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IL FUTURO SOTTOTRACCIA

Cosa succede dove sembra che non stia succedendo nulla? Nelle regioni più dimenticate, come in Calabria (e non solo), che sembrano esistere soltanto per la ’ndrangheta e la Salerno-Reggio? Forse è lì, sottotraccia, sotto il pelo libero delle notizie, dove non arriva l’occhio dei giornali (indifferenti al Sud, se non per il sangue e la monnezza con cui lo si vorrebbe identificare), che si prepara il futuro. Non so dire come sarà, e nemmeno se ce la farà a essere, ma qualcosa sta accadendo. Il Sud non ha voce, o voci piccole e sparse, quindi non sa di sé e non riesce a far sapere di sé; è possibile che gli stessi protagonisti non percepiscano quanto siano parte di un tutto, forse decisivo: si muovono ognuno per conto proprio (sempre meno, però), ma nella stessa direzione. Se non si disperderanno prima, sono destinati a incontrarsi e diventare popolo in marcia: rivoli sparsi che possono, confluendo, farsi fiume. In tal caso, cambierà tutto, al Sud e in Italia, paesaggio e clima, storia e futuro; se quei promettenti rii restassero singolarità, magari conflittuali, inconciliabili, degraderanno in palude, come altre volte è accaduto, peggiorando l’esistente.

Ma se devo rischiare un’opinione: credo che l’onda si stia alzando.

Gli animi si scaldano al Sud; e i sentimenti sono il vento che muove gli uomini, anche a popoli interi. Grandi forze possono generarsi a partire da minuscole differenze. «Gli uragani,» spiega Sebastian Junger (La tempesta perfetta), «hanno inizio quando nell’aria del livello superiore si forma un piccolo nodo.» Solo una modesta variazione di temperatura, magari, ma tutto «incomincia a ruotare intorno al nodo», e «più aria viene richiamata all’interno, più veloce è la rotazione», sino a che si forma «l’occhio del ciclone, una colonna di aria secca circondata da una solida parete di vento». Le potenze sviluppate sono spaventose: «Gli arsenali nucleari degli Stati Uniti e dell’ex Unione Sovietica insieme non contengono energia sufficiente a mantenere un uragano in attività per un giorno».

I sentimenti alzano azioni, come il vento le onde. Qualunque dimensione raggiungano, tutte le onde nascono minuscole, come «increspature a forma di rombo, dette onde capillari». Sono queste a offrire «al vento un punto d’appoggio su un mare altrimenti piatto». E il gioco di potenze che si origina a partire da così poco è tale che nessuno strumento è mai stato capace, sinora, di misurarne gli effetti massimi. L’altezza delle onde dipende dalla velocità del vento (“vento”, leggetelo come fosse “sentimenti”, e ci capiamo meglio); da quanto tempo soffi, senza interruzione; da quanta distanza l’onda possa percorrere (si fa per dire, perché le onde, finché non frangono, non si muovono, si limitano a trasmettersi l’energia l’un l’altra), senza essere ostacolata da terre emerse. Il rapporto fra forza del vento e quella dell’onda va a potenza di quattro; significa che un vento di 40 nodi (circa 80 chilometri all’ora) non genera onde con energia doppia rispetto a uno di 20 nodi, ma 17 volte maggiore. Si alzano, così, masse d’acqua enormi, sino a 30 metri, in media; mentre le onde d’altezza massima possono superare i 60. Tutto viene distrutto, a quelle potenze (alcuni degli tsunami più devastanti, come quello di Lisbona, nel 1755, non superavano i 15 metri; la più alta delle tre onde anomale che devastarono Reggio Calabria, nel 1908, era di 13). E quando le onde divengono troppo alte, rispetto alla loro lunghezza (la distanza fra una cresta e l’altra), si rompono, frangono, e montagne d’acqua, migliaia di tonnellate, precipitano.

Ma può succedere che il vento cada; che l’onda non sia più sospinta, e spenda la sua spaventosa energia distendendosi, a mano a mano (“mare vecchio”, “mare lungo”); e l’immenso potere si spenga inoffensivo, spiaggiandosi basso su una riva lontana, lontanissima, da dove era sorto.

