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SOCRATE

«Finché ti convinci che certi problemi li risolvi solo con il fucile. Sì, ci potremmo arrivare.»

Lo dice con la pacatezza di chi osserva, riflette e trae conclusioni, senza tono di minaccia. «Al punto in cui sono le cose...»

Il siciliano di cui hai paura ha la sua faccia: cespugliosa nei capelli, nelle sopracciglia, la barba che pare una matassa di fil di ferro, persino se rasata (quel nero inestirpabile che andrebbe rimosso sottopelle, e chissà se basta); i lineamenti sbozzati con quattro colpi di coltello, possente di spalla e di pancia, l’occhio fermo e forte che non ti guarda (e non ti teme): ti studia. E il guaio è che ti capisce e te ne accorgi.

«Lo chiamiamo Socrate» dice Franco Calderone, suo amico, dirigente del Partito del Sud, primo agricoltore “bio” di Sicilia: i suoi vini di montagna sono fra i più premiati d’Europa; unico al mondo a produrre un Pinot nero a 1.000 metri. «È un uomo saggio e giusto.» Il mio silenzio deve dirgli qualcosa, oppure è abituato all’obiezione, non necessariamente espressa, come nel mio caso. «Non fidarti della sua faccia: tanto è truce quella, quanto sorprendente la sua delicatezza d’animo.» Non volendo, devo apparirgli ancora perplesso. «Credimi» aggiunge.

Giuseppe Scarlata, 41 anni, allevatore alla terza generazione, è la guida naturale, per intelligenza e doti morali, assicurano, del Movimento dei Forconi (sorto in collaborazione con quello dei pastori sardi di Felice Floris), associazione di qualche migliaio di proprietari e conduttori di aziende agricole e zootecniche che tentano di impedire la propria scomparsa: nel disinteresse del Paese, l’intero comparto, specie a Sud, è strozzato dall’abbandono della politica e da strane manovre di Inps, Equitalia (non fatevi ingannare dal nome) e banche, con una ondata di pignoramenti per debiti, aziende svendute, messe all’asta. «In tre anni, solo in Sicilia, ne hanno chiuse 50.000 su 200.000. Tragedie vere, vite distrutte in silenzio, perché questa è gente orgogliosa e riservata. Da sempre, capisce solo alzarsi la mattina e andare nei campi. È questione di cultura, di mentalità, di storie familiari antiche» dice Scarlata.

Un’idea di dignità solida, tessuta di fatti, di lavoro, la vedi addosso a questi uomini che hanno passi robusti e dita raspose, quando ti danno la mano; e il vestito grigio o blu che si riempie delle loro spalle e braccia forti di muscoli da lavoro, non eleganti da palestra. Sembra un’assemblea di capitribù, questa a cui mi hanno invitato; ognuno di loro deve rispondere delle vite di altri, di un futuro non solo suo. Sono molto agitati, ma cercano di mantenere un contegno, discutono in piccoli gruppi, poi rientrano in sala.

Filaga è frazione di Prizzi, in una conca a più di 800 metri d’altezza, sui monti Sicani, la Sicilia più profonda, fra Palermo e Agrigento. Qui, padre Ennio Pintacuda, il gesuita protagonista di una stagione che vide grandi rimescolamenti di potere, a fine Novecento, fondò una scuola di politica. Arrivarci è già una lezione, e non scherzo: quest’isola resta un continente inesplorato; ogni cittadina, ogni casale pare reggersi su equilibri sociali continuamente discussi e diversamente riconfermati. Mi affascina la capacità dei siciliani di capire il potere con tanta finezza, per esercitarlo con tanta rozzezza. Il potere è il gioco dei siciliani, la loro industria; così come, altrove, l’industria è il potere di altri, il loro gioco. Stare al centro, anche geograficamente, di tante ambizioni e mire (troppo piccoli per essere uno Stato concorrente di quelli intorno; troppo grandi per esserne solo una quieta provincia), forse li ha educati ad accompagnarsi con chiunque, per restare se stessi. Ricordo molti anni fa, quando un collega francese mi chiese di aggregarsi mentre andavo a Racalmuto, per intervistare Leonardo Sciascia. Al solito, il professore ci aprì le menti. Il collega ne era giustamente ammirato. E mi domandava, al ritorno, da cosa potesse venire tanta capacità di analisi, di profondità. «Avresti dovuto fartelo dire da lui» risposi. «Non sono siciliano e non sono Sciascia. Ma una cosa salta agli occhi: c’è una distanza fra il meglio e il peggio che qui si produce, che non ha l’equivalente altrove.» So che suona come forma di razzismo all’incontrario, ma sembra che si operi una sorta di dilatazione delle anime e delle possibilità di agire. E se questo c’è, darwinianamente, le circostanze devono averlo reso necessario.

