19

FUCILI PARLATI, FUCILI SPARATI

La Lega minaccia la secessione; la Sicilia può farla. Se ne accorge Franco Bechis, vicedirettore di «Libero»: scopre che se l’isola se ne va per i fatti suoi, l’Italia scende dall’automobile e va a piedi. Ogni sparata di Bossi sull’uso delle armi riempie giornali e telegiornali e si dimentica che se lui fa “pum!” con la bocca, i siciliani, per l’autonomia, spararono davvero, crearono un esercito di volontari, attaccarono le caserme dei carabinieri, tesero agguati ai militari, sostennero una battaglia campale. Il totale dei morti (ci furono carabinieri fatti prigionieri e fucilati; almeno un rivoltoso sarebbe perito sotto tortura) forse resterà ignoto: fra cento e duecento.

Le forze armate italiane dovettero dislocare interi reparti nell’isola, assediarono città, compirono rastrellamenti fra la popolazione civile; ricorsero alla tortura, agli omicidi mirati; e, segretamente, a trattative con gl’insorti, per dividerli.

Ci furono più che sospetti sull’intervento, con ambiguità mai chiarite, di potenze straniere come Gran Bretagna e Stati Uniti (tramite militari polacchi, giunsero armi agli autonomisti). E mentre, a gennaio del 1946, ancora si contavano i morti del conflitto mondiale, il padre di un militare di Treviso, sottotenente Enrico Piotti, ucciso in battaglia dagl’indipendentisti, commentava incredulo ai funerali, che suo figlio, scampato al gran conflitto, era caduto in «guerra contro la Sicilia!».

Poi, nella dimenticanza e banalizzazione organizzata, tutto si ridusse al bandito Giuliano e al massacro di Portella delle Ginestre (considerata la prima strage di Stato; però, secondo alcuni, più che contro il comunismo, contro l’indipendentismo siciliano). Ma allora, la vicenda era ormai alla fine. La soluzione riuscì a trovarla in tempo Alcide De Gasperi, e fu politica.

Conquistarono così, i siciliani, la loro autonomia, garantita da uno statuto speciale, che è parte integrante della Costituzione italiana; e se ora dovessero renderne operativi, come dicono, poteri e possibilità, diverrebbero, di fatto, uno Stato indipendente, con conseguenze inimmaginabili, ma tutte a norma di legge; e di legge costituzionale!

Bechis si limita alle conseguenze di carattere energetico. Ma è già tanto; ed è tantissimo che qualcuno cominci a pensarci: «Se qualche altra regione del Sud volesse togliere il disturbo,» scrive «è probabile che asciugatesi le lacrime con i fazzoletti di rito il resto degli italiani starebbe meglio. Dalla secessione quasi tutte le regioni del Sud avrebbero da perdere, e il resto d’Italia si troverebbe più ricco (ci sarebbe da obiettare, ma andiamo avanti; N.d.A.).

Con l’addio della Sicilia sarebbe invece ben altra musica [...]. Pochi lo sanno, ma la Sicilia ha in mano le chiavi dell’auto italiana. Lì si raffina il 40 per cento della benzina e del gasolio utilizzati nel continente. Non solo: Lombardo (primo presidente autonomista della Regione Siciliana; N.d.A.) è in grado di spegnere luce, gas e riscaldamento in buona parte d’Italia. Un po’ perché lui produce energia in sovrabbondanza e il 12 per cento lo gira alle altre Regioni. Ma soprattutto perché in Sicilia transita il più grande metanodotto marino italiano che trasporta 25 miliardi di metri cubi di gas e passa di lì pure il gasdotto libico che attualmente è chiuso per guerra» (l’articolo è stato pubblicato durante la rivolta contro il dittatore di Tripoli).

Questa situazione non è solo siciliana, perché la Puglia, per dire, produce più del doppio dell’energia che consuma (ma, come non bastasse, vorrebbero regalarle pure una centrale nucleare nella più bella zona umida della regione, Torre Guaceto); e la Lucania ha i più grandi giacimenti petroliferi non sottomarini d’Europa. Ricchezza che passa sulla testa delle regioni in cui è prodotta e va quasi totalmente a beneficio altrui. Ma mentre la Sicilia può bloccare l’esproprio (tale è, poche chiacchiere) delle sue risorse, le altre regioni del Sud no, perché non hanno i poteri che lo statuto speciale riconosce all’isola. Ma cos’accadrebbe in Lucania, in Puglia (dove si scoprirono, negli anni Sessanta, i più vasti giacimenti di gas d’Europa, nel Subappennino Dauno, quaranta miliardi di metri cubi, trasferito al Nord, senza alcun vantaggio alla popolazione locale), cosa accadrebbe se vedessero la Sicilia gestire in proprio quello che loro sono costretti a cedere per niente (o quasi, nel caso del petrolio lucano; e del gas calabrese nelle acque di Crotone)? A norma di legge, la Calabria con il suo gas, la Lucania con il suo petrolio, la Puglia con il gas e il petrolio adriatico e via espandendo, potrebbero chiedere di aggregarsi, previo referendum, alla Sicilia (com’è accaduto con alcuni ricchi comuni veneti, desiderosi di diventare trentini, per essere ancora più ricchi). In tal modo, le norme dello statuto che tutelano la Sicilia si allargherebbero come un ombrello, su tutto il Sud; la cui ricchezza smetterebbe di migrare al Nord, in cambio di insulti.

Oltretutto, non sarebbe che un ritorno alla propria storia: è già successo che la Sicilia, conquistata dal Sud continentale, estendesse, poi, il suo governo al Sud continentale, con Federico II. «Non siamo così forti da dominare Roma, ma siamo tanto forti da non farci dominare da Roma» dice un principe siciliano allo zio del piccolo (allora) Nicola Zitara (Memorie di quand’ero italiano.) Figurati Milano.

Il Nord, ciò avvenisse, sarebbe finalmente libero di farsi amministrare dal Trota, di studiare secondo i programmi padani della sicula sua madre, circondati dalla stima internazionale, specie scandinava, conquistata da Borghezio.

Ma l’elenco dei danni, se la Sicilia si staccasse, è ancora più lungo, ché «se uscendo dalle pastoie legali e burocratiche che finora li hanno fermati, venissero realizzati i due rigassificatori previsti a Porto Empedocle e a Priolo,» continua Bechis «quasi la metà del metano consumato in Italia verrebbe dalla Sicilia. Insomma, prima di chiudere i ponti con una regione così, l’Italia dovrebbe pensarci su due volte. Lombardo ieri ha spiegato che se facesse la secessione, riscuoterebbe lui in loco quelle accise sui prodotti energetici che attualmente finiscono nelle casse del Tesoro italiano. È vero. E si tratta di dieci miliardi di euro all’anno. Una somma che compenserebbe ampiamente quel che la Sicilia verrebbe a perdere staccandosi dal resto d’Italia.»

