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IL DONO DEI VINTI
«Qualcuno ha rimosso il cartello che indica la strada per raggiungere il monumento al Sergente Romano. Che fare?» mi chiedono via Facebook. «Rimetterlo.» Si celebrano i 150 anni dell’Unità-si-fa-per-dire dell’Italia. Il Sergente Romano, di Gioia del Colle, mio concittadino, combatté e a lungo vinse, contro i piemontesi per difendere il suo Paese, invaso per essere annesso, in quanto colonia interna, a uno più grande (con feroce delusione dei tanti idealisti che l’Italia volevano una, ma equa). Ci dev’essere chi ancora non lo accetta.
Anche il Giappone moderno è nato dalla continua riorganizzazione di potentati locali, in strutture sempre più centralizzate, attraverso una serie di guerre civili; più o meno come accadeva, quegli stessi anni, negli Stati Uniti (questo processo di riaggregazione di strutture, pure attraverso cataclismi, in formazioni sempre più grandi, è tipico del nostro universo, non solo della nostra storia, o della nostra specie. Lo studia la Fisica. Si immagini ogni fase di questo percorso come un gradino; e che ogni gradino comporti spargimento di sangue per l’eliminazione dei sostenitori del vecchio ordine (lo scontro avveniva in nome della lealtà diversamente intesa a dinastie imperiali: magari la stessa, per entrambi i contendenti).
L’ultimo conflitto, scarso un secolo e mezzo fa, quasi contemporaneo al nostro Risorgimento, fu il più feroce: contrappose i due più grandi leader del Giappone, amici d’infanzia, colleghi di una vita; scatenò una guerra civile fra eserciti di decine di migliaia di uomini e si concluse con la restaurazione della dinastia Meiji. Una curiosa restaurazione che portò il Giappone a dismettere quasi tutto di quel che era, per occidentalizzarsi con efficienza e rapidità che ancora oggi stupiscono il mondo. Questo capolavoro di accelerazione storica, sociale ed economica fu merito di un vero genio politico, Okubo Toshimichi: a lui il Giappone deve, in gran parte, il suo posto, oggi, fra i primi al mondo, e di non essere rimasto un delizioso museo di se stesso: bello, colto, arcaico e perso.
Lo sconfitto da Okubo, come lui rampollo di una modesta dinastia di samurai (venivano dalla stessa, molto periferica città), si chiamava Saigo Takamori: morì nella decisiva battaglia di Shiroyama, nel 1877 (avete visto il film L’ultimo samurai? È tratto dalla sua storia). È forse l’uomo più amato della storia del Giappone; secondo una duratura leggenda, in realtà, egli sopravvisse alla battaglia e tornerà per eliminare le ingiustizie, quando sarà il momento: è la stessa leggenda che sorse a Gioia del Colle, dopo la morte del Sergente Romano, l’alfiere del V Reggimento borbonico che (investendo tutti i suoi risparmi, era di famiglia benestante) raccolse i suoi ex commilitoni, dette filo da torcere all’esercito savoiardo e riconquistò molte città, prima di essere catturato e ucciso. Pure lui, come Saigo, sconfitto per lealtà al suo re.
A Saigo, ferito gravemente, i suoi seguaci tagliarono la testa, per salvarne l’onore di samurai.
Il corpo del Sergente Romano fu fatto a pezzi a sciabolate dai vincitori (aveva chiesto di essere finito da soldato, gli risposero: «No, da brigante!»).
La testa di Saigo Takamori fu ritrovata dall’esercito governativo e ricomposta con il resto del corpo, con le cerimonie e gli onori dovuti al più nobile dei samurai.
