40
LE BANDIERE DI CASALDUNI
E PONTELANDOLFO
Il paese rimosse i simboli del nuovo potere savoiardo e il tricolore e ripristinò quelli borbonici e la bandiera duosiciliana. I bersaglieri rasero al suolo il paese e sterminarono gli abitanti che non erano fuggiti. Casalduni, 149 anni dopo, ricorda (come ogni anno, da qualche anno) il massacro che subì insieme a Pontelandolfo, appena più in alto, oltre la gola e la cascata dell’Alenta, che li divide. Questa volta, lo fanno invitando l’autore di Terroni a parlare del libro in cui viene narrata la strage, ignota alle pagine dei libri di storia (le vergogne si tacciono. E le colpe: «Il male» scrive Corrado Alvaro in L’uomo è forte «sono le cose che si fanno di nascosto»).
«Guardate che non vengo, se continuate a fare commemorazioni separate, voi e Pontelandolfo!» avevo minacciato, per la contesa ultrasecolare che oppone i due paesi: il secondo ritiene il primo responsabile della rappresaglia piemontese (i bersaglieri, malcondotti dal tenente Bracci e in fuga dagli abitanti di Pontelandolfo, furono uccisi da quelli di Casalduni); entrambi, per ordine del macellaio generale Enrico Cialdini, vennero distrutti; restarono in piedi solo tre case; le altre furono date alle fiamme, con la gente dentro; non si sa quante le vittime: centinaia? oltre mille? di più? Dopo le esecuzioni in massa, gli stupri e il saccheggio, su ottomila abitanti, si contarono tremila profughi. Degli altri non si sa.
Mi assicurano che troverò “tutti” all’incontro nel castello ducale che sovrasta l’abitato. Già entrando in paese, una teoria di bandiere tricolori, decine e decine, decora la strada che lo attraversa e conduce al maniero. Tante, ma proprio tante! Be’, ti credo, viene da pensare: dopo quello che gli è successo, l’ultima volta, che ne hanno tolta una...
L’orgetta tricolore continua nel castello, e fuori, e sotto la grande rupe spaccata, dove avvenne l’eccidio dei bersaglieri e c’è la lapide: «Casalduni ai Casaldunesi: Dall’alto del Maniero vedeste il fuoco lambire il mio corpo / L’odore agre spandersi e raggiungere i comuni compagni / Il nero del fumo ridipinge il mio profilo. / Non ci furono lacrime di dolore ad ingrossare le acque / del fratello Lente / ma solo rabbia, tanta rabbia / si pregò nella chiesetta di San Rocco / ed ebbi la consapevolezza di aver scritto / una pagina di storia e di libertà perduta». (Emblema e sintesi di quanto avvenne, per anni, in tutto il Sud; e ancora non si sa quante furono le vittime. I conteggi vanno da un minimo di 100, 140.000 a molte centinaia di migliaia. In nome della libertà. Come il rapporto, si direbbe, del generale Westermann, che a fine Settecento domò la Vandea: 350.000 morti su 500.000 abitanti: «Non esiste più la Vandea, cittadini! È morta sotto le nostre spade libere, con le sue donne e i suoi bambini [...] Non ho un prigioniero da rimproverarmi».)
Prima di entrare nel torrione, cerimonia dell’alzabandiera: un’altra! La tromba intona il silenzio. E potevano mancare le bandiere giusto nella sala della conferenza? Infatti, non mancano. Qualcuno potrebbe vedere, nell’esagerazione, una (nemmeno tanto) sottile corbellatura; invece è l’entusiasmo sincero di Nicola Bove, presidente della pro-loco; lo stesso cui si deve parte del lavoro di ricerca sulla storia del massacro, ma soprattutto la sua divulgazione in paese, poi nei paesi attorno, infine in trasferta, con il gruppo folk della pro-loco. Per dedicarsi a questo, ha abbandonato, appena ha potuto, la sua attività di mobiliere.
