29
ZITARA
«Ti vuole conoscere» mi dice Pasquale Zavaglia, suo allievo prediletto. Nicola Zitara è ormai un esserino scarnificato, nel letto che condivide con il cancro che lo sta uccidendo; i tubicini che escono dalle lenzuola nascondono l’indecenza del male sotto la brandina. Ma gli occhi, nerissimi, enormi olive senza distinzione di colore fra pupilla e iride, sono di vivezza e intelligenza giovani e roventi.
Piccola, modesta, la sua casa: un cancelletto, un giardino minimo, una stretta aiuola da cui Lidia, la figlia di Nicola, trae aromi mediterranei e agrumi (scrive di giardinaggio); un saloncino, la cucina. E lui, nella stanza, sereno, minuscolo, lucidissimo. Lessi il suo primo libro che ero poco più di un ragazzo; lo incontro solo ora.
Gli porgo la mano. «Gira da quest’altra parte» fa «voglio abbracciarti. Sei stato bravo.» I suoi estimatori lo venerano, solleciti e discretissimi. Quando escono, per lasciarci soli, li segue con lo sguardo: «Tutto questo affetto, queste attenzioni...» mormora «non credi che stia ricevendo più di quel che merito, proprio mentre me ne vado?». È come se osservasse la sua condizione da estraneo. «Ti dà fastidio se fumo?» Non rinuncia. E perché dovrebbe? Ha ragione lui, a questo punto.
Mi parla del libro cui dette inizio tanti anni fa e che è riuscito a scrivere, nonostante la chemioterapia, i lunghi periodi di inabilità, la scomodissima infermità che gli rende penosi movimenti modesti, persino raggiungere il pacchetto di sigarette (e ti precede, per evitare di essere aiutato), figurarsi i libri che rendono l’intera casa, e persino la stanza-ospedale, un unico, contorto corridoio di biblioteca. Sta correggendo le bozze: «Non riesco a licenziarne più di venti pagine al giorno». Gli è difficoltoso pure leggere; lo aiutano moglie e le figlie (l’altra è Grazia), che custodiscono il congiunto come un bene pubblico loro affidato dalla comunità.
Ha ricostruito oltre due secoli di politiche bancarie e di finanza, da prima della nostra storia unitaria in poi, con la spoliazione scientifica del Sud. «È necessario anche fare un’antologia della malefatte a danno del Mezzogiorno» dice. «Io non potrò. Devi farla tu. Tu e uno storico; tu per la capacità divulgativa giornalistica, lo storico per il dettaglio documentale, la cui ricerca potrebbe riuscirti troppo dispendiosa.» Non so se si rende conto che sono vuoto, in questo periodo, incapace di progettare e fare: aspetto che dal sentire confuso emerga l’idea che porrà le altre in secondo piano. Non rispondo (ma è dal racconto del nostro incontro che ricomincio a scrivere).
Finiamo per parlare di identità; e mi narra una storia. «Ero giovane, insegnavo a Cremona, ero solo. Feci amicizia con un collega di qualche anno più giovane, ne avrà avuti ventisei, ventisette. Era figlio di un calabrese mai più tornato nella sua regione. E della quale, lui, nato al Nord, non sapeva niente. Ne apprendeva da me. Quando tornai giù, mi seguì; lo accompagnai a Sant’Eufemia d’Aspromonte, il paese della sua famiglia. Immagina cos’era più di mezzo secolo fa, con gli escrementi delle greggi per le strade, le misere case di pietra. E lì incontrò, per la prima volta, i suoi cugini: era un professore del Nord, ben vestito, di forbito parlare; i parenti erano semianalfabeti, poveri, mani callose e sporche di terra e lavoro, sudore; intimiditi dal giovin signore che avevano di fronte. Lo portarono dinanzi alla casa che era stata del nonno, quella da cui era partito suo padre. E lì accadde qualcosa che ancora oggi mi sconvolge» e mentre lo dice, ma senza che la voce ne sia incrinata, comincia a lacrimare, con due rivoletti che scorrono veloci e gonfi («Non badarci» si giustifica «succede ai vecchi»). «Il mio amico cominciò a tremare, si avvicinò alla porta, cadde in ginocchio e scoppiò a piangere, con il viso fra le mani. Rimanemmo tutti muti, i suoi stupiti e ritrovati parenti e io. Tornò altre volte. Infine, riportò al paese anche suo padre.»