Prima di andare avanti, provate a immaginare cosa rimbomberebbe nelle orecchie degli italiani, se (tutto al contrario) dieci miliardi di euro di accise per petrolio estratto in val Padana venissero versati, ogni anno, in Sicilia; e, contemporaneamente, andassero alla Lucania proventi e tasse di giacimenti petroliferi non off-shore più grandi del continente scovati, metti, fra Asti e Vercelli, e non fra Potenza e Matera; e il gas del delta del Po provocasse disagi ed emigrazione fra Veneto ed Emilia, per arricchire la Puglia. E immaginate che un ministro siciliano, in Veneto per inaugurare qualcosa, dicesse: «Fatevele da soli, le strade, come abbiamo fatto noi, senza chiedere niente a nessuno!». (Lo ha detto il ministro veneto Galan, in visita ai siciliani.) Infatti, i soldi del petrolio e del gas meridionali non li hanno chiesti, se li sono presi e basta! E si sono presi anche i soldi per le strade siciliane e calabresi, 3,5 miliardi di euro, con cui (devo ricordarlo ancora?), Tremonti pagò l’Ici delle prime case di lusso a tutta Italia (continuate da soli i compiti a casa per l’esercizio del muscolo democratico: immaginate se Calabria e Sicilia si fossero presi i soldi per le strade del Veneto, poi un ministro di Catanzaro avesse detto ai veneti: fatevele da soli, le strade, come abbiamo fatto noi...).

E ora seguiamo Bechis: alla Sicilia, «nel bilancio provvisorio per il 2011 approvato in attesa della legge finanziaria sono previsti trasferimenti da parte dello Stato centrale per meno di 3 miliardi di euro, in gran parte legati alla spesa sanitaria. In quella somma non sono considerati però altri costi del governo centrale, che paga con fondi suoi buona parte del sistema di istruzione siciliano, così come l’ordine pubblico e la giustizia. Secondo uno studio (contestato dai siciliani) della Cgia di Mestre che ha diviso per abitante la spesa pubblica regionalizzata censita dalla Ragioneria generale dello Stato, ogni siciliano costa al resto di Italia 550 euro per la sanità, 681 euro per l’istruzione e 130 euro per ordine pubblico e giustizia. Ma anche mettendo insieme tutte queste voci, la bilancia penderebbe dalla parte dell’isola: dieci miliardi di euro di accise in entrata e 6 miliardi di euro di trasferimenti statali per sanità, istruzione e ordine pubblico a cui rinunciare. Ne avanzerebbero quattro, e sono ragione più che valida per non prendere sottogamba le parole di Lombardo».

Significa che, con quel che avanzerebbe, la Sicilia potrebbe costruire un ponte sullo Stretto ogni diciotto mesi; oppure, con l’avanzo di un solo anno, comprarsi l’Alitalia. E forse molto di più, perché non è finita, visto che «c’è spazio perfino per discutere se le accise che insistono sulle produzioni essenzialmente dell’Eni di Paolo Scaroni a Priolo, Gela, Porto Empedocle, Milazzo, Augusta, Melilli e Ragusa, debbano essere incassate tutte dalla Sicilia o parzialmente divise con il governo centrale che quegli impianti ha agevolato e in parte finanziato di tasca sua. Ma il contenzioso non sarebbe di facile soluzione: da anni è in corso già un braccio di ferro fra Sicilia e Tesoro italiano per una divisione più equa di quella torta. Perché se i finanziamenti li ha fatti lo Stato, i danni ambientali li ha sopportati la regione. Finora a compensazione sono arrivati a Palermo e dintorni qualche centinaio di milioni all’anno. Con una rottura,» avverte Bechis «l’Italia avrebbe solo da perdere.»

E la Sicilia solo da guadagnare. Almeno finché si parla di soldi. Bechis non ha bisogno di spingere oltre il discorso, per dimostrare quanto dice. Ma conviene fare un passo ancora in quella direzione: con tali sopravanzi, la Sicilia potrebbe finanziarsi l’espansione industriale, producendo merci che farebbero concorrenza a quelle del Nord in loco (dove arriverebbero sui mercati a chilometri zero e non dopo 1.200 e più) e altrove, facendo fruttare la posizione centrale nel Mediterraneo; in più, come altri Paesi ex colonie, quale l’India, potrebbe puntare sulla più recente tecnologia informatica, lasciando al Nord quella del secolo scorso, su cui ancora insiste (auto, frigoriferi...): il necessario, la Sicilia ce l’ha in casa, perché alle porte di Catania c’è il più grande centro di ricerca informatica d’Italia.

Il sentimento siciliano per l’autonomia non è una trovata di sfaccendati, come la Padania della Lega Nord. L’autonomia è figlia vera di storia vera della Sicilia, che non deve inventarsi una identità territoriale dai confini a geometria variabile detta Padania (mai esistita).

La Sicilia («Un’isola vasta quasi come il Belgio e con una civiltà più antica di quella di Roma» diceva Mario Scelba, potente ministro democristiano dell’Interno) divenne nazione dall’incontro-scontro delle nazioni madri d’Occidente e dell’Oriente prossimo; fu provincia dell’impero (la prima) con i Romani, dopo essere stata l’America dei Greci; Paese potente con gli Arabi e i Normanni, gli Svevi. L’isola ha passato e cultura di nazione e storia propria, integrata con quella della penisola, ma non sempre. E tutto questo è sentimento e risentimento, palese o inconsapevole, nell’animo dei siciliani. Altro che ampolle del dio Po, per una distesa territoriale che vedrebbe insieme i veneti, fieri della propria storia opposta a quella dei lombardi, i quali ebbero sorti e interessi a est e a nord, persino a sud, ma poco all’ovest dei piemontesi, le cui radici erano in Francia.

Fu facile indurre i siciliani ad appoggiare l’iniziativa garibaldin-britannico-piemontese, perché aspiravano a governarsi da soli; basterebbe il piccolo elenco delle intemperanze isolane, nel solo Ottocento, riportato da Mario Spataro in I primi secessionisti, nei «moti costituzionalisti del 1812 e in quelli antinapoletani del 1820, 1824 e 1837 (c’è da aggiungere la fallita sollevazione dei messinesi del 1847, malconcertata con i reggini; N.d.A.). Nel 1848 i siciliani, mossi dalle mai sopite aspirazioni indipendentiste e dalla ventata rivoluzionaria che percorreva l’Europa [...] allontanarono i Borbone dall’isola e offrirono la corona siciliana ad Amedeo d’Aosta che la rifiutò. Tornato nel 1849 il dominio napoletano, si ebbero le sollevazioni del 1850, 1854, 1856 e 1859».