Nulla, come l’interno di certe isole annulla l’idea dell’esistenza del mare. I Sicani hanno picchi rocciosi, forse residui di perdute altezze; raggiungono i 1.500 metri, ma mentre li risali per strade malmesse e contorte, ti appaiono come oceano erboso, ondulazioni lente a vista d’occhio sui 1.000 metri scarsi. Sterminati campi di grano; la poca frammentazione terriera ti dice pure che dominano grandi aziende agricole. Era così già al tempo dei Romani.

Dopo di me, interviene il deputato del gruppo filo-berlusconiano Noi Sud, Arturo Iannaccone, che vuol parlare dell’impegno del governo per le grandi riforme: giustizia, intercettazioni... Non riesce a finire la frase; per gli agricoltori è davvero troppo; gli urlano che mentre le Camere lavorano per l’impunità del presidente del Consiglio, l’agricoltura va in fallimento. «Dobbiamo vendere il grano persino a otto euro al quintale!» Sono esasperati, si avvicinano al palco: si è rotto il freno, e tutti lo abbiamo capito... Il senatore Carlo Vizzini, fermo, riesce a interloquire (io mi limito a prendere appunti): lo incontreranno poi, per esporgli i fatti.

L’equivalente di quattro confezioni di gomme americane, otto euro, per cento chili di grano? «E quello che si compra per la semina costa il doppio. Si produce in perdita» dice Scarlata. «Ci fosse una giusta tutela nel prezzo, per il grano certificato, di nota produzione e provenienza, ci si potrebbe stare. Invece, tutto finisce nella stessa busta di pasta, mischiato a grano canadese, del Kazakistan o di chissà dove; figura tutto italiano. Perché dovrebbero pagartelo meglio? In Egitto, il lavoratore costa due euro al giorno, senza protezioni, contratti e contributi. Il pomodoro ciliegino egiziano, però, qui lo vendi a due euro come quello italiano, che deve essere prodotto con garanzie (per il pomodoro e per chi lo coltiva), che all’altro non sono chieste. Da quasi vent’anni la politica non fa nulla per l’agricoltura, specie per la commercializzazione dei prodotti» (mentre partorisce accordi con i Paesi nordafricani e non solo, che consentono l’importazione dei loro prodotti agricoli e l’esportazione di quelli industriali nostri. Come dire: sacrificare il Sanmarzano alla Punto).

Né si sentono garantiti dalle associazioni di categoria, strumenti elettorali dei partiti: «La Cia, la confederazione italiana agricoltori, per la sinistra; la Coldiretti, era per la Democrazia cristiana e ora non si capisce più per chi, per cosa; l’Unione agricoltori, per il centrodestra: poteri forti. E noi siamo soli». (Meno gli allevatori padani cari alla Lega, che hanno truffato sulle quote latte. «A quelli lo Stato paga pure le multe. Con i soldi nostri.»)

Cercano di resistere, ma ogni mossa pare ritorcersi loro contro. «Gli agricoltori avevano aderito a una grande società per commercializzare i loro prodotti in un mercato più ampio; alla fine, ne sono usciti: spuntavano prezzi migliori e introiti più sicuri sul mercato locale. Quanto agli allevatori, la sanità per la zootecnia è cosa ottima; ma la Regione Siciliana investe, nel settore, quattro volte il valore dell’intero parco zootecnico; abbiamo un decimo delle bestie della Francia, ma, per la sola Sicilia, lo stesso numero di veterinari addetti ai controlli. Avevamo fatto dei patti territoriali, quattro anni fa, per riammodernare tecniche, macchine, caseificio aziendale; preso impegni con le banche e in favore dei dipendenti, per garantire l’occupazione... Poi si fanno i prelievi e metà delle mie bestie risultano brucellose. A noi non viene data possibilità di controanalisi, non ci lasciano un doppione delle provette. Quindi, salva la buona fede, se tu sbagli, pago io? Gli impegni devi mantenerli, i redditi calano. Così, proprio le aziende più moderne, che avevano investito di più, sono in difficoltà. Le banche non ti fanno nemmeno entrare da loro, per riprogrammare i debiti. Che fine fai?»

