle insalate, che alle cose serie, ghe pensi mi). E, invece di cercare di incrementare il meglio (l’orticoltura, la frutticoltura, gli agrumeti), si condannò il Sud al peggio, specie con «l’inaugurarsi, già nel 1878, di un regime protezionistico, il quale [...] servì a salvaguardare i centri più avanzati dell’agricoltura nella pianura padana» (da L’emigrazione italiana negli anni ’70). Dopo la condanna alla “battaglia del grano”, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, le esportazioni di arance del Mezzogiorno erano meno della metà di quelle degli Stati Uniti, del Brasile, della Palestina; sei, sette volte inferiori a quelle della Spagna.

Quando ero ragazzino, per farmi «spezzare l’aria» e temprarmi (abitavamo sul mare), i miei mi mandavano per qualche settimana da una zia paterna, famiglia contadina, nella Murgia di Gioia del Colle, forse la più rovente. La curiosità mi indusse a chiedere agli zii di fare la vita dei miei cugini. Non immaginavo che la sveglia suonasse alle 2, le 3 del mattino, che la colazione non fosse il caffellatte, ma somigliasse più, per sostanza e pietanze, alla cena; per poi sonnecchiare sul “traìne”, il carro agricolo, saltellante per tratturi, sino al campo in cui lavorare quel giorno. Svenni per una botta di calore durante la raccolta delle lenticchie (o ceci?) nella conca più ardente dell’altopiano, Abbash o’ Jucch, una depressione che, come una lente, riverbera i raggi del sole e fa registrare temperature facilmente oltre i 40 gradi.

Ma l’estate, tempo delle vacanze, è anche quello in cui i lavori agricoli sono scarsi, quasi nulli. Ed è allora che, in Puglia, si faceva, da sempre, “lo spietramento”.

La mia regione è un pezzo di Nordafrica che la deriva geologica ha fatto migrare sino ad arenarsi fra le argille della valle del Bradano e il Gargano. Ed è nella mia regione l’unico vero deserto italiano; non ve ne siete accorti, perché abbiamo saputo metterlo a frutto. E dei deserti, la Puglia ha pure le contraddizioni: è la meno forestata d’Europa (solo il 2 per cento del territorio è bosco), ma ha il comune più forestato, Vieste: oltre il 90 per cento; e la foresta Umbra (da ombra), sempre sul Gargano, è l’ultimo scampolo di quella europea primigenia, che ricopriva l’intero continente e sui rami della quale avreste potuto andare da Reggio Calabria a Lisbona, senza toccare terra. Quella foresta è stata ovunque distrutta e le attuali sono tutte ricostituite, nei millenni. Tranne la Umbra, le cui essenze (dai tassi, ai faggi, ai pini d’Aleppo) hanno dimensioni maggiori che altrove, nonostante il Gargano sia, geologicamente, un’isola (poi connessa alla terraferma) e, quindi, tutte le forme di vita che vi albergano siano affette da nanismo (provate a immaginare quanto grandi fossero gli alberi della prima foresta europea). Ultima bizzarria dell’unica regione italiana a dominanza desertica: è la sola, in Europa, in cui siano compresenti quasi tutti i tipi di quercia del continente, incluso la ciclopica Fragna; e sul Gargano c’è la più grande varietà di orchidee del continente.

Ma la Puglia è Murgia: i suoi altipiani erano uno sterminato giacimento di sassi e macigni, a perdita d’occhio. I Romani li chiamavano «Deserta Apuliae», al plurale. Non ricordo dove lessi che la Murgia fu l’unica parte dell’impero in cui si rivelò inapplicabile il modello economico di Roma, fondato su un sistema autosufficiente: la “villa”, casa del dominus, il padrone, attorno alla quale sorgevano le abitazioni di soprastanti, contadini, artigiani, schiavi. Ogni giorno, quanti accudivano al governo dei campi raggiungevano il fondo in cui lavorare. La sera, rientravano. Questo determinava le dimensioni del latifondo, ché non poteva essere tanto grande da rendere antieconomico il tempo del viaggio di andata e ritorno dai coltivi più periferici, rispetto al tempo dedicato al lavoro vero e proprio. Fatto centro sulla villa, tale necessità era il raggio che delimitava, a giro, l’area di convenienza del latifondo: la ricchezza dell’azienda era data, ovviamente, dallo sfruttamento della fertilità di quest’area, detratte le spese per la produzione. Il modello fallì sulla Murgia, perché quelle pietraie non davano abbastanza per coprire le spese e far avanzare un utile. Per essere redditizia, una “villa” sulla Murgia avrebbe dovuto avere estensione molto più ampia; così, però, sarebbero divenuti irraggiungibili, in giornata, i campi più lontani.