C’è una potenza del sentire che il tempo, la distanza possono nascondere, ma da cui non riesci ad allontanarti tanto da perderne la radice. Nicola vuol dirmi che la tua natura prima o poi ti raggiunge. Ha poco tempo, troppo poco, per poterlo sprecare in chiacchiere. Quel suo amico potrebbe essere metafora del nostro Paese e del passato: mentre credi di perderlo, gli vai incontro.
Conoscete la sindrome del portaordini? Egli dovrebbe, come l’araldo che corse da Maratona ad Atene per annunciare la vittoria, morire molto prima, ma il compito da svolgere lo tiene in vita, a dispetto di tutto (disidratazione, ferite, fatica). Infine, arriva, consegna il dispaccio («Abbiamo vinto!») e crolla.
Nicola ha chiuso gli occhi dopo aver licenziato l’ultima pagina. Aveva ottantatré anni.
«Questa è la storia. Non ne esiste una diversa» scrive a chiusura del suo capolavoro e della sua vita. La storia di com’è nata davvero l’Italia, 150 anni fa; e non somiglia a quella che continuano a raccontarci. La sua casa editrice, la Jaka Book, mi invia il volume, prima che esca: L’invenzione del Mezzogiorno, una storia finanziaria, monumentale ricostruzione (quasi 500 pagine) di due secoli di finanza: da quando l’Italia era divisa in più Stati, a quando divenne una. Nicola mostra come, dietro un pugno di idealisti, tricolore e inno di Mameli, c’era una questione di soldi. Al solito. E lo spiega con una serie impressionante di dati, documenti, tabelle.
Forse mai sono state elencate con tale chiarezza le prove della spoliazione del Sud d’Italia, per pagare i debiti del Piemonte («non avrebbe retto sei mesi ancora») e avviare l’industrializzazione del Nord (ancora due anni dopo l’Unità «non esisteva neppure l’ombra di un moderno capitalismo tosco-padano»). Abbondanza di documentazione necessaria «in un paese come l’Italia, in cui la narrazione storica sembra l’arringa di un pubblico ministero che deve mandare in galera il Sud a ogni costo».
Zitara, già imprenditore, insegnò Diritto ed economia prima di darsi al giornalismo, alla politica e allo studio del dislivello Nord-Sud. «Per la verità storica» scrive «in quei fotogrammi in cui si costruisce l’immaginario industriale di uno scolaro, come navi e treni, il Sud non stava dietro al Nord; al contrario lo sopravanzava, e di parecchio. Un solo esempio: quando il Piemonte prese a dotarsi di ferrovie, fu a Napoli che comprò le prime locomotive.» Il Regno delle Due Sicilie (che per i suoi traffici puntò sulla flotta, più economica: «le prime esportazioni del Made in Italy») avviò la modernizzazione della sua economia nel 1831; il Piemonte, vent’anni dopo. Una libertà da cui furono «esclusi il Veneto, i Ducati, la Lombardia» terre non indipendenti.
Zitara spiega che mentre il Sud puntò sulla produzione di merci, poche tasse (le più basse d’Italia, immutate per oltre un secolo), gestione economica prudente e solida, il Piemonte preferì la speculazione finanziaria, l’inflazione, l’indebitamento squilibrato con banchieri stranieri, i Rothschild e altri (in rapporto all’oggi, sino a dieci volte il deficit italiano). Sull’orlo della bancarotta (lo scrisse il braccio destro di Cavour) espandere il Regno divenne una necessità, per trovare chi pagasse i debiti. L’azione coincise con il desiderio di chi voleva unificare il Paese. Mentre alcuni fuoriusciti duosiciliani portavano a Torino le conquiste della cultura meridionale, fondando pure lì cattedre di Chimica ed Economia politica (nata a Napoli, come l’archeologia, la vulcanologia, la moderna storiografia. «Le quattro università meridionali avevano» scrive Zitara «oltre due volte gli iscritti dell’Italia restante»: 10.000, contro poco più di 4.000).
Il vero protagonista del libro è Carlo Bombrini, passato alla storia come patriota, finanziatore delle guerre di indipendenza, per conto di Cavour e del Piemonte, prima con la Banca di Genova, poi con quella degli Stati sardi, infine a capo della Banca nazionale. In realtà, un vero filibustiere, per Zitara «il massimo dei profittatori del regime» per il saccheggio dei beni degli Stati via via annessi, poi delle casse italiane, con la corruzione degli apparati statali e di parlamentari (resterà nel dna italico, sino a Enrico Mattei, le P2, le P3, le P4...).
Agisce quale capofila di una consorteria di speculatori liguri, piemontesi, lombardi e (in un secondo momento) toscani.
