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QUOTE SUD

Me l’avevano già fatta la domanda? Sì, ora che ci penso, sì. Quando? Sempre, ogni volta: «E le responsabilità della classe dirigente meridionale, allora? È sempre e solo tutta colpa del Nord?». E forse devo aver già detto che la classe dirigente di un territorio e una popolazione ridotti in condizione coloniale o semicoloniale (politici, manager, banchieri, intellettuali) può gestire il potere che gli viene delegato, solo se consenziente con progetti, idee e interessi di chi comanda davvero. È la situazione del Mezzogiorno d’Italia. «Comanda il Nord. Votato anche dal Sud, ma comanda il Nord» scrive Giovanni Floris, in Separati in patria. E perché il Sud vota il Nord?

L’azienda del Sud è posto pubblico e assistenza, più poco altro (le sue industrie e i commerci furono spazzati via dalle armi piemontesi e dalle leggi pro-Nord dell’Italia unita, allora come oggi; solo il 7,5 per cento della piccola e media industria è meridionale). Chi è in questa condizione, vota sempre per il governo in carica che gli garantisce il reddito. E la classe dirigente meridionale può intercettare e gestire risorse pubbliche solo se rassicura il potere dominante. Per riassumere: chi vota paga il suo reddito con l’acquiescenza; chi gestisce ricambia con la fedeltà il potere che gli viene delegato.

L’argomento si ripropone a casa di Antonio Ferraioli, a Cava de’ Tirreni (è amministratore della Doria, unica industria conserviera quotata in Borsa), dove Isaia Sales, autore di libri importanti sul Mezzogiorno, mi invita a dialogare con alcune decine di colti componenti di un club di lettori, orientamento progressista. Chi sintetizza il mio Terroni lo fa con competenza e profondità che ho raramente riscontrato in altre occasioni. Il tema lo coinvolge, al punto che all’inizio non riesce a parlare, si interrompe, ricomincia da un altro bandolo... Accade, quando troppe cose premono, dentro di te, per essere dette. Mi assicurano che non gli era mai successo. Quando ingrana, però, sviluppa il ragionamento con tale linearità e ricchezza di osservazioni, anche critiche, che mi induce a pensare: davvero se l’autore vuol capire cos’ha scritto, deve chiedere a un buon critico. Un testo contiene sempre più cose di quelle che pensi di metterci.

Ma alla fine, è quella la domanda: perché la classe dirigente del Sud non risolve il problema del Sud, visto che il Nord non ha interesse a farlo?

Provo a elencare: a cospetto della classe dirigente nazionale, che è tutta settentrionale, tranne tre o quattro infiltrati (ehm..., meno uno: mentre scrivo, il romano Cesare Geronzi, che da Mediobanca era passato alle Assicurazioni Generali, è stato imbottito di milioni e defenestrato), quella meridionale occupa linee di potere di seconda e terza fila o peggio, o solo locali.

Il Parlamento è a trazione nordica (candidati settentrionali vengono catapultati al Sud, raro il contrario); il governo è solo settentrionale, in particolare lombardo, specie milanese: la presenza meridionale è di rappresentanza o poco più, come la campana Mara Carfagna alle Pari Opportunità (di cui lei è esempio), la siracusana Stefania Prestigiacomo all’Ambiente, che il ministro Tremonti priva delle risorse ministeriali, senza manco avvertirla, o l’agrigentino Angelino Alfano, ex segretario di Berlusconi, ex ministro alle leggi ad personam (qualcuno dice: alla Giustizia. Noo! La Giustizia lo sa?); i capi dei partiti, tranne Antonio Di Pietro, sono tutti del Nord (mentre scrivo, Berlusconi nomina il suo ex segretario Alfano segretario del suo partito. E ora indovinate chi è il capo del partito); le banche tutte settentrionali o centro-settentrionali, come i loro dirigenti e quelli delle aziende di Stato o che dal potere statal-governativo dipendono (ENI, Ferrovie dello Stato, Terna, Autostrade, Poste, Lottomatica, Finmeccanica... ne fece l’elenco Floris); l’editoria nazionale è quasi esclusivamente del Nord; proporzione meno squilibrata nelle università, ma il ministro Gelmini ha varato strumenti “meritocratici” per rendere sempre meno efficienti quelle del Sud, e sempre più ricche quelle del Nord; quanto alla Confindustria, prevede, nella sua dirigenza, una quota di meridionali prossima allo zero (in cento anni di esistenza, ha avuto un solo presidente del Sud; ma, per bocca del suo presidente in carica, mentre scrivo, Emma Marcegaglia, in tutta la sua storia, non ha preso una decisione in favore del Mezzogiorno). Ho già fatto questo elenco, ma se le cose restano le stesse, come faccio a non ripeterlo?

