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SBIG – I RAGAZZI DEL ’73
È la sintesi di un Sud com’era, com’è, come potrà essere; ed è un paese che ignoravo ci fosse (pure in questo, essere ignorato, è sintesi del Sud?). «Ci vieni a Sbig?» «Sbig?» «San Bartolomeo in Galdo» «Senza offesa: esiste davvero?» «Sta nell’angolo fra Puglia, Molise e Sannio. Provincia di Benevento. Eravamo Puglia, sino all’arrivo dei Savoia.E noi siamo l’associazione Steven Bantu Biko» «Ah...» «L’ultimo tratto di strada, per arrivarci è mezzo franato, ci devi stare attento, però si passa. Ma hanno detto che la rifanno.»
Il tono è convinto: c’è ancora chi crede che faranno le strade al Sud. È una notizia (non riferitela al ministro Tremonti o a chi dopo di lui, potrebbe restarci secco, dal ridere. E non dite che questa è proprio la ragione per farglielo sapere!). La faccia di uno così voglio vederla, ma mi costa un giorno. Graziosamente, mi nego. Simpaticamente, insiste: «E mo’, chi lo dice ai ragazzi dell’associazione che non vieni?». La risposta giusta sarebbe: e chi ha mai detto che venivo! Ma immagino l’impatto sui dimenticati dell’angolo triregionale, la conferma dell’isolamento... «Mi ha chiesto se Sbig esiste davvero!» figurati se non glielo dice. Così, mi scappa: «Va bene». E, troppo tardi: «Ma l’associazione: quanti siete?». «Sei.» Fregato.
Oh, non è che voglio esagerare, ma la strada per arrivarci sembra proprio quella per Nowhere (Nessunluogo), di certi film americani, con l’auto che va, unico segno di vita, in un panorama di orizzonti vasti e vuoti. Attraversi le terre di Diomede, dalla costa subgarganica verso l’interno, in una distesa verde di grano, finché la via comincia a torcersi e salire, infilandosi nelle valli. Vero: gli ultimi due chilometri, deviazione per San Bartolomeo in Galdo, sono una leccata d’asfalto su una gobba, rotta da una frana.
«Il Comune ci ha dato la disponibilità della sala della biblioteca» mi dicono subito. E con una certa soddisfazione. «Benissimo» gratifico. «Ma ci sarebbe bastato un tavolino al bar.» No; si sono dati da fare, hanno progetti ambiziosi e famiglie numerose, capisco che fra parenti e amici possono schierare una massa d’urto di una ventina di volontari o volontari per forza.
«C’è tempo di mostrarti il paese, prima di pranzo. Una strada gli gira intorno.»
Come sono gli ospedali al Sud? In costruzione. Eccolo: anno di avvio lavori, 1962, mezzo secolo fa. Ma sembra nuovo. «Lo è: mai usato. Attrezzato con sale operatorie, ambulatori, letti; concorsi per assunzione del personale, avviso ai vincitori; forse, ora, già arrivati alla pensione, aspettando le lettere d’incarico. Mai inviate. Si rifà il piano sanitario regionale e il nostro ospedale viene escluso; poi spogliato delle attrezzature, finite chissà dove. Manutenzione del bene, per impedirne il degrado; presentazione di progetti, uno dopo l’altro, per il suo utilizzo in altro modo; inutile attesa di risposta positiva o di risposta.»
Una piccola parte della struttura, finalmente si decise, avrebbe trovato una destinazione d’uso a fine 2005: avrebbe ospitato uno PSAUT. «Uno...?» «PSAUT» ripete il sindaco, Enzo Sangregorio. «Nessuno sa di preciso cosa significhi l’acronimo; nei documenti, ogni volta compare con un nome diverso. Di fatto, è un pronto soccorso un po’ speciale, qualcosa di più di una guardia medica, con la possibilità di piccoli interventi di urgenza. Il 2005 passò, e il 2006 e... nel 2009 ci fu assicurato, in presenza e con garanzia del prefetto, che entro l’anno lo PSAUT sarebbe entrato in funzione; oggi, nel 2011...» (Se vivrò abbastanza, vi racconto come va a finire.)