Il professor Enzo Gulì, uno dei relatori, esponente dei neoborbonici, alla fine non se la tiene: «Vabbe’, ma una bandiera duosciliana potevate mettercela!». «Mah, sai» replica Bove «per evitare polemiche... (moderna forma di rappresaglia, se vogliamo; N.d.A.). Ormai siamo tutti italiani». «Questo è fuori di dubbio,» insiste Gulì «ma quella è pure la nostra storia, mica la possiamo cancellare. Siamo italiani e “napolitani”.» «Italiani, napolitani e di Casalduni» interviene il sindaco locale, Raimondo Mazzarelli «e di Pontelandolfo» aggiunge subito, rivolto al vicesindaco ospite, Ferdinando Guerrera, per assicurargli che non intendeva escluderlo. Già, perché c’è pure lui (il sindaco di Pontelandolfo, Cosimo Testa, è convalescente).
Insomma, più il discorso si allarga, più la patria si restringe, e aumentano le bandiere, le ragioni inconciliabili e quelli che hanno ragione. Perché hanno ragione, ognuno a modo suo, come fai a negarlo? Siamo nel giorno del ricordo e della riconciliazione: un modo per uscirne bisogna trovarlo. E lo si trova; questo: la prossima volta, le bandiere devono esserci tutte, dai gonfaloni dei comuni a quella del passato, a quella del presente, a quella europea, «perché siamo di Casalduni, di Pontelandolfo, “napolitani” (non “napoletani”), italiani ed europei».
Se m’invitano di nuovo, mi porto quella dell’ONU, non si sa mai. E scopro che sto solo riciclando un’idea vecchia, quando, incuriosito, chiedo cosa indichi lo stemma al centro della bandiera delle Due Sicilie. Mi ritrovo con una dotta spiegazione di Domenico Iannantuoni (cui si deve il Comitato No Lombroso, contro il museo che lugubramente espone, a Torino, teste di meridionali) e un libro di Silvio Vitale. Siamo abituati a considerare una bandiera per i suoi colori. E un vessillo sembra raccontare, nella sua sintesi estrema, un’idea comune a un popolo, tanto che i calciatori della nazionale francese si chiamano “i Blu”, quelli italiani “gli Azzurri”, dal colore di casa Savoia. È come se le bandiere rendessero eterno il presente in cui un popolo e una nazione si riconobbero tali. Il che cancella il prima e trasmette l’idea che quel popolo e quella nazione furono sempre tali. Una bandiera così concepita impone un’identità: l’ultima, quella che ha vinto. E forse è quanto deve fare. Forse.
In quella duosiciliana campeggia, invece, un trattato di storia: ogni potere che si sia steso sul Sud, da quando divenne uno Stato unico, viene ricordato con l’insegna di chi lo esercitò. La banda rosso e argento in campo azzurro è dei normanni: uno di loro, Ruggero, dal 1130, fu il primo re del Paese meridionale; l’aquila nera su fondo d’argento è degli svevi, che lo ressero dal 1194 al 1266, quando subentrarono gli angioini, rappresentati da gigli d’oro in campo azzurro, sormontati da un rastrello e da una I che incrocia una H, fra quattro croci; ma, nel 1282, in seguito ai Vespri siciliani, l’isola passa agli aragonesi, che si presentano con fasce rosso e oro e aquile sveve, a indicare l’unione fra le casate; nel 1442, gli aragonesi succedono agli angioini anche a Napoli; dal 1502 al 1707, con la Spagna unificata dal matrimonio fra Isabella di Castiglia e Ferdinando II d’Aragona (quelli delle caravelle a Cristoforo Colombo), il Sud d’Italia viene interamente riportato alla sovranità ispanica dalle armi di Gonsalvo di Cordova e lo si riassume nello stemma in cui s’affastellano torri, leoni, bande rosso-oro, aquile e una rosa, a rappresentare tutte le casate coinvolte (non per nulla c’è pure la scritta: «Tanto monta» fa lo stesso; come dire: sempre robba nostra è). Su tutto si stese, poi, l’imperio di Carlo V, che fu sovrano di ogni regno e delle appena scoperte Americhe, il che comportò uno stemma di spaventosa complicazione, considerato che ogni possedimento e casato doveva comparirvi; attraverso lui, il Paese meridionale passa agli Asburgo e poi ai Borbone che, dal 1734, avviano la dinastia napoletana e duosiciliana (l’isola sarà prima data ai Savoia, che nel 1720 la scambiano con la Sardegna) e saranno loro, con i gigli, a restare sino al 1861.