Qualsiasi cosa il Sud debba fare, deve chiederla a un settentrionale: dalla finanza all’industria, alla politica, alle infrastrutture, al credito, ai servizi, all’industria culturale.

Il potere è interessato a conservare se stesso e a sapere di se stesso e chi vuol capire quanto qualcuno o qualcosa conti, misura lo spazio che occupa nei giornali, il tempo che gli si dedica nell’informazione televisiva. Ci sono agenzie che su tali dati elaborano indicatori di influenza. In questo senso, l’unico potere meridionale è il crimine organizzato. Per il resto, «il Sud è scomparso: dalla tv, dagli articoli di giornale, dalla stanza dei bottoni», notava Floris nel suo libro.

Non è una situazione inedita (non penserete dipenda dal fatto che i meridionali sono meno capaci dei settentrionali! Sì? All’uscita, potete ritirare il vostro cappuccio del Ku Klux Klan).

I Savoia non avrebbero potuto fregiarsi del titolo di re, senza la Sardegna (i loro feudi alpini non avevano dignità reale), ma l’isola fu sempre tenuta in condizione di colonia, subordinata, terra da cui prendere: niente investimenti, infrastrutture, scuole (il tasso di analfabetismo era il più alto d’Italia); i sardi erano esclusi dagli incarichi importanti. Il potere era tutto in mano a piemontesi. Sono forse meno capaci gli isolani, oggi? E perché avrebbero dovuto esserlo allora? Quando sei in vantaggio di potere, la posizione dominante ti permette di incrementarlo. E più cresce il divario in tuo favore, più è facile farlo aumentare ancora. Per questo nascono industrie dove ce ne sono già; e «solo chi ha i soldi può fare i soldi. La condizione dura sino a che non viene rimossa la ragione del divario: o la discriminazione imposta viene eliminata o chi la subisce se la scrolla di dosso (ex colonie come l’India e il Brasile, conquistato il diritto di disporre del proprio futuro, stanno entrando nel club dei primi Paesi della Terra).

Quanto ai sardi, Carlo Felice, che regnò dal 1821 al 1831, infranse il tabù che li escludeva (era stato vicerè dell’isola, li conosceva e apprezzava): «anziché riservare tutti i posti di responsabilità agli aristocratici piemontesi», scrive Martin Clark, in Il Risorgimento italiano. Una storia ancora controversa, «ne affidò un certo numero a sardi delle classi medie». Non solo sardi, ma nemmeno nobili, che vergogna, signora mia! E come andò? Bene, erano sardi, mica scemi.

In Lombardia, con gli austriaci, le cose non erano diverse. Mentre la nobiltà piemontese era coinvolta nella gestione dello Stato, gli austriaci mostravano poca stima per quella lombarda, che veniva esclusa dalla cosa pubblica. «Né erano in alcun modo riconosciute le capacità militari e amministrative, anche se dimostrate, di certi nobili, neppure a livello municipale» (sempre Clark). «E le massime cariche nell’amministrazione civile e giudiziaria erano riservate agli austriaci [...] Anche le classi medie erano vittime di discriminazioni. Gli avvocati dovevano uniformarsi alle leggi austriache, per cui erano tenuti a conoscere il tedesco; di conseguenza le cause più importanti (e lucrose) erano monopolizzate dagli avvocati sudtirolesi, generalmente bilingue. Le università e le altre scuole d’ogni ordine e grado dovevano seguire programmi stabiliti a Vienna. Insomma, per i lombardi il dominio austriaco finì col significare la sudditanza ad altezzosi forestieri.»