Il che comporta:
1. la distruzione della sola area industriale che esisteva allora in Italia (seppur modesta, rispetto alle dimensioni in altri Paesi europei): quella napoletana; mentre la genovese Ansaldo, abbandonata in soli tre anni dai suoi fondatori, risorge a spese dello Stato, ma stenta contro le officine napoletane di Pietrarsa, più antiche ed efficienti, meno costose, grandi il doppio (la Breda nascerà 44 anni dopo; la Fiat dopo 57);
2. la spoliazione, a mano armata, della «più solida e moderna banca esistente nell’Italia del tempo»: il Banco delle Due Sicilie (con tesoro grande decine di volte quello della banca di Bombrini). Il sistema bancario napoletano era ritenuto «uno dei meglio affinati del mondo» e «tra il 1831 e il 1859, il Banco promosse più attività produttive di quante ne creerà la Banca Nazionale nei trent’anni compresi fra la sua imposizione agli italiani (1859) e il suo dissesto (1892)». Banca tanto Nazionale, da impiegare 143 lire per ogni ligure, 6 per ogni abruzzese, zero per ogni lucano;
3. l’arricchimento di pochi, grazie a una serie di svalutazioni della lira per eccesso di moneta circolante e alla svendita di titoli di Stato;
4. il ritardo di circa trent’anni della nascita dell’industria padana (dopo l’Unità, non prima, a parte le filande), visto che la facile rendita parassitaria era più conveniente della produzione di merci. E anche quando nascerà, iperagevolata, favorita dal monopolio o quasi delle commesse statali, il vizio d’origine perdurerà. E perdura.
«Il Sud è prostrato» da tutto questo, conclude Zitara; il vantaggio che il Nord ne trae è miope; ma il dissesto provocato da tale malaeconomia (scandita da noti scandali finanziari) sarà pagato con le rimesse dei milioni di meridionali costretti a emigrare, dopo l’Unità d’Italia, per la prima volta nella loro storia.
È un libro di spaventosa franchezza, questo di Nicola, sarcastico. L’autore avverte che tali cose «si sanno», ma si evita di dirle; preferendo, per ignoranza, “carità di Patria” o pelo sullo stomaco, una edulcorata rappresentazione degli eventi da cui è nato il Paese. L’invenzione del Mezzogiorno è l’opera più importate di Zitara, che ha dedicato la vita a questi temi (in L’Unità d’Italia, nascita di una colonia, rieditato dopo quasi quarant’anni, recuperò, aggiornandoli, studi dei meridionalisti classici, sulla riduzione del Mezzogiorno a regione gregaria del resto del Paese).
Quando un maestro muore, il suo insegnamento rimane; per questo non si può dire che i maestri muoiano mai, davvero. Zitara ha spiegato, sino all’ultimo, in quali modi l’economia tiene soggette regioni della Terra condannate a ruoli subordinati. Come il nostro Mezzogiorno. «Sul piano teorico» ricorda «la tematica del colonialismo interno è giunta in Italia dall’Inghilterra»; ed è facile comprendere come mai si sia sviluppata proprio lì una linea di studi politico-economica sulla creazione e lo sfruttamento di “colonie interne”, basti pensare a cosa è accaduto, per secoli, in Irlanda, Scozia, Galles... Nicola cita quanto scrisse in proposito Michele Abbate, profondo osservatore di questi fenomeni. L’ufficio di Michele, alla «Gazzetta del Mezzogiorno», responsabile della cultura (fu il primo a far scrivere, su un quotidiano, un promettente maestro di Racalmuto, tal Leonardo Sciascia), era accanto allo stanzone della cronaca cittadina; ma per noi giovani giornalisti, quello era un tempio, zeppo di libri dai titoli impossibili, che lui promuoveva o bocciava, in ieratica solitudine. Era il vecchio della montagna («Hanno tradotto il libro di Michele in cinese!»: e neppure so più se era vero. La Cina di Mao, non questa delle Ferrari di plastica).
Abbate spiegava quanto fosse superficiale e sbagliata l’idea diffusa e radicata che divide il mondo in Paesi colonizzatori e Paesi colonizzati: «il colonialismo non è soltanto una pratica esterna del capitalismo monopolistico. Esso è infatti innanzi tutto una sua pratica interna. Le sue prime vittime non sono le nazioni sfruttate, oppresse, smembrate, ma proprio le popolazioni, o una parte delle popolazioni dei paesi dominanti: cominciano riducendo a colonia parte dei loro connazionali». Con coloritura nostrana, per quanto ci riguarda, perché «Il colonialismo interno italiano ha un carattere singolare: come forza efficiente è azionato dal sistema industriale padano, come cultura e consenso politico appare un carattere intrinseco degli intellettuali meridionali». E di questo (classe dirigente e intellettuali del Sud che affiancano, nella riduzione a colonia del Mezzogiorno, il monopolismo economico del Nord), forse ci eravamo accorti... L’invasione del Sud, in nome dell’Unità, non fu impresa coloniale “in terre selvagge”, spiega Sante Bagnoli, nella nota editoriale che accompagna il libro postumo di Nicola «ma di conquista su terre competitive col Nord; un Nord dove spesso la condizione contadina era peggiore».