Oggi questi altipiani non sono più deserto. I pugliesi ci hanno messo millenni a spietrarli. E a farne l’uliveto più grande del mondo: 60 milioni di alberi, un terzo di tutta l’Italia, uno per ogni italiano (prima o poi convincerò la Regione a dare a ogni ulivo il nome di un italiano; così, la Puglia diventerà l’anagrafe d’Italia e ognuno avrà interesse ad aver cura di un ulivo, suo omonimo: salveremo, così, le nostre piante dalla ferocia dei pugliesi, e ospiteremo tutti gli italiani quali pugliesi onorari o... oleari). E qui c’è anche l’uliveto, “certificato” scientificamente, più antico del mondo, circa 6.000 dinosauri vegetali di 2.000-2.500 anni, ancora in produzione: grandiose opere d’arte scolpite dalla natura, dal tempo, dal vento, dai fulmini. E dall’uomo, per un centinaio di generazioni. Me li mostra Gianni Pofi, che ha contribuito a salvarli da distruzione (già dirigente della Forestale, collaboratore del Consiglio nazionale delle ricerche, grande agronomo e grande camminatore, gira la Puglia a piedi, con la moglie, descrivendo nei suoi libri gli itinerari).

In quella vacanza agreste, fui condotto, dai parenti gioiesi, allo spietramento: ognuno rimuoveva sassi nella misura delle sue forze e li ammassava in un luogo indicato. Quasi un rito sociale: vi partecipano uomini, donne, parenti, vicini, amici, braccianti a giornata. A me pareva la fabbrica dei matti: rimuovevi il primo strato di sassi, fra poche zolle rosse, grasse (terra untuosa, si appiccica alle mani). Mio zio e gli altri, quando ne liberavano una piccola superficie, vi affondavano le mani, con voluttà, come se la sentissero già gravida dei loro semi.

Ma quando credevi di averla nettata dalle pietre, ecco che ne affioravano altre, appena più profonde. E ricominciava l’opera. E quando anche quelle erano state tolte, nei vuoti così aperti affioravano altri sassi o veri macigni... Sarebbero finite mai? Fin dove bisognava scendere? (Zio e gli altri erano divertiti dalle mie domande, sudati e cotti da anni di sole, sino ad assumere lo stesso colore della terra.) «Che non le baci l’aratro» rispose mia cugina: non dovevano essercene, fin dove sarebbe scesa la lama per rivoltare le zolle.

Poi mio zio e gli altri uomini si accinsero a dislocare un masso tanto più grande degli altri: ne demolivano a picconate parti lesionate o più friabili, per alleggerirlo, scavavano sotto, incastravano cunei e leve, creavano un dislivello dalla parte opposta, imbracavano il macigno, spronavano il cavallo a tirare, mentre loro si appendevano alle pertiche e spingevano, nervi e muscoli turgidi da crepare la pelle. Non avrebbero mai potuto farcela: non era lavoro da uomini, quello. E lo dissi. Risero (ero il più piccolo e unico “cittadino”, lì). «Se qualcuno ha tolto quelli,» ansimò mio zio, indicando, nell’angolo più brullo del fondo, un cumulo di macigni rugginosi, per il muschio ormai antico «noi possiamo levare questo.» Il più accanito spietratore, animato quasi da rabbia, voglia di vendetta, era mio cugino Peppinello, che aveva 15, 16 anni (quasi il doppio della mia età), ma già uomo fatto per il lavoro: meno imponente del padre, però della consistenza di quei massi. «Ci dobbiamo sbrigare» mi diceva in rari momenti di confidenza, quando si andava a bere da u ’rzule, l’anfora di terracotta a collo stretto, ricoperta di un panno umido che, con l’evaporazione, sottraeva calore e teneva fresca l’acqua. «Un giorno, tutta questa terra sarà mia. E la voglio senza pietre.»

Parlava sottovoce, perché i grandi ridacchiavano, quando lo diceva. Peppinello si era fatta fama di sbruffone. A 15, 16 anni, si può. Ma quei sorrisini lo offendevano, si incupiva, masticava rancore.