Il corpo del Sergente duosiciliano Pasquale Domenico Romano, spogliato della sua divisa, fu ricomposto dai vincitori nella piazza del suo paese, dinanzi alla casa della madre, e lasciato a imputridire in pubblico (i fratelli liberatori e civilizzatori del Nord usavano decapitare i “briganti” e portarsi via le teste in gabbiette preparate apposta, quale macabro trofeo o souvenir da donare ad amici “scienziati” che studiavano i caratteri del perfetto criminale, che poteva essere solo del Sud. Nel caso di Romano, però, la testa andava esposta, perché tutti vedessero che era morto. La gente non ci credette lo stesso).
Il nobile Saigo, una decina di anni dopo la sua morte, venne innalzato a più alta dignità da chi lo aveva combattuto e sconfitto (in Giappone è possibile essere promossi, nella gerarchia statale, anche “alla memoria”); e gli fu dedicata una statua in bronzo, eretta a Tokio, nel parco di Ueno: è ancora lì, oggetto di venerazione.
Il Sergente Romano, le cui qualità umane e militari furono ufficialmente riconosciute (ma in seduta segreta) persino dal Parlamento di Torino, è passato alla storia infamato quale “brigante”, come decine di migliaia di meridionali che si opposero all’invasione del proprio Paese, il Regno delle Due Sicilie, e furono sconfitti.
Il 2006, per iniziativa di comitati duosiciliani, nel bosco in cui il Sergente Romano fu ucciso, è stato eretto un obelisco in onore del valoroso alfiere e, da allora, ogni anno, il 6 gennaio, giorno della sua morte, c’è una cerimonia in ricordo.
A ogni gradino del cammino del Giappone verso la modernità, corrisponde un eroe sconfitto, amato, venerato; e un vincitore disistimato, a volte persino diffamato, vilipeso. Non soltanto dal sentimento popolare, ma persino dalla storiografia ufficiale, accademica.
È un fenomeno molto interessante, analizzato da Morris Ivan in La nobiltà della sconfitta: il Giappone è quel che è, e non un reperto culturale, grazie a quei vincitori; ma l’ammirazione e la gratitudine del Paese vanno ai vinti, generalmente immolatisi, armi in pugno, in clima di santità, o con sereno sventramento da harakiri. Tutti, o quasi, erano di remota periferia, spesso chiamati a corte, a grandi responsabilità di governo, e talvolta persino sottrattisi a tale privilegio.
Come si spiega questo culto per gli sconfitti? Provo a suggerire una risposta: i vincitori diedero al Paese un’organizzazione; i vinti un’anima. Lo dico diversamente: i vincitori fecero del Paese uno Stato; i vinti una nazione. Lo Stato fu grande, e ancora lo è, perché seppe conservare il meglio degli uni e degli altri, incamerando lo spirito dei vinti, nella struttura costruita dai vincitori. Al punto che quegli sconfitti furono quasi tutti promossi, dopo la morte (in Giappone, ripeto, succede), a gradi sempre più alti, nella burocrazia imperiale, sino a superare, in alcuni casi, quello dei loro vincitori (ed erano loro a promuoverli!). Alcuni di quei perdenti furono addirittura deificati; e nei templi a essi dedicati andavano a pregare quelli che li avevano sconfitti. E sapete cosa è venerato come “spirito divino” in quei vinti? L’aver combattuto con coraggio e lealtà una battaglia che sapevano persa. Questo rende l’onore del vinto più grande di quello del vincitore. Il quale aveva, più dell’altro, solo la forza (e non fu sempre vero: molti di quegli sconfitti erano privi di capacità organizzative, strategiche, militari; diciamo che, tecnicamente, non erano sempre all’altezza dei loro ideali, né dell’idea che contemporanei e posteri ebbero del loro valore).
Questa l’anima del Giappone, in cui esso si riconosce come popolo.
E questa fu la ragione per cui l’allora viceammiraglio Onishi, alla fine del secondo conflitto mondiale, costituì le squadriglie di piloti kamikaze (il “Vento Divino”), contro la flotta statunitense (non so in giapponese, che ho studiato, ma non a sufficienza, ma in latino, “spirito” e “vento” sono sinonimi e resi da una sola parola: animus).