E si radicò la convinzione che i lombardi fossero inetti. Quando furono rimosse le cause che frenavano i loro talenti, mostrarono di cosa fossero capaci. Erano lombardi, mica scemi.

E in Veneto? Anche lì «i membri insoddisfatti delle classi medie – per esempio avvocati e medici che non riuscivano a trovare una sistemazione – divennero man mano più numerosi. I posti più importanti nella pubblica amministrazione erano occupati da austriaci, o da cechi, persino da lombardi» (addirittura!). Se i veneti “non riuscivano”, era colpa dei veneti o delle circostanze che negavano loro la riuscita? Tant’è che, rimosse quelle, e nonostante le penalizzazioni postunitarie, hanno fatto vedere quanto valgono. Sono veneti, mica scemi.

E i meridionali, invece, sì? Per questo non risolvono la “Questione” che li riguarda? Mentre i settentrionali acchiappano tutto loro, perché sono più bravi (non quanto gli austriaci, quando ci sono gli austriaci...)? O perché sono oggi nel ruolo in cui erano gli austriaci, quando i lombardi erano nel ruolo dei terroni?

Finché resterà la condizione subordinata del Sud al Nord, la classe dirigente del Sud avrà ruoli generalmente subordinati. Quindi non “risolverà”, perché dovrebbe distruggere la fonte da cui viene il suo potere delegato. Si può fare; ma si chiama rivoluzione o qualcosa che le somiglia. E può essere un grande, pacifico momento di acquisizione di consapevolezza, maturità. Succede, volendo.

Questi argomenti non hanno molta presa su chi, meridionale di talento, ha meritatamente conquistato posizioni di eccellenza. La sua personale esperienza, e la cosa è comprensibile, lo porta a ritenere che, se vali e hai la forza di dimostrarlo, riesci. E ci mancherebbe non ci fossero nemmeno le eccezioni! E questa sera sono con persone di successo, portati a pensare: se io ce l’ho fatta, tutti possono, volendo. Il guaio è che quel “volendo”, è anche il volere di un altro, non solo il tuo.

Ti dicono che ci sono stati ministri e capi di governo meridionali e potentissimi, vedi De Mita. E non è cambiato nulla. Hanno ragione, ma il governo e il suo capo non hanno il potere, lo gestiscono. Non è la stessa cosa (la stragrande maggioranza dei manager delle principali aziende italiane è meridionale, spiegava un dirigente della presidenza del Consiglio, a un convegno cui ho partecipato a Civitella del Tronto: hanno il potere di farle marciare, ma sono di altri).

C’è, fra gli ospiti, un alto dirigente di banca. Ha appena raccontato alcune esperienze legate alla sua professione, che dimostrano quanto pesi la subordinazione del Sud a interessi estranei al territorio e al suo sviluppo. È uno che conta; ma per chi? E lui lo sa e ne soffre, anche se non lo dice. Era del Banco di Napoli, poi assorbito dalla Sanpaolo di Torino (senza bersaglieri, questa volta, ma non ce n’era bisogno. Già quando fu unificata l’Italia, alle banche del Sud venne riservato solo il compito di rastrellare risparmio meridionale, da dirottare al Nord; nonostante il Banco napoletano fosse decine di volte più ricco e solvibile di quello piemontese).

Gli chiedo cosa accadrebbe se lui usasse i suoi poteri, non piccoli, nel gruppo bancario, per favorire la crescita di un’azienda napoletana possibile concorrente di una di Torino. Verrebbe sostituito subito o no? Lui tace, allarga le braccia. E immaginate se De Mita avesse preso una decisione contro gli interessi della Fiat o della Montedison (allora): il giorno dopo, sarebbe caduto il governo e De Mita avrebbe coronato la sua carriera come sindaco di Nusco (forse... A Giacomo Mancini è successo, per aver imposto la costruzione della Salerno-Reggio Calabria, a dispetto dell’Iri, che non voleva autostrade a Sud, manco quella schifezza della Salerno-Reggio).

Questo assolverebbe De Mita? No, la regola è: fa’ quel che devi, accada quel che può. Se, per esempio, i parlamentari meridionali non votassero le leggi della Lega contro il Sud, pur sapendo che non verranno ricandidati per l’impertinenza, il meccanismo che tiene il Sud subordinato apparirebbe più chiaro. Il male teme la luce: lo vedrebbero anche i distratti, i semplici, gli ingenui. Mentre i furbi e complici perderebbero alibi.