Con queste premesse, nel 1860, Garibaldi fu il cerino sulla paglia, ma la fiammata durò poco, ché i siciliani si accorsero presto di essere stati usati: persero i privilegi di cui godevano con i Borbone, il tenore di vita crollò; le tasse, che «erano meno di un terzo di quelle piemontesi», si moltiplicarono: per i sindaci che non le riscuotevano e per quelli che si dimettevano, per evitare di riscuoterle, fu sancita la condanna a morte (la soluzione per tutto!); le casse pubbliche svuotate; fu imposta, con fucilazioni in massa e rappresaglie contro interi paesi (vedi parentesi precedente), la leva militare obbligatoria, che prima non c’era. E l’isola tornò a insorgere a soli tre mesi dallo sbarco dei Mille a Marsala, non solo a Bronte; e non solo a Bronte Nino Bixio risolse con stragi liberatrici e patriottiche (come da scorse parentesi: «Dopo Bronte, Randazzo, Castiglione, Regalbuto, Centorbi e altri villaggi lo videro, sentirono la stretta della sua mano possente, gli gridarono dietro: Belva! Ma niuno osò muoversi» riferisce Cesare Abba, in Da Quarto al Volturno); l’isola si ribellò ancora nel 1863, nel 1866, nel 1891 e poi nel 1893-1894 con i Fasci siciliani.

La storia di questa aspirazione isolana è costellata di episodi mai chiariti, che con grossolana, ma non infondata approssimazione, si possono chiamare “delitti di Stato”; a cominciare da quello di Giovanni Corrao, uno dei principali attivisti (con Rosolino Pilo, Francesco Crispi, Giuseppe La Farina) che prepararono la spedizione dei Mille e poi ne fu uno dei capi. Ma quello che accadde dopo non dovette piacergli perché, generale garibaldino inquadrato nell’esercito nazionale con il grado di colonnello, si dimise e tornò in Sicilia, dove, nel 1863, fu ucciso da tre falsi carabinieri. «Mafia», si disse (fu la prima volta, pare, che la parola comparve in una indagine ufficiale). In realtà, lo avrebbero assassinato «per ordini venuti da ambienti filogovernativi piemontesi che lo accusavano di organizzare un moto separatista isolano e di minacciare l’unità della patria» riferisce Spataro (Matteo Collura, in Qualcuno ha ucciso il generale, narra la vicenda in forma romanzata). Lo scambio di favori irriferibili fra poteri dello Stato e potere criminale, allora in embrione, era cominciato (con Salvatore Giuliano accadrà qualcosa di analogo e per motivazioni analoghe. E Bernardino Verro, uno dei capi della fallita insurrezione dei Fasci siciliani, fu tolto di mezzo per mano mafiosa nel 1915, nel Corleonese, leggi in Storia della Mafia, di S.F. Romano. Sarà che «la storia si ripete», ma così tanto?).

Tre anni dopo, 1866, esplose il malumore, per la miseria (lo ammise pure il generale Raffaele Cadorna, che domò l’insurrezione alla testa di un esercito di 40.000 uomini) a cui era stata ridotta l’isola, con sistemi di tipo coloniale (ferocia, disprezzo e spoliazioni). La secessione armata fallì per poco; la flotta britannica, al largo, era pronta a intervenire per stendere sugl’insorti il protettorato di sua maestà. Fu “Il Sette e mezzo”, dal numero di giorni di vera e propria guerra che durò. Palermo fu conquistata dai ribelli, che divennero 18.000; e 35.000 nella provincia (in Sikeloi, blog sulla memoria siciliana, si può leggere quello che scrive Andrea Camilleri, in proposito). I tentativi di riconquista delle forze armate nazionali furono respinti uno dopo l’altro; nei paesi dell’interno le caserme dei carabinieri venivano espugnate e i militari passati per le armi. In quattro, a Ogliastro, dopo aver visto cosa era stato fatto ai loro commilitoni, «si suicidarono per non cadere nelle mani dei ribelli» riferisce Spataro. A Misilmeri l’episodio più atroce: ventuno carabinieri uccisi («si disse poi che i loro corpi, fatti a pezzi, erano finiti nelle macellerie»).

L’arrivo della flotta e di reparti sempre più numerosi di bersaglieri, fanti e artiglieri capovolse le sorti. Le navi bombardarono Palermo, radendo al suolo i quartieri popolari (come avevano fatto a Gaeta, cinque anni prima e, ancora prima, a Genova; si trattava della stessa flotta che, quello stesso 1866, con la fuga dinanzi alla inferiore flotta austriaca, a Lissa, svergognò per sempre la nostra Marina). La repressione fu spaventosa, con esecuzioni in massa, fosse comuni. A Misilmeri, i carabinieri non si fermarono all’eliminazione dei ribelli: si concessero il ricorso allo stupro etnico sulle donne della città.

La ribellione costò qualche centinaio di morti fra i militari e qualche migliaio fra gl’insorti e la popolazione civile (circa mille fucilati solo a Palermo). Numeri più attendibili, ormai dovrebbe essere difficilissimo riuscire a recuperarne, perché scoppiò un’epidemia di colera, portata dai soldati, che fece più di 50.000 morti, forse 65.000 (le cifre divergono).

Quali che fossero le cause scatenanti delle rivolte (quella dei Fasci, a fine secolo, costò altre centinaia di morti), sempre «alle questioni sociali e costituzionali» dice Spataro «si mescolarono aspirazioni indipendentiste e, talvolta, federaliste». Se Spataro è osservatore di destra (sostiene il diritto dei nazisti alla rappresaglia delle Fosse Ardeatine e condanna il processo di Norimberga), il più fertile pensatore comunista, Antonio Gramsci, non dice cose diverse (e Spataro lo ricorda): «Lo strato sociale unitario è in Sicilia molto sottile: esso padroneggia a stento forze latenti demoniache che potrebbero anche essere separatiste»; mentre, per il fondatore del Partito popolare, don Luigi Sturzo, «il separatismo fermentò sotto il fascismo» (per l’ulteriore riduzione dell’autonomia, con la soppressione di enti locali e dei poteri del Banco di Sicilia, i cui 460 milioni di lire in oro furono trasferiti alla Banca d’Italia), «e si manifestò apertamente durante l’occupazione alleata».

Forse, la virulenza con cui la voglia di autonomia si ripropose, fu determinata anche dalla maggior compressione subita negli anni della dittatura (i militanti separatisti, primo movimento nato nell’Italia liberata, divennero 480.000, secondo un rapporto del ministero dell’Interno: 14 volte gl’iscritti alla Dc, quasi 20 volte quelli del Pci); e dal fatto che, per sei mesi, gli alleati tennero la Sicilia staccata dal resto del Paese, ridotto a quel Regno del Sud, con capitale Brindisi, in cui si era rifugiato re Umberto, coraggiosamente in fuga dinanzi al nemico. Questo «ebbe notevoli effetti psicologici sui siciliani che si resero conto, come era solito dire lo storico catanese Sandro Attanasio, di potere “vivere senza Italia”» scrive Spataro. Per qualche tempo, poi, agli abitanti dell’isola si richiese il visto di polizia per passare lo Stretto (umiliazione a parte, quel visto sapeva di passaporto, di “espatrio”...).

