52
CHI NON MI VUOLE
NON MI MERITA
Studi, osservi; e questo aiuta, ma alcune cose le percepisci per vie profonde e sensibilità affinate da un interesse coltivato, specifico; nello stato di nervatura scoperta che ti dà la tensione prolungata su un argomento che ti invade i pensieri, sino a farne una sorta di lente attraverso cui finisci per vedere (e giudicare) ogni vicenda e comportamento.
Siete stati sullo Stretto? Avete sentito quella densità di cose diverse, a cui non sai dare un nome, mentre dici, banalmente: «Che bello!»? È il mare, l’isola, la montagna d’Aspromonte che cela paradisi e inferni chiusi, mondi a parte uno appresso all’altro, strette valli, spiaggette, speroni di roccia nel Tirreno, un piede di ciottoli nello Jonio, storie sovrapposte o mai fuse nonostante si tocchino, storie tanto antiche che risalgono alla radice di quello che siamo; l’equilibrio naturale delle linee e dei blu e dei verdi; le barche sottocosta... E sotto tutta quella bellezza, scorgi la paura, che rende il bello prezioso, perché precario: è terra che si muove, questa, si scrolla i pidocchi di dosso; è mare che irrompe nelle strade, rade le città, vuol risalire il monte. Lo ha fatto più volte. È l’emozione dell’essere seduti sul ciglio dello strapiombo, temendo di caderci.
Quel disastro possibile acuisce i sensi; si aprono porte profonde, al limite della consapevolezza. E in quella condizione di annullata vigilanza del razionale, apprendi.
Ti appare, allora, la sproporzione fra quanto sia straordinario ciò che ti circonda e, per contrasto, quanto ordinari siano i comportamenti privati e collettivi, quasi per rifugiarsi in una dimensione controllabile, che non ti annulli con la sua grandezza. Mentre il privilegio dell’estraneo a quei ritmi e obblighi, ti permette il rischio di negarti i limiti; e godere di uno stato di grazia.
È scesa sera. La monotonia del traghetto, per chi abitualmente pendola fra Reggio-Messina (città calabrosicula, unica e unita dallo Stretto, dai disastri e dal quotidiano), si spalma sulla pennica di chi anticipa, mento sul petto, il sonno della notte; la sigaretta del camionista nel corridoio esterno del ponte; il libro che priva la studentessa del panorama per lei consueto come l’aula dell’università.
E tu come fai a descrivere l’intensità che viene dall’aria salata che ogni tanto dà un brivido, per una strisciata fredda scesa da chissà quale ruga d’Aspromonte e fende il tepore sciroccoso? E le luci che segnano i confini siculi e calabri sul mare così nero dello Stretto, che quelle luci inghiotte sottocosta, non riflette. La bellezza non puoi raccontarla, ma la riconosci, quanto ti tocca.
Il film che più amo è La leggenda del pianista sull’oceano. Capisco il protagonista: appena il traghetto attraccherà, lo Stretto si riprenderà il suo dono; dovrò, in ogni senso, tornare con i piedi per terra. Resterei a bordo, a concentrare l’oceano in questi tre chilometri fra Jonio e Tirreno. Ma servirebbe a poco: l’alba svelerebbe la devastazione dello Stretto, lo sfacelo delle fiumare, la cementificazione costiera senza gusto né disegno, la grazia corrotta a lebbra.
Fra la bellezza rinnegata e lo scempio procurato (quasi ci si voglia ridurre al livello della disistima propria e altrui), c’è il danno di una storia la cui interruzione è sempre meno accetta. Averlo capito è l’inizio del cammino. Che, una volta avviato, può essere molto più breve di quanto si pensi: la distanza fra tutto e niente, non è tutto, è niente. È saperlo.
Gli italiani non sono diventati popolo, nonostante siano una “nazione di nazioni”, perché non si è voluto. A una parte degli italiani ha fatto comodo non volerlo; e troppi, ormai, sono abituati, educati, a non volerlo. E popolo non saremo, vicendevolmente fieri gli uni degli altri, finché non ci conosceremo al punto da apprezzarci, per la diversa storia condivisa e quella identità “plurale” che ci rende così interessanti per il resto del mondo e conflittuali in patria. Finché i veneti non saranno orgogliosi di essere una (non “la”) nazione italiana, compartecipe della grandezza della Magna Graecia; finché i siciliani non saranno orgogliosi di essere una (non “la”) nazione italiana, compartecipe della grandezza di Venezia. Ché l’una non esisterebbe senza l’altra. Cito solo un esempio: l’affascinante epopea delle migrazioni micenee e greche, testimoniata dai miti degli Argonauti, dell’Odissea, di Diomede, che si sarebbero svolti in Adriatico: l’“oscuro Occidente” dei greci era il Nord-Ovest, l’Adriatico, non l’ovest, la Sicilia (Odisseo aveva avuto per nutrice una schiava siciliana, come poteva ignorare l’esistenza dell’isola?). E, a mano a mano che i Micenei e poi i Greci avanzano in Adriatico, mercanteggiando e colonizzando, quei miti prendono piede: Odisseo arriva al Po e in Istria una generazione dopo che l’hanno fatto gli Argonauti; il mito di Diomede, dopo aver fecondato la Puglia, risale l’Adriatico con i Corinzi, poi con i Siracusani fondatori di Ancona. Una proto-Venezia nasce a Torcello, in quei tempi così lontani. La vicenda è narrata da Lorenzo Braccesi (Storia antica all’Università di Padova) nel bellissimo supplemento a «Grecità adriatica»: Hellenikòs Kolpos (Golfo greco). E, da allora, e senza interruzione, per quella via sono passati tutti, adducendo a Venezia, che per quella via addusse, a sua volta, a tutti.