«Forse, aspettano che ci estinguiamo. Eppure,» sospira Sergio Truglio, avvocato e anche procuratore della Sacra Rota «sarebbe una struttura ideale per assistenza ad anziani, lungodegenti, terminali: il paese è tranquillo, l’aria buona, alla confluenza di tre regioni. E Sbig avrebbe lavoro, tornerebbe a vivere.» Mi sa che sto prendendo la malattia di Massimo Troisi, ne Il postino, la metaforite, ma questa è davvero forte: il paese tornerebbe a vivere, se diventasse un posto dove venire a morire. «Eh...» alza le spalle lui «ma qualcosa sarebbe. Meglio che niente!»
Che fanno i laureati del Sud? Se ne vanno. A parlare, per potestà territoriale, è quasi sempre chi mi ha fregato con l’invito, Sergio Truglio. È stanziale a Sbig; gli altri, altrove per lavoro, tornano ogni settimana in paese, perché hanno deciso che continui a essere il centro, la base, il posto per cui spendersi. E dove tornare, appena si può, per restarci (e perché? Ma non glielo chiedi. È lo spirito dell’associazione). Alberto Ambroselli lavora al 118 e insegna musica; Alessio Fusco attivo a Roma, in una cooperativa per assistenza ai disabili; Igor (Aigor, per tutti) Guerra veterinario a Latina; Luciano Palumbo, in una cooperativa sociale, ma a Parma. Tutti 37 anni. La generazione del 1973 è impegnata a disegnare il futuro di Sbig; meno nel ripopolarlo: sono tutti scapoli, incluso un paio di ragazzi-padre.
Ha 37 anni pure Enzo Sangregorio, ingegnere elettronico, ma è sposato e ha due figli: per questo fa il sindaco? «Perché è precoce, in tutto: lui è di aprile, noi, tutti quanti fra ottobre e dicembre.»
Tutti amici di scuola, al liceo scientifico di San Bartolomeo in Galdo. «Ogni anno si riescono ancora a costituire due classi,» dice Sergio «ma l’abbandono scolastico è alto. Le nostre si ridussero a 13 e 16 studenti. Una decina scarsa siamo rimasti, dopo la laurea, incluse le ragazze che si sono sposate qui; gli altri, circa il doppio, via, a Perugia, a Parma, al Nord. Il migliore, presso Roma, a Pomezia, dove dirige un importante laboratorio di ricerca.» Tornano? «Poco; e qualcuno, mai.» L’associazione? «L’avevano fondata dei ragazzi del liceo che andarono via per l’università, come tutti, ma restarono fuori. Diciamo che noi la trovammo vuota e ci entrammo. L’abbiamo ereditata.»
Credo non serva indagare troppo sulla scelta del mito giovanile cui intitolare l’associazione: Steven Bantu Biko fu un altro Nelson Mandela, in Sudafrica, attivista contro l’apartheid, lo stato di minorità sociale, civile, economica, imposta dai bianchi ai neri. Fu meno fortunato di Mandela: aveva 31 anni, quando morì in carcere, per sciopero della fame, dissero; per sprangata sul cranio, pare. E che c’entra con Sbig? Perché dei giovani del Sud si riconoscono nel martire della lotta contro la condanna alla minorità di una parte della popolazione dello stesso Stato? Mah, stranezze meridionali.
Come sono le periferie del Sud? Degradate e incompiute. Si attraversa Nuova Sbig, palazzi moderni, uguali a blocchi di cinque, sei, o più, o diversissimi uno accanto all’altro; alcuni così brutti, malandati (pare siano nati tali) che hai voglia di girarti e andartene; altri più che decenti, pure graziosi. C’è un grande edificio incompiuto, invaso da erbacce e scarti di fabbrica: «Doveva essere una chiesa. È rimasta così». Eccone un altro, messo pure peggio: «Una scuola, mai finita». «A Sbig ci sono case per 20.000 abitanti: quattro volte la popolazione. Con il terremoto dell’Irpinia, l’area della ricostruzione fu allargata, un po’ alla volta, sino al Gargano. E anche qui si accelerò la fuga dal centro storico, per le nuove costruzioni e ville e villette nell’agro.» Il massimo dell’espansione edilizia di San Bartolomeo in Galdo coincide con il minimo storico della popolazione. È un primato tutto italiano, rammenta Salvatore Settis, in Paesaggio Costituzione cemento: siamo il Paese europeo in cui nascono meno figli e quello in cui si “consuma” più territorio per costruire. A Sbig, il calo di presenze umane è figlio dell’emigrazione.