Il potere post-fascista, in Sicilia, fu separatista (si professò autonomismo da destra a sinistra e fiorirono progetti, dalla restaurazione monarchica con i Borbone, alla costituzione di una repubblica socialista): quasi tutti i sindaci erano separatisti e separatista fu la mafia (fino a che non divenne chiaro che conveniva diventare democristiani). Circa le mire straniere sull’isola, quelle britanniche erano figlie di secolari e inappagati desideri e coincidenze contemporanee (per chi ci crede...): capo dell’indipendentismo siciliano era l’anglofono e anglofilo Andrea Finocchiato Aprile (io sono pugliese, solo Aprile, nessuna parentela), con solide amicizie nella diplomazia inglese, specie con lord James Rennell Rodd (di cui fu spesso ospite), il cui figlio Francis divenne responsabile del governo alleato provvisorio in Sicilia; apparteneva ai servizi segreti britannici il professor Antonio Canepa, capo dell’Evis, l’esercito indipendentista siciliano, poi ucciso a un posto di blocco dai carabinieri; fu persino teorizzata la possibile adesione dell’isola al Commonwealth, il mercato comune britannico. Mentre gli statunitensi usarono mafia e separatisti (non sempre c’era distinzione fra l’una e gli altri) in funzione anticomunista: il capo dei servizi civili, Charles Poletti aveva il boss italoamericano Vito Genovese quale primo collaboratore e quello della mafia locale, don Calogero Vizzini, per assiduo frequentatore («Quest’isola potrebbe essere considerata casa nostra» scrisse Eisenhower in un suo rapporto, secondo quanto riportato in I primi secessionisti; e più avanti si vagheggiò di annessione agli Stati Uniti, una nuova “stella” della bandiera, la quarantanovesima). Come dire che, ogni volta che la Sicilia si è pensata sul punto di andarsene da sola, c’è sempre stato chi era pronto ad aiutarla, per prendersela. Detto diversamente: parrebbe destino dell’isola consegnarsi a qualcuno, per liberarsi di qualche altro. «L’esperienza di tante tirannidi ci ha fatto finalmente capire questa grande verità» scrisse Antonio Canepa in La Sicilia ai siciliani: «Tutte le volte che la Sicilia è stata indipendente, tutte le volte che si è governata da sé, è stata anche forte, ricca e felice. Invece, tutte le volte che abbiamo dovuto obbedire ai padroni venuti dal continente, siamo stati deboli, poveri e disprezzati».

Continuo a seguire la ricostruzione di queste vicende fatta da Spataro, perché ne conobbe diversi protagonisti (a partire da Finocchiaro Aprile) e le visse in famiglia: il padre «ebbe la casa piantonata e fu pedinato per settimane, sino a quando, disgustato, non si rivolse al poliziotto pedinatore pregandolo di reggergli la borsa e l’ombrello».

Quando i siciliani videro il sogno separatista annegare nella rinascente Italia, la delusione sfociò in proteste, violenza e un progetto di conquista armata dell’indipendenza; a cominciare dal 1944, ci furono attacchi a uffici pubblici, diversi paesi vennero “espugnati” e retti da comitati rivoluzionari. L’esercito inviò interi reggimenti, «con minacce di bombardare gli abitati» scrive Spataro. «Non è mai stato fatto il conto esatto dei caduti di una parte e dell’altra.»

L’episodio più grave si ebbe a Palermo, dove i soldati spararono sulla folla lanciata all’assalto della Prefettura. Le vittime, secondo i diversi conteggi, vanno da una ventina (e oltre cento feriti) a quasi cinque volte tanto (se ne vietarono persino i funerali). L’intera isola era insorta; nacquero effimere repubbliche comunali, poi riconquistate dall’esercito italiano, anche con intervento di artiglieria e carri armati. Fra gli scontri più duri, con morti e feriti, quelli di Catania, Palma di Montechiaro, Vizzini, Piazza Armerina, Ragusa (particolarmente feroce la repressione), Palazzolo (20 morti, 70 feriti), Comiso (35 morti e 150 feriti, fra ribelli e militari: la battaglia finì, quando l’esercito minacciò di bombardare la città a tappeto).

E, come dopo il 1860, fuorilegge e indipendentisti armati finirono per incontrarsi: i primi furono promossi guerriglieri, i secondi ebbero a disposizione formazioni esperte, già padrone del territorio. La figura di Salvatore Giuliano prevalse su tutti e oscurò la vasta e complessa scena alle sue spalle, perché l’alleanza dei combattenti indipendentisti dell’Evis si estese a molti fuorilegge e loro bande (Rindone, Avila, Rizzo, Cucchiara, Terranova, Madonia, Ferreri, Passatempo, Badalamenti, Zito, Candela, Labruzzo, Mazzola, Genovese, Cucinella, Di Lorenzo, Vitale. Mentre «nessun accordo si ebbe coi banditi Dottore e Molano», riferisce Spataro, perché “comunisti”). I soldati dell’Evis segnalavano la natura politico-irredentista della loro azione in armi, rispettando le norme internazionali, e in particolare la «seconda conferenza internazionale dell’Aja (15 giugno-31 ottobre 1907) che ammetteva, sì, che la guerra potesse essere condotta dai civili, a condizione, però: a) che avessero alla loro testa un comandante responsabile; b) che portassero una uniforme o un segno ben riconoscibile a distanza (i combattenti dell’Evis avevano divisa cachi, con fazzoletto rosso e giallo; N.d.A.); c) che portassero apertamente le armi; d) che si attenessero alle leggi e agli usi di guerra».

Raccontano che fra militari dell’Evis e la banda Avila, per dire, si arrivò a un passo dallo scontro armato, quando, gennaio 1946, i fuorilegge giustiziarono otto carabinieri fatti prigionieri e affidati a loro, in attesa dello sviluppo delle trattative per lo scambio con dei volontari detenuti (e lì terminò la collaborazione con gli Avila). Le armi degli insorti erano sottratte ai militari italiani, ma non solo: c’erano mitragliatrici (alcune potentissime), fucili, pistole, bombe a mano, in dotazione alle forze armate americane, tedesche, britanniche. Sulla provenienza di armi e uniformi «si seppe, in seguito, che la polizia aveva accertato illeciti traffici con una potenza straniera alleata dell’Italia». Uno degli arrestati confessò di averne «ottenute da ufficiali dell’esercito polacco di stanza in Italia». Però, «la strana ma costante collaborazione fra l’Evis e i militari polacchi non è mai stata chiarita da alcuna inchiesta».

Con la morte di Antonio Canepa, capo dell’esercito indipendentista divenne Concetto Gallo (adottò il nome di battaglia di Canepa, “Turri”, ma “Secondo”: come l’Uomo Ombra e Zorro, un nome immortale per più mortali); al suo arresto, gli successe Nino Velis (non “Terzo” Turri, perché “Secondo” era prigioniero, ma vivo), che abbandonò la tattica degli scontri aperti e accampamenti fortificati e adottò quella di guerriglia, in cui si rivelò capacissimo Salvatore Giuliano: caserme, polveriere, reparti militari erano attaccati all’improvviso; ottenuto il risultato (uccisioni, distruzione, catture), ci si dileguava. Fu Gallo ad arruolare Giuliano, raggiungendolo nella sua clandestinità, da latitante a latitante.

