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QUALE SUD
Il Sud è il luogo che non riconosci, perché cambia nel silenzio, nascosto dietro il peggio. Più lo percorri, più ti dà, meno ne sai. Il Sud seduce chi per vocazione o mestiere narra o s’interroga sugli altri: molti sono stati contaminati e arricchiti dalla “passione del Sud” (una resa dell’anima ben raccontata, sino a meridionalisti e confinati dal fascismo, come Umberto Zanotti Bianco, Manlio Rossi Doria, Carlo Levi...). Sapere del Sud parrebbe avere un carattere che anticipa la coscienza: prima lo si sente, poi si cerca di capirlo, mai del tutto. Il che rende il Sud inspiegabile, ma non incomprensibile, se è vero, come dice lo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun, che «l’atteggiamento meridionale corrisponde di più all’anima umana».
Il Sud pare immutabile nell’insieme, ma continuamente cambia, nel dettaglio. I posti che conosci non sono mai come li ricordavi, quando ci torni; ma il viaggio per giungervi attraversa sempre il Sud che conoscevi. Viene da dire che se tutto è passato da qui e si è fermato, quando sembra che il Sud si stia rinnovando, forse soltanto ricorda, recupera pezzi di memoria adattandoli al tempo; come se avesse tutto il vivibile nel suo guardaroba della storia e, di volta in volta, indossasse quello che serve, secondo le circostanze. Per resistere.
E si direbbe che non tutto il Sud indossi lo stesso periodo della sua storia contemporaneamente; il che lo fa apparire diviso e vario.
Perché racconto questo? Perché mai ho viaggiato a Sud come in questi ultimi due, tre anni (e sì che non me lo sono mai fatto mancare) e sempre mi sorprendo a fare il conto di quanto non ne so e di quanto si possa percepire, di intenso, profondo, senza riuscire a coglierne il senso dell’insieme. Ho pensato fosse più corretto raccontare le tappe del mio viaggio, evitando di ricorrere ad artifici che le facessero divenire parti di una narrazione unica, resa coerente da una struttura, una trama, un progetto. Ogni tappa, ogni esperienza parla per sé, di sé, non in coro. E questo andava preservato, per non attribuire al tuo sguardo il potere di piegare quel che vede a uno schema, perché la somma di quelle singolarità è più onesta del tentativo di fonderle.
Ma questo paesaggio narrativo comunque parla, come i quadri cinesi delle nebbie: un tetto qua, un ponte là, più oltre le chiome di un bosco, uno squarcio di sole rivela un tratto di fiume a valle, sullo sfondo la cima di un monte; cos’hai visto? Poco, quasi niente, eppure non puoi dire di non sapere. Questo sento e avverto di conoscere, del mio Sud. E spero di riuscire a porgerlo, senza forzare, né diminuire: di non nascondere la mia ignoranza alla luce di quel che so, di non buttare quel che so, con l’acqua sporca della mia ignoranza. Sapere di noi, chiunque noi siamo, ovunque siamo, è opera collettiva. Queste sono le mie forze; questo il mio mattone (termine disgraziatissimo che non si dovrebbe mai usare per un libro...), per il muro della casa che si costruisce insieme.