Dov’è la maggior parte degli abitanti dei paesi del Sud? All’estero, al Nord, altrove: “Fuori”. «Sbig aveva oltre 10.000 abitanti, poi...» Poi arrivarono i piemontesi. «La prima emigrazione fu quella classica del 1880 (per oltre vent’anni, dopo le spoliazioni e i massacri subiti, i meridionali continuarono a sperare di poter risorgere nella propria terra. Poi, decise il dono dell’Unità: la miseria; N.d.A.): da Sbig partirono per il Brasile e l’Argentina. Non bastò; l’altra ondata fu ai primi del Novecento, pre e post Prima guerra mondiale: e per meta ebbe gli Stati Uniti. La fuga all’estero fu fermata dal fascismo, ma riprese appena finì la Seconda guerra mondiale. E stavolta se ne andarono in Australia, in Sudafrica (quelli che erano stati prigionieri lì, vi restarono; anche chi era stato prigioniero negli Stati Uniti avrebbe voluto rimanervi: “Mai stato così bene in vita mia” dicevano, a paragone della vita che toccava fare a Sbig. Ma non se li tennero, li rimandarono indietro). I lavori di ricostruzione, dopo il terremoto irpino, mantennero per un po’ la gente qui, eravamo 6.300-6.400. Poi riprese la fuga, questa volta per il Belgio, la Germania, il Nord Italia. Abbiamo pure una emigrata a Sud: una nostra compagna di liceo, che dopo la laurea ha sposato uno di Potenza, e mo’ lavora là. E siamo rimasti in circa 5.200 ufficiali, ché molti hanno la residenza, ma abitano altrove per lavoro e periodicamente tornano. Diciamo un po’ più di 4.000, stanziali veri. Fuori, quelli di San Bartolomeo sono decine di migliaia.»
Dove si butta la monnezza degli altri? A Sud. Quella del Sud? Più a sud: a Sbig. «E ti pare che ci facevamo mancare la discarica? Il miracolo temporaneo di Napoli ripulita eccolo là»: appena sotto il paese, giusto addosso alla pigra valletta del ruscello; è uno dei posti lontano dagli occhi e dalle telecamere in cui furono sversati i rifiuti partenopei. È la proprietà distributiva della monnezza: quella tossica del Nord finisce a Sud, specie in terra camorrae; e da lì democraticamente divisa, un po’ ciascuno, ai paesini dell’interno, per i quali nessuno strillerà ai telegiornali. Mentre l’onorevole Calderoli si propone come commissario per la monnezza a Napoli, forse per controllare che venga regolarmente sversata lì quella tossica del Nord; e, per impedire che se ne riconosca l’origine, negli stessi giorni, la Lega vota in parlamento per l’abrogazione del sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti (Sistri), cui pure ci obbliga la normativa europea. Salvo abrogare l’abrogazione, dopo l’ondata di proteste. Così, una bella spalmata di monnezza su tutto il Meridione, a sintetizzare il giudizio sul medesimo, con scelta strategica di punti di irradiazione del bene trasferito: la spremuta di monnezza della discarica di Sbig produce un fetido rigagnolo, che confluisce nel già ridente ruscello, e arriva nel lago della diga di Occhito, che disseta mezzo milione di pugliesi. «La costruzione della discarica iniziò nel 1996,» narra Sergio Truglio «doveva essere usata