Nelle memorie dettate, poi, a Enzo Magrì, dell’«Europeo», Gallo riferì di quell’unico incontro: «Di che cosa parlammo con Giuliano? Per la verità all’inizio parlai soltanto io. Feci quello che si dice l’indottrinamento. Cercai di spiegargli, con parole acconce, in modo che lui le potesse capire, che cosa aveva rappresentato l’Italia, l’unità, per la Sicilia. E cominciai sin dai tempi di Verre. I saccheggi, le spoliazioni, le distruzioni, le amarezze. Gli portai altri esempi: “Hai mai sentito parlare dei cantieri Florio? Ebbene quei cantieri furono chiusi quando, con l’Unità d’Italia, l’industria cantieristica di Florio divenne la Florio-Rubattino”. E lui: “Ah, sì”. “Esisteva in Sicilia una grande industria di ceramica che aveva quattrocento operai. Quell’industria venne acquistata dalla Ginori e subito chiusa. Garibaldi? Anche Garibaldi tradì i siciliani.” Alla fine lui mi disse: “Ma allora che cosa ci hanno insegnato?”. E io: “Il falso”.» Quando si lasciarono, Giuliano, commosso, promise: «Chi tocca a vossia, mori». Morì prima lui, mentre Concetto Gallo uscì vivo dall’unica battaglia campale fra l’esercito italiano e quello indipendentista siciliano.

Alcune operazioni (dall’assalto al treno alla conquista di intere cittadine), suscitarono scalpore: la Montelepre di Giuliano fu presa dopo una notte di combattimenti per le strade e i militari italiani in fuga all’alba, che lasciavano alle loro spalle mezzi e autoblindo in fiamme e non si sa quanti caduti. Arrivati i rinforzi (dal continente continuavano a giungere reparti di fanteria, artiglieria, persino dell’aviazione e la Folgore, la Garibaldi, gli Alpini) si combatté molte ore per espugnare l’altura su cui si era rifugiato Giuliano con i suoi. Ma quando la postazione fu presa, vi trovarono solo un cartello: «Ccà nisciuno è fesso».

Si era creata una situazione che oggi ci è difficile comprendere; ma pure allora, un Paese appena uscito da un ferocissimo conflitto mondiale non capiva la Sicilia, e la Sicilia era sostanzialmente disinteressata a quel che avveniva “in Italia”. Solo il genio politico di Alcide De Gasperi sbrogliò, poi, il groviglio che pareva irrisolvibile.

La reazione militare ai crescenti successi dei secessionisti fu durissima, come si evince da una serie di reportage giornalistici, testimonianze e libri su quei fatti: «lo Stato italiano fece ricorso all’arresto dei familiari dei latitanti e all’occupazione delle loro case, trasformate in dormitori per la truppa autorizzata a “prelevare” denaro, vettovaglie, mobili e suppellettili»; «le campagne erano paralizzate»; «migliaia di persone sono costrette a vivere segregate e asserragliate subendo intimidazioni, ingiurie, prepotenze dei militari che pattugliano i paesi e che hanno collocato nei punti strategici cannoni leggeri, mitragliatrici, mezzi corazzati»; «Stefano Mannino, che fu sindaco di Montelepre in quegli anni, fornisce una serie di impressionanti testimonianze sui sistemi adottati, come il concentramento in piazza dell’intera popolazione in catene per tutta la giornata»; «a Palermo si contarono sino a 2.400 persone detenute in attesa di interrogatorio»; «gli uomini, compresi gli invalidi, i vecchi e gli ammalati, furono strappati dalle abitazioni, legati in lunghe funate e trascinati nei luoghi di raccolta per gli interrogatori [...] giacevano per terra, senza cibo né acqua»; «la tortura era prassi ordinaria [...], colpi scientificamente applicati alle reni o alle piante dei piedi, le diete d’acqua e sale, le scariche elettriche, la torsione dei testicoli e il letto di contenzione [...]. Un tizio si sfogava mordendo lo scroto agli arrestati, un altro dirigeva gli interrogatori ordinando ai subalterni: “Stringigli i coglioni! Ficcagli la bottiglia nel culo! Pisciagli in faccia!”»; «un metodo in voga a Palermo, e riservato ai detenuti “di buona famiglia”, era quello degli scarafaggi in bocca»...

Ma dietro la ferocia, agiva la politica; De Gasperi riuscì a indurre a un accordo segreto i capi del movimento indipendentista, confinati nell’isola di Ponza: in cambio della fine della guerra civile e dello scioglimento delle formazioni militari, la Sicilia avrebbe avuto un’ampia autonomia, garantita da uno statuto speciale, l’amnistia per i reati politici. Alle elezioni per la Costituente, appena due settimane dopo la concessione dell’autonomia, il Mis, movimento indipendentista siciliano, apparve ormai inutile, prese meno del 10 per cento dei voti, e continuò a calare, sino a esser dimenticato. De Gasperi aveva vinto, dove le armi non erano riuscite; la Sicilia era nuovamente “italiana”, tanto che si parlò di “seconda annessione”. Senza il grande statista trentino (terra di confine, contigua a una minoranza linguistica: forse questo lo rese più adatto a comprendere), c’è da chiedersi se la Sicilia non sarebbe divenuta qualcosa di simile a quello che l’Irlanda è stata per la Gran Bretagna.

Questa epopea, nella memoria comune, si riduce al ruspante fascino di Salvatore Giuliano; del quale si può dire che ebbe un percorso, nella sintesi, pari a quello di Carmine Crocco Donatelli, il più grande condottiero della rivolta meridionale all’invasione sabauda del Sud, dopo “lu Sissanta” (il 1860): cominciò come brigante, divenne “partigiano”, ritornò brigante e basta (quasi, nel caso di Giuliano). Nel rispetto della tradizione nazionale, il re di Montelepre morì senza farci sapere come (alle versioni ufficiali, in questo Paese, non crede più nessuno; neppure chi le propala si aspetta ci si creda: si comprano case ai ministri, a insaputa dei medesimi; e noti puttanieri sostengono, senza ridere né arrossire, di riempire di soldi una puttana, per non farle più fare quel mestiere); e chiunque potesse metterci sulla buona strada, ci fece la cortesia di “farsi morire” prima che gli scappasse una parola di troppo: a uno faceva male il caffè, a un altro il piombo... Ci sono rimasti tanti bei soggetti per il cinema e domande, domande.