Socrate ha un gregge di 500, 600 pecore. Un pastore. Lo era suo padre; lo era suo nonno: «Spero non lo siano i miei figli». E avverti il rammarico: a lui piace il suo lavoro; ma quale futuro?

Investire per sopravvivere: lo fai e ti metti nelle mani delle banche (la Sicilia, mi spiegheranno, è l’eldorado delle società di “performance”, che consigliano agli istituti di credito quando allentare o tirare il cappio al collo dei loro clienti, per portar loro via i beni dati in garanzia dei prestiti); dall’altra parte, hai lo Stato che ti ignora, tranne per i controlli (e quando controlla, ha in mente qualcosa; esattamente come quando non controlla) e gli obblighi fiscali.

«Le società di riscossione sono all’attacco di chi non può pagare» scrive un dirigente del Movimento dei Forconi, Mariano Ferro, che fa un elenco delle tagliole: «Le banche sono proprietarie di mezza Sicilia. La mafia nei mercati di tutta la Sicilia continua a muoversi indisturbata e sempre più potente. I centri commerciali degli amici dei mafiosi nascono come funghi, col benestare dei politici di zona, pronti a lucrare qualche decina di posti di precariato in cambio dei voti. L’Inps diffida; e, per finire, gli adempimenti burocratici allucinanti per stare in regola».

Le aziende agricole e zootecniche sono indebitate con l’Inps, perché non riescono più a pagare i contributi. «La cifra è enorme» dice Socrate, sono decine di miliardi di euro, «allora, l’Inps vende il suo credito ai privati, per il 6 per cento del valore (secondo altre fonti, l’8, il 10 per cento; N.d.A.). Un affare, per chi lo acquista! Peccato che da noi pretendesse il 100 per cento. Peccato, perché avrebbe potuto proporre a noi di estinguere il debito (e badi che non siamo evasori, ma nei guai) a quel prezzo! Peccato che ora, quei privati chiedano ai debitori di accordarsi al 30, 40, 50 per cento del totale.»

Il presidente del Centro di Azione agraria della Provincia di Foggia, Matteo Cartesiano, mi aveva avvicinato durante una presentazione di Terroni nella sua città, per porgermi dei documenti («Ho letto il suo libro, ci aiuti!» Io? Caspita, questa è disperazione vera!); poi me ne aveva inviati altri per posta elettronica. Rapporti, studi, tabelle piene di numeri sui costi delle coltivazioni e sui ricavi: a me, che non so leggere il mio conto in banca. Li avevo messi da parte. Li riprendo, metto il neurone sotto sforzo: le tabelle sono chiarissime (si chiama Cartesiano chi me le manda...), quei numeri sono il racconto di un fallimento programmato e inevitabile: si impennano i costi, crollano i prezzi. E gli agricoltori in mezzo alle due lame di forbice che si chiudono. C’è un inutile appello all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, già nel 2005, in cui si dice che, mentre Stato e Inps impongono obblighi, pena feroci sanzioni, molte industrie trasformatrici, «approfittando della loro posizione dominante», agiscono come un “cartello” e impongono prezzi di vendita assurdi del pomodoro: 6,5 centesimi al chilo, sino a 0 (zero) centesimi, con la minaccia di non ritirare il prodotto e far perdere ai coltivatori anche il contributo comunitario di 3,5 centesimi al chilo. Dopo aver letto e riletto, ho chiesto a mia moglie quanto paga i pelati: 1,60 euro, per otto etti sgocciolati («Puoi pagarli anche la metà, ma perché farsi del male?»). Forse è un prezzo giusto, forse no (ci devi calcolare lo spreco, il trasporto, il lavoro, il barattolo, l’etichetta, la commercializzazione...). Di sicuro, produrre a zero centesimi al chilo non deve rendere molto...