inizialmente solo per i rifiuti dei paesi a nord-est di Benevento. La capienza totale era di 60.000 tonnellate. Nel 1999 venne aperta e furono sversate 33.000 tonnellate di monnezza “tal quale”: senza selezione, né trattamenti. Ma già nel 2000, per l’emergenza a Napoli e provincia, fu usata per i rifiuti napoletani. Nel 2004, tra FOS (frazione organica stabilizzata, ma solo sulla carta, a giudicare dal nauseabondo odore che aleggiò per mesi a Sbig) e rifiuti “tal quali”, si arrivò a 70.000 tonnellate di immondizia, 10.000 più della capienza massima. Le comiche iniziano nel 2006, per un’altra emergenza; l’ordinanza commissariale regionale 437 recita: “utilizzando e ampliando le volumetrie residue, vi è la possibilità di ulteriori abbancamenti di rifiuti, valutati in almeno 10.500 tonnellate”. A febbraio 2007, quell’“almeno 10.500” si era già trasformato in oltre 30.000. Insomma, una discarica per 60.000 tonnellate, si è ritrovata a contenerne oltre 100.000, quasi il doppio. Ovviamente il percolato (sarebbe il “succo di monnezza”; N.d.A.) è tracimato e ha cominciato a scorrere. Legambiente della Valfortore e il Comitato per la difesa del territorio hanno inviato a vari enti dei filmati sulla tracimazione del percolato (Corpo Forestale dello Stato, Carabinieri, Acquedotto Pugliese, Arpa, le Agenzie per l’ambiente della Campania, della Puglia e del Molise). Il percolato attraverso i valloni dei Preti, il Capuano e il Cupo, ha raggiunto il fiume Fortore, che riempie l’invaso di Occhito, il quale dà da bere a quasi tutta la Capitanata. Nel lago è comparsa un’alga rossa: secondo alcuni esperti, in un invaso artificiale, questo è fisiologico; per altri, è colpa dei fertilizzanti azotati, o degli scarichi civili non controllati: si parla del depuratore di Campobasso come maggiore indiziato. La nostra discarica non è citata, ma, su segnalazione del Corpo Forestale di Sbig, il Nucleo Investigativo di Polizia Ambientale e Forestale del Coordinamento di Benevento del Corpo Forestale dello Stato l’ha sequestrata. La pioggia continuava a irrorarla, alimentando la produzione di percolato, rimosso ogni settimana da autobotti, per evitare che tracimasse. Solo dopo tre anni, nel 2010, sono stati stanziati i fondi per la bonifica. Ma, a tutt’oggi, hanno solo coperto la discarica con un telo: un ombrello...»
Che fanno le aziende, al Sud? Chiudono. La Plasticfortore era la Fiat di Sbig: 80 dipendenti (come dire che almeno un decimo della popolazione campava di quello), per produrre sacchetti di plastica, adesso fuorilegge, per sopraggiunta sensibilità ecologica. Ora ci lavorano in 20, in attesa di capire se si riuscirà a riconvertire la fabbrica. Fedele D’Urso era titolare di un’azienda per lo stivaggio del grano (quei silos fuori paese). Ed era presidente della squadra di calcio di Sbig. «Ci giocavano anche gli stranieri; sì, insomma, di Foggia. E Usvani N’Gom, senegalese, fortissimo. Quando il patriarca ha smesso di occuparsi dell’azienda, sono cominciati i problemi. E la Fedelseme non si sa che fine fa.»