Tutto sembra finito, anche a guardare a cosa sono ridotti quei furori indipendentisti di massa del post-fascismo che aggiunsero una guerra a una che stava finendo: dopo sessantun anni, nel 2004, il Mis è risorto, ma senza progetti bellici. Nel 1943 generò Evis, l’esercito dei volontari separatisti (come l’Ira, per l’Irlanda, l’Eta per i baschi) e Gris, giovani rivoluzionari indipendentisti, armati pure loro. Oggi l’Evis esiste ancora, ma al momento non impensierisce per la potenza di fuoco, nemmeno verbale. Di area progressista il Fns, fronte nazionale siciliano, nato nel 1964 (edita un giornale, «Sicilia Nazione»); con il Mis, è per l’autodeterminazione dell’isola, ma non esclude un federalismo spinto; dopo vent’anni, dal Fns, per gemmazione, è sorto Terra e Liberazione, di orientamento marxista ma pragmatico (si è alleato con l’Mpa, movimento per l’autonomia che ha conquistato il governo della Regione, con Raffaele Lombardo). L’Altra Sicilia-Antudo (sigla che richiama un motto dei Vespri siciliani: Animus Tuus Dominus, il coraggio è il tuo signore), molto combattiva, ha sede a Bruxelles, dove edita un giornale, «l’Isola», e ha un comprensibile sguardo particolare per i siciliani all’estero; poi: Partito del popolo siciliano; Lsg-Gis, Lega giovanile separatista-Giovani indipendentisti siciliani; Fasg, Fronte azione siciliano giovanile; Comitato giovanile indipendentista e altri gruppi, sempre più piccoli, sino a quelli che si identificano con il loro creatore. «C’è uno,» racconta Nino Sala, del Partito tradizionalista siciliano «che negli incontri comuni, quando si inizia a parlare di questioni che riguardano tutto il Sud e non la sola Sicilia, si alza e abbandona la riunione: “Noi ce ne andiamo”. “Noi, chi?” “Io” dice, e pronuncia la sigla del suo, ma proprio solo suo, partito.» La sorella ultrasettantenne del comico Franco Franchi, sicilianista sfrenata e simpaticissima, interviene a sostegno di ogni manifestazione dei gruppi isolani e distribuisce, come santini, le foto del fu fratello.

Suonano folcloristiche queste noticine? Eppure sono spia di qualcosa di grande e forte, a cui il Paese non presta attenzione, perché il Sud è perdita di tempo, interessa poco... Be’, la cosa grande e forte è questa: ormai, la politica, in Sicilia (avviene lo stesso pure altrove, al Sud, ma con altre dimensioni e velocità) non è più possibile, se non sicilianizzata. E non è la stessa cosa della Lega Nord, banale fascismo camuffato da localismo, come insegna (c’è il video su YouTube) Borghezio ai camerati francesi. Quello che accade in Sicilia non è un moto razzista che si inventa una identità per poter declassare le altre: non ha bisogno di contrapporsi a quelle, per esistere; l’identità siciliana basta a sé, esiste da sola (non può sfociare in razzismo, perché c’è e ci sarebbe anche se le altre non ci fossero); e tanto è forte, radicata, che dovunque la butti, nel mondo, attecchisce restando se stessa: avete notizia di qualche comunità “padana” in Australia, in Canada, in Argentina? Veneta, magari (e ti credo!), piemontese, friulana, persino “lombarda”, anche se più facilmente la trovereste bergamasca, valtellinese, che non “lombarda”; ma “padana” proprio no (è un inganno ottico, prodotto da magliari a uso degl’ingenui di paese, per la fiera dello stracchino; è come un’ombra sulla coscienza e le paure dei bambini: vivono solo al buio, anche quello della mente, e spariscono con la luce).

E non vi dice nulla questa risorgiva identitaria così potente in Sicilia? Ci vollero una quasi guerra e il riconoscimento di una condizione di privilegio unica all’interno dello Stato, per sopire la pulsione separatista che stava staccando l’isola dall’Italia. Dopo, però, i partiti siciliani furono gli stessi che nel resto del Paese: nazionali. Perché «cominciarono ad intervenire brutalmente nelle questioni siciliane le segreterie nazionali dei partiti» scriveva nel 1970, in La Nazione Siciliana, Mario Moncada, dirigente della Olivetti (marketing) a Ivrea, ed erede di una dinastia che aveva dato all’isola tre vicerè. «Gli interessi della Sicilia furono subordinati agli interessi dei partiti e secoli di attesa andarono e vanno delusi.» La Sicilia era parte integrante del Paese, perché le divisioni del potere nazionale continuavano nell’isola e le divisioni del potere siciliano seguivano quelle del potere nazionale. Nel 1980, un meticoloso studio di Giuseppe Mignemi, La Questione siciliana, documentava il saccheggio dell’isola da parte dello Stato italiano, ma soprattutto le gravi violazioni degli obblighi imposti dal Trattato di pace che mise fine alla Seconda guerra mondiale: Sicilia e Sardegna dovevano essere smilitarizzate (ma vi si impiantarono basi americane a Sigonella e La Maddalena). Se l’isola fosse diventata davvero autonoma, gli obblighi derivanti all’Italia dal Trattato sarebbero decaduti. La Sicilia, quale “popolo giovane e neoindipendente”, a norma della Carta delle Nazioni Unite, approvata anche dall’Unione Sovietica, avrebbe potuto armarsi e diventare una Cuba statunitense nel Mediterraneo. Fu pure inviato un rapporto all’ONU, in questo senso.

E guardate ora, dopo più di sessant’anni: la regione amministrata da un movimento autonomista, con una selva di sigle che lo sostiene e maggioranza garantita da formazioni locali di partiti nazionali (come Udc e Pd).

Il contrario di quello che De Gasperi aveva ottenuto: dare alla Sicilia lo statuto dell’autonomia, senza darle autonomia. Lo statuto concede poteri enormi al presidente e al parlamento della Sicilia, ma è rimasto inapplicato quasi del tutto. «Perché, invece, alla Catalogna, al Sud Tirolo l’autonomia ha reso tantissimo e alla Sicilia no?» mi chiede il presidente Raffaele Lombardo; e, per fortuna, mi dà anche la risposta: «Perché è sempre mancata una nostra rappresentanza politica autonomista forte: quando la carriera delle classi dirigenti locali dipende da quelle nazionali, il dirigente locale è in conflitto di interessi». Se il potere locale fa prevalere gli interessi di quello nazionale (o di chi quel potere muove) viene aiutato a crescere. Chi conduce il gioco è il Nord, con la sua economia assistita dallo Stato. «Così, al dirigente meridionale si permette qualsiasi misfatto, se garantisce consenso allo Stato e ai partiti nazionali. E gli si danno risorse, assistenza da gestire, per incrementare il proprio potere» dice Lombardo. Sai come devi comportarti, se da consigliere regionale vuoi diventare deputato nazionale, da presidente di Regione, ministro o capo del governo.

