31
DI DOVE SEI?
Il Gargano, quando arrivi da Sud, occupa tutto l’orizzonte: inquieta, sbucando come da una nuvola, sulla foschia della piana; è un mondo estraneo, dovrebbe essere un’altra regione, se la Puglia non fosse somma di estranei. La strada passa per la terra degli ipogei (caverne sotterranee che gli uomini di un popolo ancestrale usarono da vivi; e altri, dopo, da morti); è il fondo emerso di una sterminata laguna, che aveva la sua Venezia, Salapia, per capitale; ne sono residua testimonianza le vastissime saline di Barletta (che i pugliesi furono poi costretti a chiamare di Margherita di Savoia). Ho appuntamento al Laboratorio Urbano Culturale, LUC “Peppino Impastato”, di Manfredonia, all’ex mercato ittico, sul lungomare; e subito dopo, a Foggia, alla biblioteca provinciale, dove si dibatte di Unità d’Italia con il senatore Valerio Zanone e alcuni ottimi docenti universitari.
Questo tratto di Tavoliere mi intimidisce; si avverte una profondità del tempo che fa perdere l’orientamento, perché dell’infinita storia di questa parte d’Italia si sa pochissimo, nonostante la sua recente riscoperta e valorizzazione turistica (il progetto Puglia Imperiale, del collega Salvatore Giannella, compare fra le dieci storie di successo in quella Bibbia del turismo per le università che è Il marketing del turismo, del professor Philip Kotler, statunitense, uno dei maggiori esperti al mondo, in materia). Poco si conosce, a parte una eletta pattuglia di specialisti ammirevoli, della gente che vide questa geografia mutare aspetto e contorni, con la linea del mare che arretrava; e popoli sempre diversi che portavano nuovi stili di vita. Parlando di questa parte della Puglia, il professor Telmo Pievani, docente di Filosofia della scienza alla Bicocca (Milano), dice: «Sembra incredibile che in una sola regione vi possa essere una tale concentrazione di reperti sul più antico popolamento umano d’Europa».
Gli unici pugliesi sicuramente autoctoni (non è uno scherzo) sono l’asino di Martina Franca e il cavallo murgiano. Non ci tengo sino a quel punto, anche se ci sono andato vicino: Taranto, dove sono cresciuto, è ai piedi del colle di Martina; e Gioia del Colle, dove sono nato, è il cuore della Murgia. I pugliesi (sintesi al cubo degl’italiani, in questo) sono figli di troppi padri, dagli Svevi ai Saraceni, dai Greci agli spagnoli, dagli slavi e albanesi ai Normanni e tedeschi, e bulgari, armeni, provenzali, Micenei, Longobardi, Illiri, ebrei, turchi... Forse, questo li rende ovunque a loro agio. Ma tutti, prima o poi, abbiamo bisogno di sentire un luogo come proprio, in cui ti accorgi di pensare: “Io sono di qui”. E nemmeno ne sai la ragione. Ma perché, per essere meridionale, devo essere solo del Sud? Io mi sento tale, ma come stato d’animo che ignora la geografia. E non è una faccenda che riguardi solo me, o i meridionali.
Mi succede di “sentirmi di qui” a Capo Santa Maria di Leuca, dinanzi al quale il mio Jonio e l’Adriatico si incontrano; e a Trieste, a Cervia, a Sperlonga, in Cilento (Acciaroli e Pisciotta), a L’Aquila, a Saint-Malò, a Bonifacio, a Ragusa italiana e Ragusa adriatica, sulla sabbiosa penisola di Troia, in Portogallo, sullo Stretto di Messina, a Lampedusa, ad Auckland, in Nuova Zelanda, a Leptis Magna (pure in sogno!), in Libia, e in molti altri posti. Mi sono fatto l’idea che uno prima nasce, poi si sceglie una patria, e non è detto che sia tutta nello stesso posto; la mia può essere una somma di pezzi sparsi, quasi a ricomporre nella geografia, quello che la storia ha concentrato in Puglia e nella mia stirpe, portandovi genti varie. Si colgono echi ai quali non sempre si riesce a dare una spiegazione. Mi accadde di avvertire una sorta di richiamo (giuro, non baro) nell’antico monastero fortificato di San Vito, sul fiordo che precede l’abitato di Polignano a mare, una ventina di chilometri a sud di Bari. Ma così forte, che, pur abitando già da tempo in Lazio, capitata l’occasione, per altrettanto straordinaria coincidenza, ne affittai uno degli appartamenti. Pagai per tre anni, ci stetti undici giorni; ci portai mia madre, e scoprii che lì lei aveva visto per la prima volta il mare, circa settant’anni prima, a tredici anni, dopo una notte di viaggio su un carro agricolo, dalla Murgia di Laterza. Lì, mio nipote, che porta il nome di mio padre, è entrato per la prima volta in mare. È con le coincidenze, dicevano i Greci, che gli dei rivelano le loro intenzioni.
Ma il luogo in cui sento possa affondare la mia radice più profonda, è questo, subgarganico, in cui non sono mai vissuto. La sola montagna pugliese viene, geologicamente dai Balcani, come la Maiella, più a nord, e le isole Tremiti. Ed è misteriosa: chi ci viene, conosce a malapena la costa; e, nell’interno, San Giovanni Rotondo. Ma poco distante c’è la grotta di San Michele Arcangelo, cristianizzazione di divinità più antiche e dell’indovino Calcante, di cui si diceva quello fosse l’antro.