Come sono le case? Tante e vuote. Chi le vuole? Nessuno. «Il nostro centro storico è uno dei meglio conservati; per abbandono. E per abbandono, rischia il disfacimento. Edifici d’epoca, belli, nessuno li vuole, nemmeno a 2.000, 3.000 euro.» Un vero peccato: a vederlo da sotto, case in pietra, una addosso all’altra; una bomboniera. Poi, lungo la strada, ne mostrano una con un giardinetto pensile, graziosa, due piani, vista panoramica. «Invendibile, manco a 3.000 euro, per il fantasma.» Ma davvero? «Circa mezzo secolo fa, il padrone si suicidò: fu trovato appeso per la gola. Rimasero la vedova e un figlio disabile, mai uscito di casa: tutto il giorno con la faccia contro il vetro, la tenda appena scostata, a guardare in strada. Vent’anni fa morì anche lui; dieci anni dopo la mamma. Non resta che il fantasma del suicida. Uno di Sbig emigrato a Milano, che ogni estate affitta una casa e si fa un mese in paese, qualche anno fa (l’albergo non c’era ancora), decise di prendere proprio quella. “Il fantasma? Figuriamoci!” La notte sentì dei rumori al piano di sotto, aprì una botola e apparve una figura bianca che fece: “Uh!”. Lui lasciò di corsa la casa; da allora, nessuno ci ha più messo piede. Il fantasma le ha tolto ogni valore.» «Conoscete il proprietario?» chiedo. «Certo.» «Ditegli che voglio comprare io la casa.» «E che te ne fai? Prendine una senza fantasma, un guaio di meno.» «Tutte le altre sono senza fantasma, solo quella ne ha uno. Voglio farci un bed & breakfast: l’unico “con fantasma”; prezzo triplo rispetto agli altri e dieci volte tanto, nelle settimane di Halloween e di Carnevale.»
Perché resti a Sbig? «Per fare qualcosa. Sbig mica è perso!» «Ora abbiamo pure l’albergo!» dice Sergio Truglio. Ed è grazioso, pulito e confortevole, gestione familiare, si vede che ci tengono. «Non ti sembra un segnale importante? Il proprietario, Donato Agostinelli, ha investito in questa attività, per atto di fede: poteva farlo altrove, vuol dire che crede possa esserci un futuro, qua, per i figli, no?» Eh, sì, ottimisti bisogna essere, ché se ti guardi intorno...: un unico, sparso quartiere, senza disegno né centro. È vero, è un segno, ma come dire che la partita è ancora aperta, perché, invece di 10 a 0, ora stiamo 10 a 1. «E l’organo, allora?» Ti portano alla “chiesa nuova”; «Si chiama così, ma è del Settecento»: l’organo è dello stesso periodo e piuttosto messo male. «Ce n’era un altro, alla chiesa madre, ma l’allora parroco lo vendette. Questo rischiava la stessa fine.» Fu così che “quelli dell’associazione” (ma un paio non furono presi: non sono manco cresimati!) si iscrissero alla Confraternita dell’Immacolata Concezione, alla chiesa nuova: tutti di sinistra, in un paese già monocolore democristiano, che vota 75 per cento centrodestra. Ma erano «in missione per conto di Dio, anzi di sua Madre» che voleva continuare a sentire la voce dell’organo. Nella Congregazione, ora, i loro voti fanno maggioranza ed è stato approvato il restauro dell’organo, e il no allo scambio alla pari con uno moderno («Nonostante garantissero lo stesso suono.») Servono 50.000 euro; prima o poi, li troveranno. Dove, se le aziende chiudono e i giovani vanno via? «Ma noi siamo quelli del ’73, noi restiamo.» Quando si dice: le risorse locali... «Nicola Circelli, uno di noi, un nostro amico, classe ’73, sta rilanciando la sua azienda, la Metalplast. E non lavora più per aziende del Nord (loro ordinavano i modelli, la Metalplast eseguiva, un po’ come le fabbrichette tessili che producevano, a Sbig, giubbotti per le migliori marche). Ora è lui che li disegna. Uno stilista dell’alluminio. Ha già più di 40 dipendenti.» Non è un altro segno? E ci sono altre due aziende di stivaggio dei cereali: una sembra persino in crescita, nonostante la crisi del settore. Ne ha preso le redini una ragazza, insieme con i fratelli, rientrata a Sbig, dopo la laurea a Roma. «Indovina di che classe è?» Indovino: ’73, ma non mi danno l’orsacchiotto di peluche. E l’altra azienda? Apprendo, da diversa fonte, che era ugualmente in affanno, ma che ora si è ripresa bene, perché un figlio del titolare ha abbandonato l’università, è tornato in paese e vi si è dedicato a tempo pieno. «Già, Silvestro, il cognato del sindaco» borbotta Truglio. «Indovina quand’è nato?» chiedo. Indovina pure lui: ’73, ma niente orsacchiotto di peluche, lo sapeva già.