A marzo 2011, il Parlamento ha varato una legge perché almeno il 30 per cento dei componenti dei consigli di amministrazione delle grandi aziende siano donne. Sono le “quote rosa”; esistono anche in altri Paesi. Per impedire che un cretino e sprovveduto, solo perché uomo, rubi un posto importante a una donna intelligente e preparata, si impone per legge la possibilità che una cretina e sprovveduta, solo perché donna, rubi il posto a un uomo intelligente e preparato. Questi sono i guasti che si creano quando, invece di eliminare le eccezioni con una buona regola, si raddoppiano le eccezioni nell’illusione che si bilancino.

Insomma, se tutto il potere è settentrionale e non si vogliono riconoscere ai meridionali pari ed eque opportunità, anche senza essere Mara Carfagna, allora si pretendano le “Quote Sud”. La discriminazione nei riguardi delle donne è stata rimossa, perché nei centri del potere vero (Eni, Enel, Fiat, Telecom e altri) la loro presenza era zero; nei consigli di amministrazione dei più importanti titoli quotati in Borsa, la quota femminile andava dal 5 al 7,5 per cento. Non ammissibile in un Paese civile, moderno: le donne sono la maggioranza della popolazione, perché diventano minoranza etnica nella stanza dei bottoni?

La percentuale dei meridionali al vertice dei centri del potere vero è persino inferiore, prossima ovunque allo zero; nella gran parte dei casi, è proprio zero. E allora servono le “Quote Sud”, per equità e per non rischiare che quelle “rosa” portino a una finta perequazione, perché senza “Quote Sud” potremmo avere le “rosa” solo settentrionali. Come dire: altre Letizia Moratti, più Michela Vittoria Brambilla, più Maria Stella Gelmini...

E i meridionali verrebbero ancora esclusi; e le meridionali escluse due volte: perché del Sud, e perché donne (chissà se esiste qualcosa di peggio...).

Isaia Sales mi domanda se il successo di Terroni non sia pericoloso, visto che il libro è diventato riferimento per l’azione politica di partiti e movimenti diversissimi (dai “Terroni democratici” del sindaco di Bari, Michele Emiliano, a “Forza del Sud” di Gianfranco Miccichè), ma soprattutto di centrodestra. È una preoccupazione che condivido, ma Terroni non c’entra niente: io descrivo fenomeni sociali, non li creo; la sinistra (salvo ottime, ma isolate eccezioni) si limita a condannarli, se non le piacciono; il centrodestra, in modo politicamente svelto e senza troppe finezze, cerca di rappresentarli; magari usarli, persino per scopi esattamente contrari a quelli per cui quei fenomeni sorgono (come fare partiti del Sud, per votare con la Lega, come vuole la Lega, contro il Sud).

Ma con chi vuoi prendertela, se non con te stesso? Questi fenomeni si governano o si subiscono; tenersene lontani, per urlare che vanno in direzione sbagliata, serve solo a lasciare mani libere a chi li porta in quella direzione. La serata è stata meno lineare di come appare in questa sintesi, ma ricchissima di riflessioni. Tanto che in auto, esausto, è notte, avevo deciso di dormire, mentre il mio amico guida verso il Sannio. Invece scrivo sulla mia moleskine, per non dimenticare. Così ho perso il sonno e, pochi giorni dopo, la moleskine. Si è salvato qualcosa a memoria: per esempio, questa roba delle “Quote Sud”. Ma ho capito cosa sono le moleskine, visto che è la seconda volta che mi succede: se è vero, come dice Freud, che si perde solo ciò che si vuol perdere, allora la moleskine, i blocchi per gli appunti, sono il posto in cui stipi tutte le cose più importanti, per potertene liberare in un colpo solo. Se, invece, la sottrazione dei miei appunti era un esercizio di critica letteraria da parte degli dei («Mica vorrai scriverle davvero queste cose?»), be’, purtroppo per voi, gli dei hanno perso.

Aprile Pino - 2011 - Giù Al Sud
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