La bandiera del Sud non rimuove la memoria dei predecessori, ma la ostenta come arricchimento: al centro, i gigli su campo azzurro dei Borbone delle Due Sicilie, ma, intorno, gli stemmi di tutte le casate e relativi popoli, che in più di sette secoli si fusero: di Castiglia e di Leon, di Borgogna (Antica e Moderna), di Aragona e Aragona di Sicilia, di Granada, Portogallo, Fiandra, Anversa, Brabante, di Angiò e Angiò Gerusalemme, e Asburgo, Farnese, Medici, più il medagliere che indica gli Ordini. Insomma, se sapevi leggere la bandiera, conoscevi la storia del tuo Paese. E, forse per non perdere il vizio, Nicola Bove, nel logo della pro-loco del suo paese, ha voluto inserire la scritta: «Casalduni, 14 agosto 1861 – Hic est locus», per dire: è qui che successe. Il nostro tricolore ha il pregio della semplicità, ma cancella tutte le splendide diversità di cui l’Italia è la somma, invece di menarne vanto. Diciamo che ci sono bandiere che ricordano e bandiere che dimenticano.
I discorsi, mentre sembrano alleggerirsi sulle bandiere, sono intensi, veri. È passato tanto tempo, ma bastano i toni a capire quanto la ferita resti profonda, e quanto pesi il discutibile privilegio di essere nella storia, per averla subìta. E ancor più pesa l’essere dimenticati, ignorati.
Ma rievocare un comune dolore induce alla pacificazione. E il momento arriva: parla il vicesindaco di Pontelandolfo: «Noi consideriamo gli abitanti di Casalduni nostri fratelli» dice.
È fatta! La cosa è più seria di quanto il mio tono faccia intendere. L’antagonismo fra le due comunità esisteva già prima che la strage le accomunasse e le dividesse ancora di più. Colpa della Madonna del Carmine. Se ne rinvenne un’immagine subito ritenuta miracolosa, disgraziatamente a metà strada fra i due paesi; ed entrambi ne rivendicarono il possesso. La cosa rischiava di finire male; ci si accordò un attimo prima del peggio, «lasciando fare alla Madonna» (lassa fa a’ Maronn). E ai buoi: nel senso che si caricò l’immagine sacra su un carro a cui furono aggiogati dei buoi, liberi di dirigersi dove volevano. La loro scelta avrebbe indicato quella del cielo, che non avrebbe certo lasciato al capriccio di due ruminanti una decisione così delicata! I buoi volsero su Casalduni. La presero male a Pontelandolfo. Il patto impone che il paese preferito ringrazi la Vergine, celebrando ogni anno e degnamente l’avvenimento; la prima volta che non lo facesse, la sacra immagine passerebbe di diritto all’altro borgo. Non solo la storia e il sangue, pure la devozione alla stessa Madonna li divide! Bove, da cinque anni, a scopo conciliatorio, ha «inventato una tradizione»: il palio della Madonna. Una squadra di Pontelandolfo e una di Casalduni si contendono il carro su cui è un gonfalone con la copia dell’immagine sacra contesa: chi riesce a spingere il carro oltre la linea di confine conquista il diritto, per il proprio paese, a custodire il gonfalone per un anno. Ma Pontelandolfo non ha mai vinto. La Madonna proprio non ne vuol sapere di andarci?
Capisco meglio, ora, le facce dei sindaci e degli abitanti degli altri paesi, ugualmente invitati e presenti (Ponte, Campolattaro, Fragneto Monforte, San Giorgio del Sannio...; ma con loro non ci sono contenziosi, né di sangue, né di santi), quando il vicesindaco di Pontelandolfo ha detto «consideriamo fratelli» quelli di Casalduni.
C’è anche il rappresentante del Comitato per le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia; potrà riferire, in sede nazionale, che dopo soli 149 anni, i due paesi eccidiati si sono finalmente riconosciuti figli della stessa storia. Addirittura fratelli (del Sannio, Italia). Chi pensasse che quale primo passo verso la nascita di una nazione non è poi molto (i comuni italiani, riconciliati i primi due, restano un po’ più di ottomila...), sbaglia: l’incontro più difficile è quello con i vicini. Dal Piemonte, avevano accettato l’invito a recarsi a Casalduni, prima di quelli di Pontelandolfo.