Quell’opera dei matti è durata millenni e ha reso coltivabile il deserto che sconfisse i Romani. E io appresi, in ogni senso, sul campo, «come ha fatto questa gente a scavare e allineare tanta pietra» e come «un popolo di formiche sia riuscito a fare quello che avrebbe spaventato un popolo di giganti», secondo le parole del meridionalista Tommaso Fiore.

Così la Murgia è diventata giardino di ulivi, ricamo di vigne, ragione di orgoglio.

E dove la forza e la tenacia erano insufficienti, interveniva la pazienza: quando il macigno era proprio ciclopico, si riempiva di terra uno dei suoi buchi e vi si piantava l’ulivo. Un regalo ai pronipoti: l’albero, crescendo di forza lenta ma inesorabile, avrebbe incrinato il masso, riducendone la consistenza a portata di spietratore.

Con questo sistema, si ponevano a coltura pure le rocce: le donne, con i cesti sul capo, recavano la terra; gli uomini, arrampicati sullo sperone, con quella colmavano le buche in cui sistemare la pianticella d’ulivo: le radici, poi, avrebbero trovato, fra le lesioni della pietra, la via per trarre alimento: una natura stenta ha educato l’albero dei meridionali a ricavare molto dal poco, con un dippiù di fatica.

Si spietrava d’agosto, perché nel resto dell’anno, le braccia servivano ai coltivi; e perché la paga di quelle giornate consentisse ai braccianti di non morir di fame sino alla ripresa dei lavori agricoli, a settembre.

I contadini senza terra del Sud avevano creduto alla promessa fatta in Parlamento da Antonio Salandra, rappresentante massimo degli agrari meridionali e capo del governo, quando la guerra del ’15-’18 stava mettendosi molto male per il nostro Paese: «L’Italia compirà un grande atto di giustizia sociale» dopo aver vinto. «L’Italia darà la terra ai contadini» (be’... quelli superstiti). Ma prima, bisognava vincere. La stessa promessa che guadagnò a Garibaldi il caloroso benvenuto dei senzaterra meridionali; e che fu pagata con la delusione e la strage dei delusi inferociti, da Bronte, in poi.

Furono delusi e si ribellarono, pure i reduci della Grande Guerra: conquistarono quasi ovunque i comuni in mano agli agrari, occuparono le terre incolte, le misero in produzione. Finalmente il governo, nel settembre del ’19, con il decreto Visocchi, riconobbe ai contadini poveri il diritto di coltivare terre non sfruttate da proprietari che spesso le avevano usurpate, appropriandosi di agro demaniale. Bisognava organizzarsi in cooperative, le procedure per esercitare tale diritto erano farraginose, e la concessione valeva solo per un certo numero di anni, secondo il tipo di coltura.

Le terre davvero assegnate furono poche, fra le meno redditizie. Ma i contadini ci credettero, fecero debiti, le bonificarono, le attrezzarono, le misero a coltura. Tutto in perdita, per alcuni anni. Quando avrebbero dovuto finalmente ricavarne un profitto, un nuovo decreto, nel 1923, cancellò il precedente. I contadini che lavoravano quelle terre in forza di una legge dello Stato, divennero da un giorno all’altro abusivi, per legge dello Stato. E dovettero abbandonarle, portandosi appresso i debiti fatti per recuperarle. Ritrovo, fra vecchi appunti, una frase del sindacalista del Tavoliere, Giuseppe Di Vittorio, che avevo copiato: «Le perdite materiali dei contadini spossessati furono enormi, in compenso, un notevole profitto trassero dal decreto i grandi proprietari, i quali vivevano nelle grandi città e mai avevano visto i “loro” terreni». Come se lo Stato ti desse il diritto di costruirti casa su un terreno demaniale e te lo revocasse a edificazione avvenuta, riprendendosi terra e casa, ma lasciandoti il mutuo da pagare.