«E a Sbig, mo’ ci vengono pure gli scrittori, a tenere le conferenze...» Sfotte, pure!
Si guardano intorno, fieri e raggianti, ma con misura: la sala della biblioteca è colma, gente in piedi, pigiata, molti restano fuori, e ne continuano ad arrivare. Sono venuti sindaci degli altri paesi, alcuni si sono mossi con piccole carovane d’auto; ci stanno i vigili urbani, i carabinieri e studenti, professori... Ne aspettavano una ventina. Se sono pochi, questi qua, sono almeno dieci volte tanto, forse più. «E dimmi che non è un segno,» mormora Sergio «non si era mai visto niente del genere a Sbig.»
La vera ragione per cui alcuni fanno delle cose e altri no, è che cominciano a farle. E non è necessario abbia un senso e sia vero il principio che li muove: li fa cominciare e poi, visto che ci sono, continuano. Loro possono, perché sono del ’73; dei predestinati. Nessuno degli altri (del ’72, ’74, ’68, ’81...) è del ’73. Vorrà dire qualcosa se solo quelli del ’73, sono del ’73, no? (Zitti, assecondateli, fate finta di niente).
Dove trovi i soldi per creare lavoro? Non c’è niente! Allora, niente deve bastare. A cena, appena a tavola, si discute sul “che fare?”. Torna Alessio, mortificato: «Il proprietario della casa del fantasma ora di euro ne vuole 30.000». «Gli hai detto cosa volevo farne?» chiedo. «Sì, e ho sbagliato.» «Non è vero, non poteva andare meglio. Quello che sembrava niente, anzi, un niente con fantasma, in pochi minuti ha moltiplicato per dieci il suo valore. Cosa è cambiato? Nulla, solo che a quel niente è stata aggiunta un’idea, se tale si può chiamare; e si è scoperto che il valore ce l’ha, ma nascosto proprio da quel che sembra toglierglielo.» Così, alla domanda “che fare?”, la risposta diviene: usare i problemi come risorse. (Quando lascio l’albergo, la mattina dopo, non sono solo a fare colazione: ci sono due coppie di tedeschi: si saranno persi... Un anno dopo, qualcuno deve aver rubato la segnaletica al confine fra Sannio, Molise e Capitanata, perché c’è un sacco di gente che smarrisce la strada e trova rifugio nell’albergo che era una follia fare lì. Questa volta, alcuni parlano veneto, altri inglese! Donato ha vinto.)
In Terroni, suggerisco di ricostruire alberi genealogici e mappe delle nuove patrie degli emigrati e degli oriundi e di organizzare, per ogni famiglia, un annuale “giorno del ritorno”, magari facendo perno su eventuali parenti rimasti in paese. Servirebbe un accordo con il Comune, per i dati dell’anagrafe. Il sindaco? «Enzo è... era... è, credo..., il mio migliore amico.» Era, è o credi? «Eravamo inseparabili, dividevano pure la stanza a Roma, negli anni dell’università. Poi, lui si candidò con il centrodestra e io feci una lista (Batman, Kamikaze: per noi aveva più di un nome) con i ragazzi dell’associazione e un paio di vecchi comunisti, per batterlo. Ma...»