Ma se quella via fu percorribile in tempi così remoti, lo si doveva ai Messapi di Puglia, il cui re, Artas, si assegnò il compito di tenere sgombro dai pirati il Canale d’Otranto, il che aprì la strada ai mercanti di ogni popolo; con le merci si trasportano e scambiano idee, dei e conoscenza. Così si fusero i nostri destini: senza i pugliesi, i Micenei e i Greci non avrebbero incontrato i Veneti.
Nel nostro profondo, sappiamo di essere parte di un tutto che ci contiene e ci rende diversamente “italiani”. Con l’Unità fatta a quel modo, non ci siamo uniti: ci siamo persi e contrapposti. Ma abbiamo troppa storia comune per dissiparla in così poco tempo. Il Paese si costruisce con l’equità: porre ognuno nelle condizioni di misurarsi alla pari con gli altri. Questo non è di destra, né di sinistra, settentrionale o meridionale. Il progetto di cui mi voleva garante Raffaele Lombardo, presidente della Sicilia, era questo: i vari partiti o movimenti si impegnano a operare, politicamente, per ottenere dallo Stato (e da se stessi, per quel che, localmente, compete) l’attuazione di un programma: queste strade, queste linee ferroviarie, questi aeroporti... Poi, ognuno lavora secondo i suoi orientamenti e poteri, ma per quel fine, per il quale ci si è impegnati.
A me sembra un buon programma (salvo esserne io il garante, per mia insufficienza e per attitudine all’agire solitario). Al quale, comunque lo si vari, non dovrebbe mancare l’appoggio degli onesti, senza distinzione geografica; perché senza distinzione geografica dovrebbe operare il programma: se il Paese mostra una carenza di attenzione e infrastrutture in una parte del suo territorio, non mi importa dove sia quella parte, mi importa che, essendo il mio Paese e volendolo pari ed equo, quella parte sia posta nelle condizioni di svilupparsi come le altre.
Perché sembra così difficile farlo? Perdonatemi, ma io non so dirlo in un altro modo, anche perché la cosa quella è, e pur se la dici diversamente, quella rimane; quindi, devo ripetermi:
– se non lo si fa, è perché non lo si vuole. Qualunque altra cosa per sostenere di non poter fare, è fumo per nascondere che non si vuole;
– a chi obietta che l’impresa è difficile, ricordo che la Germania l’ha fatta in vent’anni (i tedeschi dell’Ovest volevano i tedeschi dell’Est, per questo, caduto il muro, se li sono letteralmente “comprati”. Ulrich Beck, sociologo alla London School of Economics, dice che l’Europa è ormai il destino comune, ma c’è da abbattere un altro muro: quello fra Nord e Sud. L’Italia, come altre volte, dell’Europa è sintesi anticipatrice); e ricordo che le imprese non sono mai impossibili, solo la volontà degli uomini può rivelarsi insufficiente. Se vi sembra che esageri, pensate a quale sia stata, nell’intera storia dell’umanità, l’impresa più grande mai compiuta, di qualsiasi genere. C’è una cosa che le accomuna tutte, dalla scoperta del fuoco allo sbarco sulla Luna: sono state concepite da un uomo solo, prima di diventare opere collettive. Alessandro, figlio di un re pecoraio, aveva un progetto; Dario, soltanto il più grande impero del tempo. E lo perse.
Quello che cambia le cose comincia sempre da qualche parte. Però ci viene più facile pensare che quel posto sia lontano da noi. Ma il mondo è tondo; ogni suo punto, indistinguibile dagli infiniti altri, può essere quello in cui cominciano a cambiare le cose.
Quando si mira a un risultato, se ne misura la difficoltà con quella della soluzione definitiva. Invece, tutte le cose nascono piccole e, nella gran parte dei casi, chi comincia, sa solo di cominciare. E nessuno può dire, fra quanti lo fanno, chi arriverà, quanto lontano.
E, sempre per via del mondo tondo, quando trovi la soluzione, quella va oltre i confini del problema per cui la cercavi. Chi inventa la ruota per il suo carro, l’ha inventata per tutti i carri del mondo e per sempre. La questione Nord-Sud non è italiana, ma continentale (ho appena ricordato cosa dice Ulrich Beck), è planetaria. La divisione che fu ideologica oggi si presenta economica, culturale, persino religiosa, ma appare geografica. Chi la risolve qui, a partire dal suo paesello, dalla sua regione, e si può, potrebbe, non volendo, aprire la strada per tutti, ovunque.
La smetti di guardarti intorno?