D’altro, quasi niente. Ma questo è uno dei posti più spirituali d’Europa, sin dal tempo che si riesce a cogliere, nella ricerca all’indietro, di come fummo. Quasi ogni sasso pare il resto di un tempio, ogni grotta un ancestrale rifugio: ci sono tracce delle prime caverne dipinte d’Europa (le sole in Italia); il monastero di Santa Maria di Pulsano, se nessuno ti dice che sei in Italia, Puglia, Gargano, potresti prenderlo per tibetano; nella Foresta Umbra (la più antica del continente) che ricopre l’intero massiccio, fra alberi e rovi, appaiono, ogni tanto, muri diroccati di edifici sacri, eremi; su uno dei famosi faraglioni di Vieste si narra vivesse uno stilita, rubandone la sommità ai gabbiani.
Il Gargano è una montagna sacra, alla cui ombra, alcuni uomini divennero dei. E non perché la tomba di padre Pio, la chiesa a lui dedicata, sia fra i più frequentati santuari della cristianità. Una leggenda riportata dai classici romani narra che Diomede approdò qui, dopo la conquista di Troia; sposò la figlia del re dei Dauni, ne ebbe in dote parte del regno, che delimitò con pietre usate come zavorra nelle sue navi e tolte dalle mura della città di Ettore, costruite dal dio del mare, Poseidone. Diomede fondò città, come Brindisi (e suo figlio Tirreno, Trani, sull’Adriatico), divenne potente, troppo: per invidia il suocero lo fece uccidere. L’eroe divinizzato fu sepolto alle Tremiti dai suoi uomini, trasformati in uccelli, perché lo piangessero in eterno.
Le isole e gli uccelli che vi stazionano (l’albatro urlatore o berta maggiore, apertura alare quasi due metri, li trovate pure in Antartide) si chiamano, da allora, Diomedee. A metà dello scorso secolo, un contadino dauno trovò una pietra strana e la mostrò a un amico archeologo, il professor Ferri: era una di quelle poste da Diomede, secondo la leggenda, a confine del regno; se ne trovarono molte altre, sane e a frammenti; alte circa un metro e mezzo, forma vagamente umana: su di esse è narrata, per graffiti, la guerra di Troia!
Un bel racconto, ma la radice identitaria affonda in una preistoria ancora più buia. Visse qui una popolazione che usava rifugi sotterranei nella piana del Tavoliere. In seguito, quelle cavità vennero adoperate come tombe collettive. Fu il collega Giannella a mostrarmene alcune appena scoperte a Trinitapoli, il suo paese. Disse che gli archeologi vi avevano trovato decine di sepolture: uomini, donne (su tutte, “La Signora delle Ambre”, per i suoi monili), bambini. La loro postura, in gran parte dei casi, era fetale (gambe e braccia ripiegate sul petto: nel grembo della terra, come in quello materno); l’orientamento dei corpi prevalentemente verso est (da lì torna la luce, si aspetta la vita); tranne uno, quello del più robusto, addossato alla parete, seduto, con la lunga spada accanto: il “Capo”, custode delle speranze di rinascita da quell’utero sotterraneo.
Verso l’uscita dall’ipogeo, frammenti di ossa di cervi, buoi e altri animali domestici e selvatici, come “seminati” nella terra, per far germogliare altre vite, arricchire il mondo che sarà restituito, al risveglio, a quel piccolo popolo, vigilato dal “Capo”, nel suo lungo sonno.
Quella comunità unita oltre la morte, nell’attesa di rivivere insieme, mi commosse.
Volevo raccontare questo al dibattito sulla patria in pezzi, a Foggia. Non lo feci, nel timore di non essere compreso, di apparire troppo sentimentale, retorico. Mentre il Paese viene smembrato da egoismi, avidità, risentimenti e si inventano avi e liturgie, le nostre istituzioni massime ci obbligano a celebrarne l’anniversario della nascita, tralasciando la ferocia che l’accompagnò, a danno dei meridionali, la loro condanna (senza coscienza e volontà di rimuoverla) a una condizione di minorità. Sulla quale, dopo un sonno di un secolo e mezzo, il Sud sembra aprire gli occhi.
Quegli uomini e quelle donne degli ipogei, chiunque fossero, non scendevano soli ad aspettare la resurrezione, ognuno nella sua tomba. Ma insieme a condivider la morte (o l’attesa), come avevano condiviso la vita: a mano a mano, morendo, riprendevano il loro posto accanto a chi li aveva preceduti; neppure la morte faceva decadere i loro diritti familiari e nella comunità, né i loro doveri sociali: sul guerriero continuava a gravare, intatta, la responsabilità dei dormienti.
Patria, penso, dev’essere qualcosa che somiglia a questo. Ma come lo dico? Non sembrerà che la prenda un po’ troppo da lontano? Lascio perdere.
P. S. La mia reticenza è stata un errore. Finito il dibattito, a noi relatori regalano il bellissimo libro di Anna Maria Tunzi Sisto (della Sovrintendenza archeologica della Puglia): Ipogei della Daunia. Ops... (e ora ne ho due copie).