Ma l’anno dopo, 2011, 150° anniversario dell’Unità, fra i due paesi sembra tornare la guerra fredda: a Casalduni non c’è nessuno di Pontelandolfo, quando viene commemorata la strage, con due settimane d’anticipo (mentre da Torino giunge Diego Robotti, della Sovrintendenza archivistica del Piemonte e della Valle d’Aosta); a Pontelandolfo, il 14 agosto, non invitano quelli di Casalduni, ma interviene il presidente del Comitato per le celebrazioni del 150° anniversario, Giuliano Amato, che porta un messaggio a lungo atteso, da un secolo e mezzo: «A nome del presidente della Repubblica italiana, Giorgio Napolitano, vi chiedo scusa per quanto qui è successo e che è stato relegato ai margini dei libri di storia».
Con lui c’è Achille Variati, sindaco di Vicenza, la città di Pier Eleonoro Negri, il colonnello (allora) dei bersaglieri che condusse la mattanza. Domanda perdono.
Da mezzo secolo il Comune di Pontelandolfo chiedeva all’Italia il riconoscimento di città martire del Risorgimento. Mai nessuno, da Pertini a Napolitano, si era degnato di rispondere. Alla fine, nel 150°, il sindaco di Pontelandolfo l’aveva fatto da sé, con un suo atto ufficiale. Aveva pure scritto al suo collega di Vicenza, che ogni anno, a nome del popolo italiano, depone una corona d’alloro dinanzi alla lapide che celebra le imprese di Negri, pluridecorato eroe del Risorgimento, prima medaglia d’oro nella storia del corpo dei Bersaglieri. Gli era stato risposto che quando dal ministero diranno di smetterla...
Alla fine, l’Italia, per bocca del suo presidente (Napolitano di fatto e di nome) ha parlato. La colpa è stata ammessa, il silenzio rotto. Dimenticando Casalduni. C’è chi cerca la ragione di questo, forse politica (centrosinistra Pontelandolfo, centrodestra Casalduni); o il peso del sangue (il massacro grande fu a Pontelandolfo, dove il sindaco si allontanò sapendo, si sospetta, e non avvisando; mentre a Casalduni il sindaco avvertì i compaesani, che lasciarono in massa il paese, tranne gli increduli, i fiduciosi e i malati: tutti uccisi); o la competizione per conquistare il ruolo-guida quale santuario della memoria ritrovata.
Se tutte queste ragioni contano, contano poco, rispetto a un’altra: Casalduni è spesso stata più attiva, accogliendo con minor prevenzione i risultati delle pionieristiche ricerche di storici non professionisti, come Antonio Ciano (partito del Sud) e alcuni neoborbonici e no, che hanno riscoperto e riproposto la verità sulle stragi; mentre altrettanto faceva, a Pontelandolfo, Renato Rinaldi. E proprio a quest’opera condotta al di fuori dell’Accademia e contro le reticenti versioni ufficiali si deve, innegabilmente, la conquista e la diffusione di una consapevolezza divenuta, negli ultimi anni, talmente incontenibile, che mentre ancora alcuni tentavano di soffocarla, deriderla, il vice direttore del «Corriere della Sera», Pierluigi Battista, invitò Giuliano Amato (e, indirettamente, la Presidenza della Repubblica) a recarsi nei paesi eccidiati. Lo si è, infine, fatto, ma in modo da controllarne gli sviluppi e non rischiare di riconoscere meriti a chi è sospetto (a torto, prima o poi capiranno pure questo), di scarsa fede unitaria (per la partecipazione del presidente Napolitano al meeting di Comunione e Liberazione a Rimini, riferisce Adolfo Morganti, editore de Il Cerchio, in un incontro in piazza, in Veneto, è stata posta la condizione che nessun libro critico sul Risorgimento fosse presentato o messo in vendita nel corso del raduno. Lo si legge in un articolo di Giovanni Vinciguerra su Identitàeuropea.it).