Dopo il 1860, quando il Sud fu invaso e messo a ferro e fuoco, distrutta la sua economia, massacrata la sua gente, un’onda armata si alzò e furono anni di guerra, la cui ferocia è ancora nascosta negli archivi dello Stato italiano, per vergogna. Sterminati i combattenti, subentrò la rassegnazione e l’onda lunga di venti milioni di emigranti portò la sua rabbia ad arenarsi sulle spiagge d’America e non solo. Oggi, il Sud è nuovamente percorso da “onde capillari” e più che capillari. Se diverranno altro e più, lo dirà il vento. Ma per esserci, ci sono; e qualcuna è già alta.

E io come lo so? Godo della doppia (e faticosa) condizione di essere meridionale che si occupa del Sud e, da giornalista, lo percorre, ma vivendo altrove. Così, le variazioni si colgono più facilmente. In un anno abbondante, ho accettato più di trecento inviti (su circa mille e seicento; e continuano ad arrivarne), per parlare di Terroni.

Questa strapazzata, avessi dovuto preventivarla, non l’avrei mai fatta: perché andare in paesini di cui ignoravi persino l’esistenza? Cosa credi di trovare in borghi persi nelle montagne lontane dall’autostrada, dove va solo chi deve andare proprio là? Poi..., be’, spesso, era lì quello che c’era da sapere. E quelli che lo sanno, succede pure che non sappiano di saperlo, ci vuole l’occhio del forestiero per vedere: gli indios del Potosì, con l’argento di cui è fatta la loro montagna, lastricavano le strade; poi, arrivarono gli spagnoli.

C’è un Sud che sta perdendo la subalternità, per la tenacia con cui una sparuta catena di padri ha inseguito la propria storia denigrata e taciuta, incurante dell’idea di inutilità (e persino la derisione) che li circondava; e per la modernità, la naturalezza, con cui l’ultima, cosmopolita generazione vede o vuol vedere possibilità di futuro nella sua terra, recuperandone i valori sottostimati; e, con quelli, riprendersi l’identità e il passato persi. Perché, è vero (i dati dell’agenzia Svimez lo confermano), è ricominciata l’emigrazione dei giovani laureati meridionali; ma quelli che restano, sempre più spesso, agiscono a casa propria, come a Barcellona o a Londra: local & global, universali stando a Milazzo. Non c’era mai stata una generazione così.

È un fenomeno figlio di necessità (tira brutt’aria un po’ ovunque, andarsene non è più una soluzione certa e vantaggiosa, come prima) e di cultura più ampia: sono ragazzi cresciuti in una Europa senza frontiere, con una sola moneta, il viaggio facile ed economico: hanno visto altrove i localismi produrre lavoro, ricchezza, con molto meno di quello che una regione antica e pregna come il nostro Mezzogiorno possiede e non apprezza. Insomma: guardano alla propria terra come farebbe uno straniero, vedendo quello a cui non si faceva caso, perché c’è da sempre. Sono gente pratica, con buoni, ottimi studi, i 110 e molte lodi, le Bocconi e i Politecnici, i master wow! Come Antonio Cucco Fiore, che mi chiama a Gravina in Puglia. Era all’Università di Bari, poi «ho preso un Rayan Air, per Londra», University of Buckingham, Mba (master of business administration); a 24 anni, già lavora nella City (il tempio della finanza): seleziona personale per le più grandi banche d’affari del mondo (Merrill Lynch, poi assorbita dalla Bank of America, Goldman Sachs, Lehman Brothers, poi sepolta nel crollo di Wall Street, Barclays Capital, Bnp Paribas, Unicredit); dopo due anni si licenzia e torna a Gravina, scrive la tesi, si laurea a Bari, parte per la Spagna, lavora alcuni mesi a Valencia, in un progetto europeo, poi rientra al suo paese e si inventa un lavoro: scopre che il padre di tutti i provoloni e i caciocavalli del mondo è di Gravina in Puglia: “il pallone”, mai commercializzato a dovere, nella sua storia, se non a livello locale, e poco pure quello (se ne era perso addirittura il nome, che lui ha rispristinato). Non chiedetegli le prove di quella casearia paternità: chiama a testimoniare i Greci che qui fondarono una città, i Peuceti (l’antica Gravina ne era una capitale), i Romani, le mucche podoliche che qui pascolavano, le greggi ovine che per secoli passarono su questi tratturi... insomma, tutto sul “pallone”, dai ritrovamenti degli attrezzi per produrlo (come “u grattacaese”, il grattacacio, uguale ancora oggi), nelle tombe arcaiche della zona, sino a un «trattato del 1847, Lectures on Agricultural Chemistry and Geology, di James F.W. Johnston, edito da William Blackwood and Sons (Edinburgh and London), rinvenuto nella biblioteca dell’Edward College, in cui si cita il nostro “pallone”». La somma dell’esperienza murgiano-britannica è questa: sul “pallone” è stata ora stesa una disciplina di produzione, se ne è, a norma di legge, riconosciuta l’eccezionalità con il PAT (Prodotto Agroalimentare Tradizionale), si mira al DOP, quale garanzia europea di unicità; i casari locali lo vendono, Antonio ha avviato una bottega on line, Murgiamadre, per il “pallone” e non solo. E si occupa pure della vendita di prodotti tecnologici. Da Gravina. Dice che «bisogna investire sui giovani». Lui, «ormai», ha «quasi trent’anni».