Oggi, sulla Murgia, a volte sembra che abbia nevicato d’agosto: si vede la terra di alcuni vigneti d’un bianco fuori posto: sono pietre sfarinate, le ultime superfici non bonificate sono adesso percorse da macchinari potentissimi, che tritano i sassi e li riducono a ghiaia. Uno scempio, ma quell’opera dei matti, per cui tanto sudore e tanto sangue sono stati versati, può dirsi compiuta. E qualcuno può permettersi di poetare sui muretti a secco che segnano la regione come una ragnatela: non sempre indicano un confine; erano strumento per attrarre umidità a beneficio di una terra che non può chiedere acqua ai fiumi, alla pioggia d’estate. La porosa e scabra superficie dei sassi fa condensare l’umidità della notte e la lascia percolare nella terra. La condensazione notturna del vapore acqueo apporta sino a dieci volte più dell’umidità che scende con la rugiada e penetra nel terreno per una decina di centimetri, tanto da «gareggiare per abbondanza» ricorda Friedrich Vöchting, in La Questione meridionale «con una lieve pioggia». Quei perimetri petrosi sono come un dito bagnato nella saliva che scorra sulla terra: più densa la ragnatela, maggiore il sollievo trasmesso alle radici di quanto, nei pressi, è a dimora.

Gaetano Salvemini si divertiva a prendere in giro certi supponenti esperti che volevano insegnare ai contadini del Sud come far fruttare i campi.

E allora non poteva conoscere, Salvemini, quanto antica fosse questa sapienza. Lo scoprii (come ho raccontato altrove), quando mi appassionai ai templi megalitici dell’arcipelago maltese alla Grande Madre, venerata, con nomi diversi, dalle popolazioni mediterranee preistoriche (in Calabria, si chiamava Italia). Sono templi che hanno forma di utero, eretti con macigni di impressionante dimensione e peso: meraviglia che architetti di cinquemila anni fa abbiano portato a compimento tali progetti. Il popolo che costruì queste basiliche era ancora all’età della pietra, ma la sua civiltà era già più raffinata di quella dell’età del bronzo, apparsa secoli più tardi, quando l’arcipelago era ormai disabitato e di quel popolo non restava più nulla.

Che fine aveva fatto? Un mistero, mi resi conto, solo apparente. Avevo appena letto di come era finita la civiltà dei polinesiani dell’isola di Pasqua: per scolpire, trasportare ed erigere colossali statue di divinità o eroi, fu necessario abbattere l’intera vegetazione dell’isola, per realizzare strumenti, rulli, leve. Quei lavori tenevano unito il popolo, a spese del futuro, perché quando non ci furono più un albero e uno scopo comune, la gente dell’isola si divise e quasi si autodistrusse (si sbranarono, letteralmente, fra di loro), con una ferocissima guerra civile.

La fine del popolo della Grande Madre maltese non sembra sia stata altrettanto cruenta: abbandonò l’arcipelago (mentre dall’isola di Pasqua era impossibile fuggire), che rimase privo di vegetazione e abitanti. La terra, ormai spoglia, fu desertificata da piogge e venti, che asportarono lo strato fertile, mettendo a nudo la roccia carsica, che ingoia l’acqua e non la trattiene.

Malta, Gozo e Comino restarono vuote per circa cinquecento anni, finché non vennero ripopolate da genti capaci di trarre alimento e vita persino da quella sorta di teschi che erano diventate le isole maltesi. E si trattava, appresi con stupore da The story of Malta, del professor Brian Blouet, di «people» che «probably came from the heal of Italy»: gente che probabilmente venne dal calcagno dell’Italia. Pugliesi. Forse gli unici, già allora, a conoscere tecniche di aridocoltura tali da rendere fruttifera una terra che altri avevano abbandonato, perché ormai sterile, e più nessuno, in Mediterraneo, aveva voluto occupare.

È così che di un deserto si è fatto un orto, da noi. A prezzo di una quantità di lavoro disumana, spesa per generazioni. Finché non avvenne il miracolo, un secolo fa: arrivò l’acqua. E la Puglia divenne altro.

Ma Peppinello non aveva studiato la storia, non sapeva delle tante volte che i contadini del Sud erano stati illusi e gabbati; e continuava a condire la sua ambizione di una sentenza che gli suonava giusta: «La terra sarà di chi la lavora. La mia». Il padre e gli altri che lo sentivano parlare così, lo avevano pensato pure loro da giovani. Poi, la saggezza li aveva consegnati all’altra, più dura sentenza, che non sarà stata giusta, ma funzionava da sempre: «Le cose stanno così; e così restano». E continuavano a far fruttare la terra per il padrone assente. “Gli passerà” pensavano. Trovavano giusto che lui lo desiderasse, ma i padroni avevano la terra e loro le braccia; grati a chi le affittava, a giornata. Quanti lo trovavano ingiusto e cercavano una diversa, più larga speranza, dovevano alla fine rassegnarsi o andarsene. Si cresce, si capisce come va il mondo. «La mia famiglia ha lavorato la terra sin da quando il Signore ha detto: “Zappate”. Ma [...] noi non abbiamo mai posseduto un pezzo di terra nostro», riferì un bracciante di Stefanaconi, nel Catanzarese, al sociologo italo-americano Joseph Lopreato, autore di Peasants no more (Mai più contadini).