Detto questo, Napolitano ha l’obbligo della prudenza, persino dell’inutile eccesso di prudenza, per i doveri che il ruolo gli impone. Il suo messaggio a Pontelandolfo resta: è la fine del silenzio.
Il sindaco di Pontelandolfo, Cosimo Testa, il 3 agosto aveva ricevuto, dal suo collega di Reggio Emilia, Graziano Delrio, copia del primo tricolore, accompagnata da queste parole: «Se giustizia non può essere fatta, perché i tempi sono troppo lontani, si può dire che 150 anni sono sufficienti per chiedere scusa per l’enorme lutto che fu arrecato ingiustamente».
«Non siamo stati terra di briganti, nel 1860» ha poi detto Testa ad Amato. E la frase può essere intesa in molti modi.
Ma se la rappresaglia venne ordinata dal macellaio Ciadini, fu perché popolo e “briganti”, anche a Pontelandolfo, rimossero tricolore e insegne sabaude. E sembra così strano lo abbiano fatto? Il paese che non aveva mai visto, sino a pochi mesi prima, quei soldati che parlavano spesso un’altra lingua, il francese, in nome di un re sconosciuto, facevano guerra senza averla manco dichiarata, si dicevano fratelli e agivano da conquistatori.
Cosa c’è di così pericoloso a dire una verità banale, come questa? Davvero la si teme tanto da doverne ancora prendere le distanze, distorcerla alla convenienza politica dell’oggi?
Il sindaco di Pontelandolfo ha comunque fatto bene, benissimo, perché ha ottenuto un risultato importantissimo; ma che il ricordo della strage sia stato diviso a metà lascia un amaro sapore: abbiamo ancora paura di parlarne con piena apertura, di ascoltare e far ascoltare chi è sospetto di un passo di troppo in avanti o indietro. Poco male, vuol solo dire che il tempo ha ancora del lavoro da fare. Ma il gesto più importante è stato compiuto.
Anche Pontelandolfo, come Casalduni, grondava tricolori il 14 agosto 2011. E va bene: abbiamo un Paese e quella è la bandiera. Ma non avrei lasciato quelle del Regno delle Due Sicilie nelle mani dei neoborbonici che le sventolavano. Le avrei messe io, per dire che nessuno è escluso e che quelle bandiere rappresentano una parte della nostra storia; così come avrei messo quelle del Leone di San Marco in Veneto: il tricolore è l’oggi, è quel che siamo; le altre sono quel che fummo, perché far finta che non esista il passato che ricordano e ci appartiene? È una ricchezza, un sapere e una consapevolezza in più, non un pericolo.
Sì, il tempo ha ancora del lavoro da fare; e speriamo di averne a sufficienza.
La cerimonia, a Pontelandolfo, si è svolta in piazza Concetta Biondi, una delle più giovani vittime della strage: la memoria rinchiusa negli archivi e nella cattiva coscienza comincia a scendere nelle strade, si appende alle targhe sui muri.
Dell’incontro ha scritto sul «Corriere della Sera», Gian Antonio Stella, vicentino pure lui. Il sindaco Variati, rientrando a casa, riferiscono miei colleghi veneti che mi chiedono un commento, ha detto che aver appreso come stanno le cose, impone di riflettere e decidere di conseguenza, perché a Pier Eleonoro Negri sono dedicate una strada e una scuola, nella sua città. Non so come andrà a finire, ma è bello ascoltare un parlare onesto. Questo è lo spirito con cui, a Nord e a Sud, dovremmo cominciare a leggere la nostra storia. La stretta di mano fra i sindaci Testa e Variati vale più di mille monumenti. Così, potremo, magari senza furbatine forse necessarie, ma penose, serenamente sfogliare anche le pagine che riguardano Casalduni, Campolattaro, Misilmeri, Gioia del Colle e le decine e decine di paesi trattati come Marzabotto da truppe che agivano così in nome dell’Italia, contro altri italiani: «pe llà è passata ’a storia d’a nazione / fino a ’u paese e nomme Casalduni / Quanno ’na notte senza nu pensier’ / venettero a fa’ fuoco i bersaglieri» cantano I Trementisti, con Tu nunn o saje chello che è ’o passato, di Fabrizio e Duilio Cusani. Ed è una canzone di oggi.