Non sono idealisti come i padri, non si fanno illusioni, hanno poca stima nelle possibilità, negli spazi, nell’attenzione al merito che questo Paese offre (hanno la Gelmini ministro della Pubblica istruzione, il Trota e la Minetti consiglieri regionali nella sedicente “capitale morale”: che gli racconti?); ma hanno più fiducia in se stessi, creano un festival del cinema ad Ariano Irpino («tra i più importanti progetti etno-culturali del Sud Italia», secondo «il Fatto»); dotano il paesello di pescatori di una stagione letteraria nazionale; con in tasca una laurea al Dams e l’amico bocconiano, mentre piazzano gruppi musicali giamaicani per i festival e le feste, avviano, nel Vallo di Diano, un allevamento di maiali per la produzione di salumi tradizionali; si associano per tutelare la sorgente che dà nome alla cittadina e farne una miniera cultural-turistica; si ritrovano ogni fine settimana nel paese da cui son partiti, per far nascere iniziative che gli ridiano vita, riportino a casa gli emigrati; scoprono il brigante “nostro”, cercano i documenti, ne scrivono la storia; si presentano agli esami di Stato con una tesina su industrializzazione nel Regno delle Due Sicilie, Questione meridionale e brigantaggio, e con documenti a video, sul computer, contrapponendoli a quanto c’è sul libro di testo. Se il presidente della commissione obietta, replicano: «Non ho finito!» («Ho sudato freddo» scrive la madre, su Facebook); scelgono, all’università, corsi di studi che li riconducano al loro paese, alla comprensione dei loro costumi, al dialetto: antropologi in missione dinanzi all’uscio di casa propria; danno vita a progetti artistici, musica, teatro, letteratura, che hanno per protagonista il passato di cui i loro nonni, i loro padri si vergognavano.

Ma sempre, in tutti questi casi, e molti altri ancora, quella fame di storia, di ricostruzione dell’identità meridionale, è avvertita come risorsa economica e personale.

Ne incontro molti di questi ragazzi, studenti, giovani professionisti, nei miei giri in Meridione (ci sono nato; ma ho cominciato ad amarlo tardi, per reazione agli insulti e per confronto con quel che vedevo nel resto del mondo). Sarà per la ragione dei miei viaggi, che seleziona le persone; o perché sono fortunato negli incontri; o per altro che falsa la statistica... insomma, può essere per molte ragioni, ma non si può escludere la possibilità che le cose siano proprio come appaiono: c’è una generazione di meridionali che non vuole più andarsene e, conoscendo il mondo, vuol saperne di più del suo Sud e viverci; e, per viverci bene, migliorarlo, migliorando la propria condizione; e pensa di poter fare molto con poco e che quel poco a Sud valga più del molto altrove.