«Ma io sono un autonomista» continua Lombardo «e guidare la mia Regione è il massimo cui aspiravo. Per questo non ho accettato di fare il ministro e posso pretendere l’applicazione integrale dello statuto, che può darci l’autosufficienza economica e il governo del nostro destino.» Al ministro Galan che diceva ai siciliani di farsi le strade da soli, Lombardo, ha replicato che lo facevano già 2.500 anni fa, quando “loro”, i galan..i, scavavano radici per poter mangiare (testuale). E torneranno a far da soli con l’indipendenza della Sicilia.

Lo statuto consente al governo dell’isola di legiferare quasi su tutto (e, in diversi campi, in modo esclusivo): agricoltura, foreste, bonifiche, industria e commercio, urbanistica, lavori pubblici, miniere, saline, acque pubbliche, pesca, turismo, antichità e opere d’arte, regime degli enti locali, istruzione elementare, media e universitaria, espropri, comunicazioni e trasporti, sanità, disciplina del credito, legislazione sociale e altro ancora. Alcuni poteri possono avere effetti difficilmente valutabili. Che ne dite di: «La Regione ha diritto di partecipare con un suo rappresentante, nominato dal governo regionale, alla formazione delle tariffe ferroviarie dello Stato e alla istituzione e regolamentazione dei servizi nazionali di comunicazione e trasporti terrestri, marittimi e aerei, che possano comunque interessare la Regione»?

A volerla usare come zeppa contro le scellerate azioni del signor Moretti (e di quanti altri come lui), disgraziatamente amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato del Centro-Nord, con i soldi pure del Sud...

Oppure: il presidente della Regione siciliana, «col rango di ministro partecipa al Consiglio dei ministri, con voto deliberativo nelle materie che interessano la Regione». Quante volte credete che questo avvenga? Così, ora, «sistematicamente invaliderò le riunioni a cui non mi invitano» assicura Lombardo. E quando hanno cercato di sottrarre poteri alla Regione (per esempio sulle autostrade), lui ha fatto ricorsi e ha vinto un po’ troppo spesso... «Ormai è il mio vero lavoro: ricorsi al Tribunale amministrativo, alla Corte Costituzionale. E il governo reagisce, come sempre reagisce il centro, quando la periferia si affranca.»

Per lo statuto, ma solo sulla carta, il presidente della Regione è il capo della polizia, dei cui funzionari può chiedere la rimozione o il trasferimento (un potere rimasto sulla carta: «Si teme che, in sede locale, si possano fare accordi con la mafia. Perché quelli del potere centrale non ne hanno fatti?»); può pure chiedere l’intervento delle forze armate. Quanto ai poteri sull’economia (esclusivo su risorse proprie, compartecipazione alla ricchezza prodotta da aziende esterne su suolo isolano), si è già visto cosa accadrebbe se fossero integralmente usati.

«Il nostro bilancio vale 16 miliardi di euro; con i soldi del petrolio e il resto, già ci siamo. A quel punto, altro che le tasse di Tremonti! Perché non dovrei abbassarle al 12 per cento, come Malta, che non sa più dove espandersi (magari in Tunisia), per i benefici che ne gode? Noi, a differenza delle altre regioni, abbiamo le risorse. Che non vanno a beneficio dei siciliani, i quali, come tutti i meridionali, sono solo mercato della grande distribuzione. La nostra isola era autosufficiente ed esportava alimenti in tutto il mondo, oggi ne produce per 4 miliardi di euro, ne esporta per 2, e ne consuma per 9! Il grano è prodotto in Sicilia a 18 centesimi al chilo, ma megamulini, costruiti pure con finanziamenti della Regione (grazie ai partiti che, per governare, tradiscono l’autonomia) macinano megaquantità di quello spagnolo, egiziano, kazako, messicano, presi a 11 centesimi. Il pane lo si vende a 3 euro, e persino a 5, 6. Un guadagno strepitoso, per questi dei megamulini, come il pugliese Casillo, che è stato pure in galera, per aver trattato grani contaminati. Con un mercato così, i nostri coltivatori di grano, ulivo, vite, produttori di frutta secca chiudono i battenti.»

Ascolto Lombardo nella sede romana del suo Mpa, il Movimento per l’autonomia che progetta di sciogliere, per farlo confluire in una sorta di confederazione di partiti e movimenti del Sud, di cui mi offre di divenire punto di riferimento. Lo ringrazio, ma credo che la voce di un solitario possa essere più facilmente riconoscibile libera.

«Loro pensavano che avrei garantito lo statu quo...» mormora. Non gli faccio domande su quel “loro”, credo siano inutili. E comincia a enumerare le azioni che hanno smosso un ordine distorto, ma comodo a molti: «Adesso investiamo nella filiera che garantisca chi produce e chi acquista alimenti: pane, formaggi freschi, vino da tavola, latte fresco, per cominciare, disturbando un sistema che permette mille speculazioni e altissimi guadagni. Smantellarlo significa scatenare reazioni furibonde. Vorrebbero che costruissimo termovalorizzatori per 2,7 milioni di tonnellate di rifiuti. Ma con la raccolta differenziata, e si può fare, presto e bene, non arriveremo a 1,1 milioni di tonnellate, perché pagare per 2,7? Eppure, il ministro per l’Ambiente, la Prestigiacomo, favorevole ai termovalorizzatori, tiene fermo il nostro più economico ed ecologico piano per lo smaltimento rifiuti (lo scontro fra i due, entrambi siliciani, ha raggiunto, non solo su questo tema, tutti i toni raggiungibili, prima dell’eliminazione fisica o politica dell’altro; N.d.A.). Siamo stati criticatissimi, per l’assunzione, a tempo indeterminato, di 4.500 precari; i quali, però, non guadagnano un euro più di prima, hanno soltanto smesso di essere precari. E si sono dimenticati di aggiungere che la spesa corrente della Regione è, nonostante questo, scesa a quella di dieci anni fa. Da Catania a Palermo, 180 chilometri, ci vogliono quattro ore e mezzo di treno e bisogna spendere due miliardi per ridurre il tempo a un po’ meno della metà. Lo stiamo facendo, ma ce lo dobbiamo pagare da soli e abbiamo già impegnato i primi 180 milioni. È passata la legge per l’insegnamento a scuola di storia e cultura siciliana».

Ricordo con quale orgoglio me ne parlava, in un incontro a Marsala, l’assessore regionale all’Istruzione, il professor Mario Centorrino, ordinario di Politica economica all’Università di Messina, docente per passione e vocazione («Le scuole sono una delle poche cose normali della Sicilia. Alle 8.30 i ragazzi entrano, alle 13.30 escono. E sappiamo già che domani saranno qui. Questi ragazzi sono il vero oro nero dell’isola» diceva. Eravamo in un liceo).