La storia stessa della famiglia di Nicola Zitara è sintesi di quello che il Nord ha fatto al Sud, approfittando dell’ideale unitario: i parenti di parte siciliana, industriali, videro le loro attività declinare velocemente, per le scelte nord-centriche del governo “nazionale” (accadde ai Florio, una vera potenza economica, figurarsi gli altri). Ma ancora più illuminante la sorte del ramo campano, che mosse dalla costiera amalfitana: commerciavano in prodotti agricoli, principalmente olio, con la costa jonica calabrese, dove avevano posto una loro base operativa. L’attività crebbe velocemente, al punto che divennero anche armatori (i velieri); banchieri (anticipavano, comprando “sulla stima” il raccolto); rinnovatori sociali: i contadini usi a trarre dalla propria terra il fabbisogno per la famiglia, si convertirono, per convenienza, alla coltura specializzata, il che li mise nella condizione di dover acquistare quel che non producevano più da sé; potevano farlo, grazie ai soldi anticipati dai commercianti (sostenuti, a loro volta, dal Banco napoletano), i quali da una parte compravano olio, dall’altra vendevano ai fornitori i beni loro mancanti. E il denaro girava. E tanto. La stessa vicenda economica, però dal lato dei contadini evolutisi in agricoltori specializzati, è narrata, per quegli stessi anni, da Mimmo Gangemi in La signora di Ellis Island, la storia della sua famiglia, calabrese. Una economia così florida, che, in Memorie di quand’ero italiano, Zitara dice che, nonostante la politica antimeridionale dell’Italia unita, i suoi familiari «ancora nel 1892 avrebbero potuto finanziare, senza eccessive difficoltà e tutta in contanti, la fondazione della futura Fiat, ma già nel 1920 giudicavano di non potersi permettere il lusso di un’automobile».
Cos’era accaduto? Napoli, la sua banca, il suo porto erano stati messi in condizione di non poter competere con i concorrenti del Nord (l’ex capitale smise di essere porto di ingresso e partenza di merci straniere o destinate all’estero: e il Regno delle Due Sicilie commerciava con Nord Europa, Stati Uniti, Cina e Australia); l’attività bancaria meridionale fu inibita: prima si impedì agli istituti del Sud di aprire filiali al Nord, mentre il contrario era possibile, poi si impose al Sud di convertire in oro la carta moneta stampata al Nord, mentre il contrario non era possibile. I commercianti e industriali del Sud si trovarono senza più paracadute.
Tutto fu spostato a Nord, specie in Liguria. I parenti di Nicola, persa la sicurezza del Banco meridionale, ne fecero uno locale, in cui, con bella dose di coraggio, confluirono i soldi propri e degli agricoltori ex contadini che, nel frattempo, avevano cumulato del capitale. Ma bastò che la nuova banca fosse inondata di carta-moneta del Nord (generosamente stampata, senza reale corrispondenza con le riserve di oro), per metterla in difficoltà. Si dovette venderla, e il commercio dell’olio passò nelle mani dei liguri, spalleggiati dalla nuova politica unitaria e dal sistema bancario “nazionale” del Nord. Il padre di Nicola si ridusse a un decoroso commercio locale in Calabria, sempre meno florido; Nicola fu il primo della stirpe a divenire dipendente statale.
Il Sud, ridotto a colonia, doveva smettere di produrre merci, per consumare quelle del Nord: da concorrente, a cliente. Una condizione che mi pare ben narrata (ritrovo l’appunto dopo decenni!) dal senatore e scienziato Giovan Battista Grassi, che ai primi del Novecento condusse un’indagine, in Sicilia, sulla nocività del fosforo bianco usato per i fiammiferi: «il proprietario di una minuscola fabbrica, udendo il motivo della mia visita, mi domandò se ero continentale e mi disse: “Sappia che questo cappello è fabbricato in Alessandria, che la mia cravatta viene da Milano, dal Veneto la tela della mia camicia, da Biella la stoffa del mio abito, dalla Brianza i bottoni, tutto viene da lassù. A noi siciliani finora era rimasta la sola soddisfazione di accendere i nostri fiammiferi. Oggi voi venite a inventare che il fosforo fa male alla salute e, come ci avete tolto il resto, vi prendete anche la fabbricazione dei fiammiferi e ci riducete ad accontentarci di strofinare i vostri fiammiferi contro la vostra stoffa dei pantaloni”. E mi voltò le spalle.»