Badano al sodo: non vogliono cambiare il mondo con la forza dei sentimenti condivisi (non è roba da Imagine o Blowin’ in the Wind), vogliono che sia più efficiente e corretto: più saggi, meno infantili e ingenui dei loro padri sessantottini e post. Hanno cuore, ma ci arrivano di testa, per somma di convenienze e la delusione di un altrove non più dorato, un Nord (quel Nord, non “il Nord”) che ha perso la vergogna dei suoi umori più impresentabili, della sua avidità. E c’è l’ostinazione di credere che persino a Sud, chi vuole e insiste qualcosa possa conquistare, pur con molte amarezze sulle scorciatoie di ogni tipo e avendo chiaro che l’ambiente sociale è quasi sempre un ostacolo, “ma”... E quel “ma” sono loro: la stima che hanno nelle proprie capacità. E basterebbe questo a confermare che le hanno.

Il punto di forza è avvertire in loro l’assenza della condizione di minorità che frena il Sud da un secolo e mezzo: conoscono, come fosse quella del proprio quartiere, la vita non così diversa dalla propria, dei loro coetanei di Paesi che erano esotici, mondi altri, per i padri (andavi a Lugano, a Nizza, eri “stato all’estero”...). Mentre ogni luogo raggiungibile, per questa generazione, è un’estensione di casa; per l’uso degli stessi strumenti informatici, la condivisione di mode, dagli abiti alla musica, ci si incontra per quel che si ha in comune, ci si apprezza per quel che distingue. Così, si impara a considerare il valore (valore di scambio) delle proprie specificità. E quel che era vissuto come minoritario non è più tale; è, anzi, il tuo vantaggio.

«Cosa scelgo io tra il dover andare via e il voler restare? Non ho alcun dubbio. Io resto qui al Sud, e non perché sono un perdente o un rassegnato, ma perché restare è molto più difficile che andarsene. Io resterò qui», ha deciso Giuseppe Olivieri, uno dei migliori diplomati dell’Istituto Ferrari di Lauria, sul Pollino. Mi ha chiamato il preside Natale Straface a un confronto, vero, tosto, critico, con gli studenti, a fine anno. Premiano i numeri uno della scuola. Olivieri non c’è, è fuori per preparare la continuazione dei suoi studi, ma ha voluto far sapere che torna a Lauria. Un compagno di classe legge la sua lettera. Ha scoperto di essere terrone, Olivieri, cita La libertà di Verga, Bronte di Mancini e «se non si vuole continuare a morire in ginocchio, ad abbandonare la nostra terra per arricchire le già ricche regioni settentrionali, bisogna ritrovare il coraggio di restare e di morire all’impiedi!»; torna, «perché la lotta per la vita è molto più entusiasmante dell’abbandonarsi apaticamente a una pur possibile estinzione naturale». E il suo amico, nel leggere, indurisce man mano la voce.