Lombardo continua a elencare «cose fatte», mentre corregge testi, disfa e rifà organigrammi al telefono; chiede alla segretaria (di Verona, se ricordo bene) se il programma informatico usato per i manifesti che mi mostra consente di apportare modifiche; spiega, al figlio con stoffa da affarista, che non può comprare dallo zio la macchina usata, tirando così sul prezzo. Sui giornali ci sono gli articoli sulle tensioni, nella Procura di Catania, circa l’inchiesta che lo riguarda, per il presunto appoggio elettorale della mafia. Che lui nega, citando le scelte sulla gestione della sanità siciliana (affidata, con risultati straordinari, all’indiscutibile magistrato Massimo Russo), sul piano energetico, con la soppressione di un appalto miliardario in euro (poco più tardi, la Direzione investigativa antimafia sequestrerà beni per un miliardo e mezzo di euro, la maggiore operazione di sempre, all’imprenditore Vito Nicastri, “re del vento”, per gl’investimenti nell’energia eolica, ritenuto prestanome del nuovo capo dei capi della mafia, Matteo Messina Denaro). Secondo Gioacchino Genchi, il superperito informatico di Luigi De Magistris, una trappola micidiale è stata tesa a Lombardo.

Troppo complicato per uno come me, che non piglia pace, perché da sei giorni non trovo il tempo di pagare una cartella Equitalia in scadenza fra due mesi. E come campa lui, con quei macigni addosso? Non ha mai avuto la maggioranza, ma continua a cambiare governi regionali, sostenendoli con i voti degli altri; la prima volta che lo incontrai (qualche avvisaglia seria gli era già arrivata), mi disse che non avrebbe mai pensato si potesse vivere così male: mi parve determinato ma oppresso. Ora che la situazione è peggiore, appare quasi indifferente, come se tutto fosse già successo, di qualunque cosa si tratti; o lui avesse deciso di accettarlo. E questo, paradossalmente, lo avrebbe alleggerito, liberato dalla condizione dell’attesa, di chi non sa quanto tempo resta per fare le cose. Una indiretta conferma, credo di trovarla in quel che dice, mentre stiamo per salutarci: «Era delle mie parti Antonio Canepa, il primo capo dell’esercito indipendentista siciliano: fra qualche giorno sarà l’anniversario della sua morte (il 17 giugno 1945, in un conflitto a fuoco a un posto di blocco; N.d.A.). Mi vogliono uccidere... moralmente... civilmente... come Canepa». Ma lo dice come se parlasse di un altro.

È un’anomalia, Lombardo: la Sicilia, conquistata l’autonomia, per circa sessant’anni, ha visto la sua riuscita di potere a Roma, spendendo fuori dell’isola il consenso conquistato nell’isola. Lui ha avvertito prima degli altri che il sentimento identitario antico e forte (in lui stesso molto radicato: Catania è stata la culla dell’indipendentismo) tornava a prevalere; e ha deciso di rappresentarlo.

Ma Lombardo è solo la parte più visibile dell’anomalia, perché chiunque voglia mutare gli assetti del governo regionale, ormai, deve cambiare nome e proclami, darsi un vestito isolano, meridionale, come il raccogliticcio Noi Sud di migranti professionali della politica, o Forza del Sud, di Gianfranco Miccichè, che nasce, secondo gli annunci, per sostenere il Mezzogiorno e il governo nazionale di centrodestra: ma Miccichè da sempre sostiene il governo di centrodestra e ne fa pure parte, avendo avuto proprio la delega per il Mezzogiorno e poi, da sottosegretario alla presidenza del Consiglio, quella del Cipe, il comitato interministeriale che quando, vedi ultime due assegnazioni per 30 miliardi di euro, distribuisce i soldi in Italia, divide il bottino in 100 quote e ne dà una al Sud e 99 al Nord, o Centro-Nord. Vuol dire che, per fare una cosa nuova, e persino per continuare a fare quello che si faceva prima, bisogna presentarsi meridionalizzati.

O si perde.

Poco più di sessant’anni fa, questo succedeva solo in Sicilia; oggi accade di nuovo nell’isola, e senza armi, ma non più solo nell’isola.

Perché? Cosa è cambiato? O cosa non è cambiato e, anzi peggiorato, perché questo avvenisse? Proviamo a chiederlo ai pensatori abituati a concludere ogni loro “analisi” dicendo che «Il Sud deve fare autocritica»: c’è qualche altro (pensatori inclusi) che ha bisogno di un esamino di coscienza? Sempre che ne resti il tempo, ormai, perché, mentre si blatera dell’indipendenza di un paese mai esistito (la Padania), la Sicilia, che ha l’autonomismo nella sua storia e nel sangue, torna a fare sul serio. E a me un brivido è venuto, quando ho letto degl’indipendentisti dell’Evis, la cui preoccupazione non era morire, ma «morire bene».

Aprile Pino - 2011 - Giù Al Sud
titlepage.xhtml
OEBPS_Text_cover.xml
OEBPS_Text_frontmatter1.html
OEBPS_Text_frontmatter2.html
OEBPS_Text_title.html
OEBPS_Text_copyright.html
OEBPS_Text_frontmatter3.html
OEBPS_Text_frontmatter4.html
OEBPS_Text_chapter1.html
OEBPS_Text_chapter2.html
OEBPS_Text_chapter3.html
OEBPS_Text_chapter4.html
OEBPS_Text_chapter5.html
OEBPS_Text_chapter6.html
OEBPS_Text_chapter7.html
OEBPS_Text_chapter8.html
OEBPS_Text_chapter9.html
OEBPS_Text_chapter10.html
OEBPS_Text_chapter11.html
OEBPS_Text_chapter12.html
OEBPS_Text_chapter13.html
OEBPS_Text_chapter14.html
OEBPS_Text_chapter15.html
OEBPS_Text_chapter16.html
OEBPS_Text_chapter17.html
OEBPS_Text_chapter18.html
OEBPS_Text_chapter19.html
OEBPS_Text_chapter20.html
OEBPS_Text_chapter21.html
OEBPS_Text_chapter22.html
OEBPS_Text_chapter23.html
OEBPS_Text_chapter24.html
OEBPS_Text_chapter25.html
OEBPS_Text_chapter26.html
OEBPS_Text_chapter27.html
OEBPS_Text_chapter28.html
OEBPS_Text_chapter29.html
OEBPS_Text_chapter30.html
OEBPS_Text_chapter31.html
OEBPS_Text_chapter32.html
OEBPS_Text_chapter33.html
OEBPS_Text_chapter34.html
OEBPS_Text_chapter35.html
OEBPS_Text_chapter36.html
OEBPS_Text_chapter37.html
OEBPS_Text_chapter38.html
OEBPS_Text_chapter39.html
OEBPS_Text_chapter40.html
OEBPS_Text_chapter41.html
OEBPS_Text_chapter42.html
OEBPS_Text_chapter43.html
OEBPS_Text_chapter44.html
OEBPS_Text_chapter45.html
OEBPS_Text_chapter46.html
OEBPS_Text_chapter47.html
OEBPS_Text_chapter48.html
OEBPS_Text_chapter49.html
OEBPS_Text_chapter50.html
OEBPS_Text_chapter51.html
OEBPS_Text_chapter52.html