La guerra era irrimediabilmente persa, ma il sacrificio dei piloti suicidi avrebbe testimoniato del maggior valore etico dello sconfitto Giappone, rispetto ai vittoriosi Stati Uniti. I giovani piloti andavano a schiantarsi contro le navi nemiche, ispirandosi ai poemi del grande Masashige e di Saigo: il primo e l’ultimo dei più venerati fra i vinti. Naturalmente, il viceammiraglio Onishi volle che la ragione fosse chiara; e non poteva limitarsi a dirla. Così, quando il Giappone si arrese, si aprì la pancia come gli amati samurai delle battaglie perdute: si sventrò con due tagli incrociati, poi sfilò la spada e si colpì alla gola e al petto. Sfortunatamente, l’arma era mal affilata e Onishi agonizzò per una notte e un giorno, prima di spirare: ebbe il tempo di respingere, con ironia e umorismo, le offerte di soccorso ed emulazione (non potete suicidarvi, disse ai suoi giovani sottoposti, qualcuno deve ripopolare il Paese!), di comporre una poesia e ricordare, a chi lo assisteva, il senso di tutta la faccenda. Perché il Paese salvasse, nella disfatta, la coscienza della propria unicità, la sua ragione di essere: il dono dei vinti.
Anche l’Italia è nata da un bagno di sangue (si nasce tutti nel sangue, scusate se lo ricordo: quello di nostra madre, poi, però, ci lavano, ci allattano, ci accolgono in famiglia); ma gli sconfitti della nostra storia sono stati esclusi e diffamati: combatterono per il proprio Paese, i più erano soldati che tennero fede al giuramento, con le loro divise, i loro gradi, le loro armi, le loro bandiere. E li chiamarono briganti: ce n’erano, come ce n’erano dalla parte dei vincitori; ma quelli sono entrati nella storia come eroi.
Con gli sconfitti, l’Italia ha voluto condannare un intero periodo storico; a tutto il Paese chiede di dimenticarlo e, a una parte, anche di vergognarsene. Quella memoria amputata è una ferita nascosta e amputa pure il senso di appartenenza alla casa comune; perché è come se gli italiani del Nord e del Sud non facessero parte dello stesso Paese: i primi hanno vinto e ci tengono a ricordarlo; i secondi hanno perso e si fa di tutto per ricordarglielo, pretendendo che derivi, da questo, un minor diritto a tutto: ad avere strade, ferrovie, cure, rispetto, equità.
La storia del Piemonte è storia d’Italia; quella di Venezia è storia d’Italia; quella di Roma è storia d’Italia; quella del Sud è storia dei meridionali, storia brutta: da tacere, agli stessi meridionali. La storia d’Italia non vuole, come parte di quella comune, la storia del Sud. Che se la tengano, i meridionali; e se la meritano, i meridionali; e la ignorino, se saggi. E se vuoi insultarli, chiamali borbonici.
Saremo un solo Paese, quando la storia di tutti gli italiani, incluso il Sud, sarà storia d’Italia, storia di tutti.
Quando e se questo avvenisse, l’Italia si unirebbe davvero, grazie a quel che le è mancato per essere una, come il Giappone: il dono (e le ragioni, e il rispetto) dei vinti. Allora, come al nobile e perdente Saigo (ma tanto più tardi), forse anche al Sergente Romano verrebbe eretta una statua.
Ho appreso da Luigi Zoja che “onore” ha la stessa radice di “onestà”, perché entrambe le parole «derivano dal latino honos: una parola le cui origini sono oscure» (come dire: non sappiamo nemmeno da dove nascano onore e onestà; eppure, tutti sappiamo cosa sono, per la curiosa regola, secondo la quale, mi vien da dire, solo quel che è davvero certo risulta indefinibile).
Al nostro Paese è mancata sinora l’onestà di rendere onore ai vinti.