Ma Peppinello non voleva capire, né emigrare, come gran parte dei nostri cugini: «Questa terra la conosco. Le altre, che ne so?». Un legame che veniva prima della ragione; io, superficiale, lo attribuivo a tante cose, tutte sbagliate: la ristrettezza dell’orizzonte (scendere in paese dalla campagna era già varcare un confine, per lui, vedere il mondo); alla sudditanza che aveva sedimentato nell’animo dei contadini l’idea che appartenessero alla terra come le piante; e chi aveva la terra e le piante aveva anche loro. Insomma, banalità. Ricordo un sabato sera che Peppinello venne in paese, a Gioia: io, mingherlino, gli trotterellavo accanto, mentre lui pestava il marciapiede, come se gli scarponi da lavoro affondassero nella terra. Si era messo “il vestito”, ma i pantaloni non erano cresciuti con lui, e la giacca teneva eroicamente i pezzi insieme, nonostante le cuciture sotto sforzo. Mi incuriosiva che, nel fare il passo, non distendesse completamente la gamba, conservando un angolo (una riserva di elasticità per gli accidentati suoli campestri?); e le possenti spalle oscillassero in avanti, nell’incedere, come un blocco unico, destr-sinistr-destr-sinistr. Sembrava andasse a litigare. Attraversata la piazza, mio cugino si affacciò muto all’uscio di un circolo, finché fu notato: «Padrone...» mormorò. E il padrone uscì, con in mano ancora le carte da gioco. «Padrone (e Peppinello ne disse il nome, che non ricordo; N.d.A.), se mi potete anticipare...» Il padrone si girò verso i suoi compagni di tavolo, con un sorrisetto e un cenno del capo, trasse dei soldi dalla tasca: «Ti bastano questi, per ora?», e tornò a guardare verso gli altri “signori”. «Va bene. Grazie, patro’.» Io non avevo più traccia di saliva in bocca, avvampavo di rabbia e umiliazione. E più ancora, quando seppi che quell’“anticipare” non riguardava un lavoro da fare, ma uno già da tempo fatto e non ancora pagato. Peppinello, invece, tranquillo e contento: «Falli fare,» mi disse, vedendomi così turbato «non sanno che mi prenderò la loro terra». E gli ridevano gli occhi.

Smisi, gli anni dopo, di andare “a spezzare l’aria” a Marzagaglia, che per me divenne, in ogni senso, “il mondo di ieri”, quello rimasto indietro, parte di una storia residuale, esclusa dai nuovi tempi. Stavo per entrare in quel confuso ribollire di fermenti che fu il ’68, con lo sguardo a cose lontane, che sembravano più chiare e possibili, perché lontane. Stavo per dirmi, come tanti, che bisognava cambiare il mondo, emendare gli errori dei padri, ritrovare l’equilibrio con la natura e il prossimo, aiutati, magari, dalle filosofie orientali, pareggiare gli squilibri fra sfruttatori e sfruttati. E se ti venivano dei dubbi, ascoltavi Dylan, Baez, più tardi De Andrè e ti passavano. Prima o poi, qualcuno avrebbe scoperto da che parte cominciare e lo avremmo fatto. Non lo scoprirono, non lo scoprimmo, mentre Rino Gaetano sentiva, prima di tutti, che «il tempo passava, sulla nostra età». Qualcuno provò a sfondare i dubbi a colpi di P38, qualche altro li iniettò in vena. I più, come me, dovettero risolvere problemi di bollette e di cuore: il ’68 fu sentimento che volle farsi politica; perse molto sentimento e sbagliò molta politica.