E, per altrettanta onestà, dovremo indurci a giudicare quegli scempi non con la più felice sensibilità di oggi, ma ricordando che quello fu un secolo feroce (cui fece seguito “il secolo delle stragi”) che vedeva nelle idee “sbagliate” un ostacolo intollerabile per il futuro dell’umanità; e meritorio, eroico era eliminare quelle idee, eliminando gli uomini che le sostenevano (come sapete, su presupposti del genere, è stato fatto anche di peggio, prima e soprattutto dopo). Così, forse, riusciremo davvero a ricostruire il percorso del fiume di sangue versato al Sud, all’ombra del tricolore. Che almeno, quel sangue, dopo tanto tempo, ci unisca, come Testa e Variati a Pontelandolfo. Senza aver paura delle parole, delle idee altrui (magari, cercare di capirle, prima di rifiutarle, aiuta) e dei raffronti: la sostanza dei fatti non muta, se diversa è la ragione che li genera.
Più volte e più di uno, sul «Corriere della Sera», critica il paragone fra Marzabotto, in Toscana, dove i nazisti, per rappresaglia, massacrarono, seviziarono, poi incendiarono il paese; e Pontelandolfo e Casalduni, nel Beneventano, dove i bersaglieri italiani, nel 1861, per rappresaglia, massacrarono, seviziarono, poi incendiarono il paese.
L’accostamento è stato visto come sacrilego: Marzabotto/Pontelandolfo, nazisti/bersaglieri. Ma né l’uno, né l’altro paragone sono miei:
– il primo è riportato da Paolo Mieli, due volte direttore del «Corriere della Sera», che il 14 aprile 2003 risponde a un lettore sulle stragi del Risorgimento e cita il libro Indietro Savoia, di Lorenzo Del Boca (presidente dell’Ordine nazionale dei giornalisti), cugino dello storico Angelo: «...e, sulla scia di un’osservazione fatta qualche tempo fa da Giovanni Russo (altro editorialista del «Corriere della Sera»; N.d.A.) nota: “Pontelandolfo fu una specie di Marzabotto, un atto di vandalismo senza motivo e senza giustificazione; però la storia di Marzabotto fa parte del patrimonio di memoria collettiva... mentre di Pontelandolfo sanno la gente del posto e il suo sindaco”. Sono d’accordo con Del Boca» conclude Mieli che, con Giovanni Spadolini, è il giornalista che più si sia dedicato alla nostra storia e con incontestabile obiettività;
– il secondo paragone è tratto da un classico di decenni fa: La conquista del Sud, del grande Carlo Alianello: «Finiamola di definirci i “buoni” d’Europa, e nessuno dei nostri fratelli del Nord venga a lamentarsi delle stragi naziste. Le SS del 1860 e degli anni successivi si chiamarono, almeno per gli abitanti dell’ex Regno delle Due Sicilie, piemontesi. Perciò smettiamola di sbarrare gli occhi, di spalancare all’urlo le bocche, a deprecare violenze altrui in questo e in altri continenti. Ci bastano le nostre, per sentire un solo brivido di pudore. Noi abbiamo saputo fare di più e di peggio». C’è da aggiungere: e prima.
Ho qui un elenco di 80 paesi, cittadine, casolari che patirono, o probabilmente patirono, insulti “risorgimentali”. Non di tutti esistono documenti che vengano dagli Archivi di Stato. Spesso, le fonti sono gli stessi rapporti di militari, o le storie locali, raccolte da volenterosi ricercatori; o, persino tramandate oralmente. In molti casi, gli archivi comunali da cui si dovrebbero attingere le notizie non esistono più. Bruciati. In alcuni casi, non esistono più nemmeno i paesi: mai rinati. È concepibile che ci siano vuoti di memoria così grandi nella storia di un Paese? Che in 150 anni non si siano ricostruite le vicende, pur brutte, che hanno coinvolto e sconvolto un terzo d’Italia, decine di centri abitati? Che, almeno, Pontelandolfo sia l’inizio.