Ma l’accordo è stato fatto. Sergio e i trentasettenni dell’associazione hanno ricostruito, con e per conto del Comune, la lista degli emigrati e degli oriundi (quelli della prima ondata, 1880, i bisnipoti, non parlano manco italiano); hanno scritto centinaia di lettere, in varie lingue, da Sbig al resto del mondo (Sud e Nord America, specie Canada; Australia, Sudafrica, Nord Europa). Chi si aspettava subito una caterva di risposte, è rimasto deluso: la cosa marcia, ma con circospezione, si direbbe. «Ma, seppure null’altro accadesse,» dice Truglio (sono passati alcuni mesi dal nostro incontro, quando lo sento) «mi sentirei gratificato anche solo per questo»: mi gira un paio delle lettere giunte in seguito alla loro iniziativa. Una, molto commovente, dal Brasile; l’altra dagli Stati Uniti, dalla signora Alyssa Asack Rawlins: dice di essere stata in Italia, nel marzo 2011, con il marito, e di essersi recata a San Bartolomeo in Galdo, “my family’s homeland”, la terra dei suoi, perché la nonna, “Ermalinda” Piccuito, era di San Bartolomeo, nata nel 1911, poi emigrata con i genitori, negli Stati Uniti e stabilitasi a Brocton. “Ermalinda” era la sorella di “Pasquelina”, mamma di Rocky Marciano, il campione di boxe. La signora Alyssa aveva 15 anni, quando la nonna morì, ma il ricordo le è tanto caro, che si era ripromessa di far visita al paese in cui nacque. Ora che lo ha conosciuto, si dice colpita dalla sua bellezza, dalla gente meravigliosa e ospitale, che le ha mostrato, nel centro storico, la casa in cui la nonna nacque e abitò, prima di andar via. Alyssa si proclama fiera delle sue radici e ha una speranza: portare the whole family, together, la famiglia, tutta insieme, a San Bartolomeo, in memoria di “Ermalinda” e “Pasquelina”.
Sull’eccellenza di quel quasi compaesano, l’assessore alla cultura, Giampaolo Fiorilli, ha appena fondato il premio Rocky Marciano, assegnato a cittadini e oriundi di San Bartolomeo che hanno onorato, con le proprie opere, il paese. Rocky sostenne 49 incontri, vincendoli tutti, prima di morire per un incidente aereo. Anche a lui si ispirò, per la fortunatissima serie cinematografica, Silvester Stallone, che ha una storia simile a quella di Marciano (nel film, parla con il poster del grande pugile, a parte avergli copiato il nome): pure lui è nato negli Stati Uniti da un emigrato meridionale; suo padre partì da Gioia del Colle: la casa degli Stallone non era lontana da quella degli Aprile (dove nacqui anch’io).
Il premio, nel 2011, viene dato ad Aldo Curiale, “falegname” a Sbig, ebanista di successo nel New Jersey: disegna e realizza mobili e strutture in legno di grande pregio (ha ideato e fatto i mobili per il palazzo del governatore del suo Stato; quelli della First National Bank...). Mister Curiale è una potenza nel suo campo, negli USA; ma quando ritira la targa, gli tremano le mani. Durante la cerimonia (eravamo seduti accanto, in prima fila) ha inzuppato più fazzolettini del ciripà di un bimbo che ha mangiato un’anguria: se non si tratta di una fastidiosa congiuntivite... Sbig si è gemellata con Ripa Teatina, paese dell’Abruzzo da cui emigrò il padre di Rocky. Il sindaco è qui.
«È stato bravo Giampaolo,» dice Truglio dell’assessore alla cultura «pensare che ce l’avevo in sospetto...» E perché? «Come, perché? È del ’76, che c’entra con noi?» Fra le tante forme di razzismo, questa non l’avevo considerata; per fortuna è stata superata, senza che fosse necessario ammazzare un qualche Martin Luther King del ’71.
I ragazzi dell’associazione hanno anche loro una speranza: che gli emigrati, gli oriundi di ritorno, vogliano recuperare le antiche case abbandonate: costano così poco. Se accadesse, quelle case restituirebbero una identità, e la riacquisterebbero. «Il sindaco ha già disposto la delibera, per il piano di recupero del centro storico» informa Sergio.
Il bene del paese ha riunito i due grandi amici che la politica aveva diviso, a riprova che i progetti uniscono, le idee separano; e che il Sud (non avevamo detto che Sbig ne è una sintesi?) si salva, solo a partire da se stesso, da quel che era. (Mi informano che se ancora volessi la casa con il fantasma, il prezzo ora, sarebbe molto più ragionevole. Che faccio, la piglio?)