Chissà perché!
È cambiato poco, da allora, talvolta in peggio. Nicola Zitara ha voluto dimostrarlo. Era ridotto a solo cervello e volontà, quando scrisse l’ultima frase: «Mi fermo qui. Auguro buon lavoro a chi proseguirà il racconto. La storia del Sud è tutta da scrivere».
E quella storia del Sud negata è l’unica in cui l’Italia può ritrovare se stessa. O perdersi.
È stato guida di molti, Nicola, non sempre compreso, per il dono avvelenato che tocca ai migliori: vedere le cose prima dei loro contemporanei. Con i suoi primi libri, l’azione politica da dirigente del Psiup, le analisi sui Quaderni calabresi, diretti dal giudice Francesco Tassone, cercò di mostrare l’inganno dell’industrializzazione del Mezzogiorno negli anni Settanta, con metodi ancora una volta «coloniali e fallimentari»: finivano al Sud le code di produzione, quelle destinate alla dismissione, in tempi brevi, per vetustà tecnologica e impossibile concorrenza con i costi di Paesi in via di sviluppo; e senza tener in alcun conto le vocazioni territoriali. Li ricordo, quegli anni, e capisco la solitudine intellettuale e politica di Zitara. Vivevo a Taranto; l’arrivo dell’Italsider, il più grande stabilimento siderurgico d’Europa, parve il riscatto tanto atteso. Mi sembra sia stato un sindaco della città a dire: ci avessero chiesto di metterlo in piazza Castello, avremmo detto sì. Ed è vero. Noi capimmo dopo, tardi.
Capire, sapere e restare inascoltati dev’essere stato sfiancante. Ma Nicola non rinunciò mai al dovere primo degli onesti: fa’ quel che devi, accada quel che può. Quando mi accorsi che la conversazione (ma io preferivo ascoltare) cominciava a essergli faticosa, dissi che dovevo raggiungere delle persone. Mi prese le mani: «Sono felice del successo del tuo libro; una bella sorpresa: vuol dire che c’era chi aspettava di sapere, chi è interessato alla nostra storia». Poi, fu poco più di un sospiro, un soffio, e mi strinse le mani, con l’insignificante forza di cui era ancora in possesso: «Dopo tanto tempo, non ci credevo più». Gli avevano detto che erano venute centinaia di persone, nonostante il sole e il pomeriggio d’estate, alla presentazione del libro, a Gioiosa Jonica. Vidi me in quella folla, e lui infilato con la lettiga fra le pile di libri, solo, a correggere il suo, con gli ultimi fiati. E la cosa mi suonò ingiusta.
Fuori dalla sua stanza, una folla quasi silente: nel salottino, nella veranda, nel vialetto, sino al cancello, e sul marciapiede... La solitudine di un uomo intelligente e rigoroso aveva prodotto quel popolo di continuatori, ormai consapevoli e impegnati nell’organizzare manifestazioni, iniziative culturali e politiche, ricerche storiche, economiche. I segni del passaggio di quell’uomo che moriva sono tanti: gruppi meridionalisti e associazioni germogliati ovunque (incluso uno che ha base in Italia e in Argentina), qualche giornale, libri che restano.
Non feci in tempo a rivedere vivo Nicola; ma spero sia sbagliata l’analisi che chiude il suo libro-testamento: «L’Italia, Stato nazionale, è già morta. Aspetta soltanto le esequie. Una parte sarà accolta dalla benevolenza germanica, l’altra è nelle mani della fortuna» (l’ex presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ha raccontato, a febbraio 2011, che quando l’Italia riuscì a entrare nell’euro, Umberto Bossi disse «di aver scommesso sulla nostra esclusione, per poter dare la spallata separatista. Di più: confessò che su questo aveva già preso contatti con certi suoi “amici” austriaci e bavaresi, in modo che avallassero l’ingresso nel club della moneta unica solo per la parte più ricca del Paese, cioè la Padania, lasciando andare a picco il resto dell’Italia»).
Trascurava, Zitara, che proprio il lavoro di severi giudici come lui può fornire, alla stragrande maggioranza di onesti, gli strumenti per aggiustare la casa.