Peppinello lo persi di vista per trent’anni (non è strano: ho oltre cento cugini, fra quelli di sangue e quelli acquisiti). Anni dopo, accompagnai da lui mio padre, ormai in quella fase dell’esistenza che chiede di salutare i posti della propria vita. E scoprii che Peppinello non aveva girato il mondo, per conoscerlo: lo aveva cambiato. Quella storia della secolare sottomissione e povertà contadina l’aveva smentita: la masseria di un suo ex “padrone” era adesso di chi ci lavorava, la sua. Altre cose di possidenti distratti erano divenute sue: abbandonavano la campagna (chi ci credeva più: era un mondo ormai vinto; i signori vivevano altrove, a far carriere moderne nell’industria, nell’università, nella pubblica amministrazione e nelle professioni nobili), lui subentrava.

Ma nel momento decisivo, quello pur tanto atteso, Peppinello ebbe timori, chiese consiglio al nostro cugino più anziano, Nicola: «Il padrone vuole 30 milioni, per la masseria; non ce la farò mai!». Nicola è saggio, pesa i caratteri. «Non è ai soldi che devi pensare, ma alla tua volontà: quanto la vuoi quella masseria?» «A ogni costo, Nico’, ma 30 milioni...» «Se 30 milioni sono troppi, allora non la vuoi a ogni costo» ragionò Nicola. Peppinello capì e la mattina dopo, andò dal padrone. «Ieri 30, oggi 60 milioni» si sentì dire. E Peppinello firmò.

Continuava a levarsi che era ancora buio; faticava più dei suoi dipendenti, più delle sue bestie. Era fatto di legno e pietra, come suo padre; ma lui aveva ambizione e progetto, e quella resistenza animale al lavoro non la svendeva, doveva rendere a lui. Tornava che era buio, maledicendo il sole che gli rubava la giornata. Guidava la famiglia con dedizione e durezza; la sottomise, quasi con ferocia ma con l’esempio, alla sua religione della fatica. Chissà come, aveva sviluppato gran gusto e una insospettata sensibilità al bello, e fece restaurare, con rispetto dell’architettura e dei materiali, masseria e casamenti che acquisiva.

Un giorno, mise “il vestito” e scese a Gioia. Portò a Nicola un po’ di cose buone di campagna, della masseria. E gli consegnò la sua vittoria, con quel suo modo sincopato e pastoso di parlare: «Nico’, so’ diventat il più gran all’vator d’ Marzagaje».

Nessuno ricorda di averlo mai visto malato. Gli dei dovettero aggredirlo con una invincibile forma di cancro, per averne ragione. Lui lottò infuriato, si lamentava come un bambino, incattivì: «Perché a me? Perché mo’?». Gli serviva tempo, doveva concludere le cose iniziate e poi ce n’erano altre... Il nemico gli succhiava gli ultimi fiati e lui dava ordini, anche per il futuro, programmava i lavori, ché l’opera non andasse a male, in sua assenza, si badasse agli armenti. È morto a 54 anni.

Io me la ricordo com’era quella terra; e ho visto cos’è diventata: ci si vergognava di dire di abitare nei trulli; le masserie secolari erano in declino, spesso in malora, chiuse, sino a che intemperie e curiosi (io stesso, per esempio, a San Basilio) sfondavano le porte marce, per entrare in quei mondi abbandonati, respirarne l’aria di storie perdute. Vi si appartavano amanti clandestini in una sorta di albergo dei poveri, o signore di strada, con i loro clienti, cercando gli ambienti in cui i camionisti non avessero lasciato i loro bisogni. Quelli che furono spazi immaginati e temuti, inaccessibili se non ai padroni e alla loro servitù, erano ridotti a deposito di merda e preservativi.

Oggi sono regge (quella di San Basilio è a cinque stelle), il trullo lo vorrei, ma non me lo posso permettere; chi può elegge un suo eremo (si fa per dire) di lusso, dove prima si nascondevano gli ultimi. La riscoperta di se stessi ha portato alla valorizzazione di quello che ci apparteneva. E, spesso, sono stati gli altri a dircelo, a farcelo scoprire. Poco importa, purché lo si sappia.

Qualcuno, che pensavamo alla deriva su un relitto della storia e dell’economia, lo aveva sempre saputo: Peppinello, salvando il suo mondo, ne aveva capovolto le leggi in una generazione, consegnandolo a suo figlio, mentre noi, avvertiti, “studiati” e protesi nel futuro, cercavamo altrove, ovunque nel mondo, tranne nel nostro, chiedendoci da dove cominciare. E dopo, dove avevamo sbagliato.

Aprile Pino - 2011 - Giù Al Sud
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