E, come sempre accade, il debole che viene schiacciato schiaccia chi è più debole di lui: mentre qualcuno cumula il superfluo, qualche altro, per salvare il necessario, lo toglie a chi ne ha ancora meno, sottraendogli l’indispensabile, la libertà, la vita. E, attraverso i “caporali” e la mafia nel ruolo di intermediari, si sono visti agricoltori meridionali schiavizzare gli extracomunitari nel Tavoliere, nella piana di Rosarno e altrove che non si è saputo, promettendo venticinque euro al giorno e dandone dieci o negandoli; pagando poche decine di centesimi “a cassetta”, quando la raccolta è alla fine e fai fatica a riempire dieci, venti cassette in dodici ore; rifiutando il lavoro a chi chiede il rispetto dei patti, picchiandoli, se insistono; uccidendoli se organizzano nella protesta i loro colleghi.

Quando finisci sulla zattera della Meduse (ricordate?: il naufragio più metaforico della storia dell’umanità, ai primi dell’800), ti salvi solo se butti i tuoi più sventurati compagni di sventura fra i denti dei pescecani; o fra i tuoi.

«I tribunali fallimentari stanno eseguendo la sentenza di morte dell’intero mondo agricolo! Questa carneficina si sta traducendo in una valanga di pignoramenti e vendite all’asta di un enorme numero di aziende agricole, decretando la morte di altrettante famiglie di agricoltori, per consegnarle nella mani di chi ha alte disponibilità economiche di dubbia provenienza, consentendo così a truffatori, corrotti, usurai, malavitosi, sciacalli di ripulire il “proprio” denaro»: è un passo di Agricoltura in Capitanata: Ultimo Atto, di Matteo Cartesiano. «E in queste condizioni di illegalità diffusa da parte di chi dovrebbe rispettare e far rispettare gli accordi presi col mondo agricolo che si chiede agli agricoltori di mettersi in regola con i contributi Inps, di rispettare le scadenze delle banche, dei fornitori, dei contributi di bonifica della Capitanata, delle imposte... tenuti sotto la costante minaccia dell’inesorabile Equitalia e dei tribunali fallimentari.» Mi raccontano di aziende bloccate perché macchine agricole da decine di migliaia di euro sono state “piombate” per insolvenze di poche centinaia di euro.

Un sistema che travolge i settori collegati (dipendenti, artigiani, commercianti, specialisti) e distrugge, «nell’indifferenza dello Stato, un’economia fatta col sacrificio e il sudore della fronte, per rimpiazzarla con quella precipitata economia virtuale truffaldina». A danno del Sud: Crisi o genocidio? era intitolato il rapporto inviato all’allora ministro leghista all’agricoltura, Luca Zaia, quello che impose a McDonald’s il panino italico, ma con formaggio veneto (un fallimento: uscì presto dal menu, forse manco Zaia lo mangiava). Ho raccolto la confidenza del titolare di un’azienda agricolo-alimentare di tradizione mediterranea che è un gioiellino, stimatissima all’estero, specie negli Stati Uniti: aveva vinto un appalto per fornire servizi a una multinazionale presente in Veneto. Al committente fu autorevolmente “consigliato” di disdire il contratto e stipularlo con un’azienda veneta. La multinazionale dovette adeguarsi. Chiesi al titolare dell’azienda meridionale penalizzata di poter divulgare il fatto. «Così finisco di lavorare anche nel resto d’Italia?» rispose lui. «Tanto, al Sud in un modo, al Nord lo stesso... Cerco di espandermi sempre di più all’estero. Che devo fare?»

«Io credo che le disgrazie non vengano da sole,» racconta con la sua sorprendente pacatezza il Socrate dei Sicani «qualcuno le aiuta. Le aziende agricole e zootecniche vengono sequestrate per debiti e vendute all’asta. Ci sono sentenze contro questo sistema, ma non cambia nulla: e sono indebitate, ripeto, proprio le migliori, che hanno investito per ammodernare. A gestire il tutto sono Equitalia e Serit Sicilia; e fra le banche, per esempio, Unicredit.»

L’Inps, che vende a Equitalia, è socio di Equitalia (non badate al nome, potreste farvi un’idea sbagliata). E chi si vede togliere l’azienda, che fa? «Il nostro agricoltore si vergogna di esternare, protestare, portare in pubblico la sua rovina. Gli sembrerebbe di andare in giro con il cappello in mano, di chiedere. Sono drammi e conflitti che esplodono nel chiuso dei cuori, dei muri di casa; con gli altri si dissimula. La dignità ne soffrirebbe. Al massimo, si aprono, raramente e con difficoltà, con l’amico.»

Lui, Giuseppe-Socrate, ha superato la trappola di questi pudori. Ti dicono di quando guidò il suo trattore per due giorni, sino a Palermo, per condurre una manifestazione di protesta.

«La vocazione del Sud è la terra» sentenzia. È stato fra i primi “tutori dell’ambiente”, d’intesa con la Forestale: preserva da incendi e frane i circa 1.000 ettari in cui conduce il suo gregge.

«Tranne l’agricoltura, non vedo grandi risorse, per il Mezzogiorno» sostiene.

Ma se va male! Mentre il turismo, forse... «Quello di massa, che si fa da noi, costa molto meno in Tunisia, in Marocco. Dovrebbe essere di qualità, ma non ci sono le infrastrutture. Sbarchi all’aeroporto di Catania e come arrivi qui? Le strade? I treni? Quando trascuri il territorio, all’inizio non succede niente. Per molto tempo può non succedere niente. Poi succede tutto insieme; e paghi tutto e tutto insieme. L’agricoltore che ha vergogna di protestare, gonfia, gonfia il fegato, e quando non ne può più, non fa un corteo: prende il fucile.»

L’agricoltura, al Sud, è Sud due volte. Quando il parmigiano è rimasto invenduto, il governo padan-leghista ne ha acquistato centomila forme, usando i soldi destinati alle aree sottoutilizzate del Sud.

«Ma soltanto i grandi produttori ne hanno tratto benefici; il vaccaro emiliano che a quelli vende il suo latte, tira la cinta come il suo collega siracusano» dice Socrate. E la geografia che lui traccia è soprattutto economica, perché si soccorre il ricco e si abbandona il povero. Ma è pure geografia e basta: «Quando è rimasto invenduto il pecorino, gli allevatori e caseari sardi sono stati randellati in Sardegna e hanno dovuto tenersi il formaggio: mica era parmigiano! E quando hanno preso il traghetto per portare la loro protesta a Roma, li hanno attesi e randellati in trasferta, a Civitavecchia, preventivamente...».

Non ci sono toni risentiti, rancorosi, irritati, nel racconto del pastore Giuseppe Scarlata, detto Socrate. Il suo è un discorso piano, chiaro, con termini appropriati. Sa farsi capire e non dice più di quel che serve. Cortese, equilibrato, attende la domanda ed è esaustivo nella risposta. E sta parlando di quello che può distruggergli la vita.

Incuriosito, chiederò ad altri che scuole ha fatto. Avverto imbarazzo: «...quasi zero» confidano, alla fine. «Ma non devi stupirti: Socrate ha una grande capacità di capire anche le cose non dette e di sintetizzare situazioni complesse. Quando andiamo a Roma, a discutere con il governo, mette in difficoltà ministri. Noi lo conosciamo, eppure riesce a sorprenderti sempre con il suo acume, la chiarezza con cui espone le idee. Alcune delle quali sono davvero notevoli. “Ma dove le trovi?” gli chiesi una volta» narra Calderone. «“Franco,” replicò lui “iu sugnu appress’a li piecuri di la matina a la sira. E tu mi voi livari puru di raggiunari?”»

Il giorno dopo, il panorama antico di questi monti lo guardi con altri occhi, mentre scendi al mare di Punta Raisi, per l’aereo che ti riporta altrove: altre luci, altri ritmi, altra velocità; è altra la civiltà, non interessata a quella che si dibatte per sopravvivere, appena oltre la montagna, se non per quello che può rendere la sua morte.

La fine del mondo è intesa come improvvisa e per tutti: una sorta di estrema forma di giustizia e ingiustizia collettiva, nel senso che tutti castiga, con o senza colpa; senza distinguere. Ma pure questa cieca forma di egualitarismo trova le sue smentite. La fine del mondo può essere lenta, combattuta, incerta; ed essere solo la fine di un mondo, il mondo di alcuni, non quello di tutti; e persino finire a vantaggio di un mondo contiguo e diverso, che non riconosce valori e radici di quello che muore, ma solo ne pesa le spoglie.

Aprile Pino - 2011 - Giù Al Sud
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