Li incontro questi che restano: li vedi darsi da fare, per volontariato, agendo con padronanza ed efficienza (forse il risultato di studi specifici); o per riprendere l’aziendina di famiglia, data per spacciata, invece di fare il manager “di successo” fuori; li scopri nell’organizzazione di un premio importante, complesso, come il Rhegium Julii, a Reggio Calabria, che comporta una serie di iniziative con istituzioni, scuole, nella provincia, e si regge quasi solo sulla buona volontà e le capacità di studenti, studentesse, o di fresca laurea (e lauree importanti). Ti guidano con educazione e polso fermo; sanno prendere le misure agl’imprevisti e risolverli con scioltezza; senza soggezione, a volte con ironia (complici, fra loro) per le ritualità estranee ai loro vent’anni (si parla di uno scrittore bravissimo, ma molto anziano, lo si definisce «uno dei maggiori autori viventi», e senti che sghignazzano, simpaticamente feroci: «“Vivente”, che esagerazione!»). Ma “vendono” il loro prodotto al meglio. I Bronzi di Riace li hai già visti, glielo dici. Li hai visti al Quirinale, poi al museo di Reggio Calabria, più di una volta. Sì, ma adesso sono in restauro (e si restaura pure la sede del Museo, dove torneranno), «senza lasciare la città», puntualizzano; e sono sdraiati, non in piedi. Li hai mai visti sdraiati? Sdraiati no, e fors’è meglio: un guerriero a terra è un guerriero sconfitto; il contrario dell’orgogliosa potenza o prepotenza dei Bronzi. Un’umiliazione, no? No: anche gli eroi riposano... Okay, ho capito, andiamo: i guerrieri stanno nella sede del Consiglio regionale, un pezzo del risarcimento dato a Reggio, per lo “scippo” del titolo di capoluogo della regione. La guida che ci accoglie ha esperienze all’estero, impeccabile nella divisa, ferratissima, diresti fiera di quel che sa della propria terra, di cui mostra i tesori recuperati.

Quando ho visto i Bronzi l’ultima volta, poco più di un anno fa, erano nel Museo, ridotto male: degradato l’ambiente, degradato apparve l’umore di chi vi lavorava. Ora, in uno spazio lindo, persino presuntuoso, prevale l’idea di efficienza, di motivato orgoglio, mentre ti dicono quali sofisticate tecnologie garantiscano temperatura e umidità ideali per gli dei venuti dal mare; come il restauro avvenga dinanzi agli occhi di tutti, di là dal vetro; da quali centri della regione provengano i reperti. E finalmente capisci dove affiorano le tracce dell’orgoglio: nella connessione che ti viene offerta fra quei resti e l’oggi. Se vedi i Bronzi (e, accanto a loro, la stupefacente “testa del filosofo”, il primo ritratto dal vero della storia; come dire: le rughe del dubbio e della ragione, ai piedi della forza), ti riempi di meraviglia, ti senti lo scarto di un grande passato e ti ripeti, mentre vai oltre: «Accidenti, questi Greci!». Ma qui ragazze e ragazzi poliglotti, a proprio agio al Metropolitan Museum di New York o al Louvre, come a Reggio Calabria, ti narrano un’altra storia, pur illustrando un dettaglio alla volta: qui c’erano popoli interessanti, che accolsero i Greci o ne furono soggiogati; insieme divennero i calabresi o l’atlante delle diversità calabresi. I quali non sono più la tavolozza su cui il popolo dei Bronzi scrisse la sua epopea, ma emergono finalmente coprotagonisti e risultato di quell’epopea convissuta.

La guida (è, per cultura e modi, sovradimensionata al ruolo, e per questo lo innalza. Mi informo: si chiama Noemi Murata, laurea a Messina, operatrice in beni culturali, specializzazione in storia dell’arte a Firenze), con garbo e misura cancella, senza mai farvi davvero cenno, l’assenza dei nativi dalla storia; e della storia fa un percorso unico, frutto di tanti apporti. Un miscuglio di colori e accenti che continua in tempi moderni e molto più ampio e profondo di quel che pure si intuisce in pochi chilometri di costa, dove confinano paesi che conservano nei nomi, o nelle parlate, la diversità dell’origine: l’occitano degli albigesi di Guardia Piemontese, giunti secoli fa dalle Alpi, per sfuggire al massacro (e furono massacrati pure qui); l’albanese delle comunità arrivate in fuga dalla loro terra, invasa dai Turchi e che hanno conservato la lingua, i costumi, la liturgia di rito greco cattolico, i preti sposati; cercavano rifugio pure i Bizantini che si trapiantarono qui, al tempo della persecuzione iconoclasta nell’impero romano d’Oriente, e che ha fossilizzato una lingua “di transizione”, il grecanico (non è il greco antico, né quello moderno); mentre i nomi dicono tutto dell’origine di Saracena e Longobardi, paesi ai bordi del Pollino, il primo quasi sullo Jonio, l’altro sul Tirreno (fondato da re Liutprando, al confine con la Calabria bizantina), a un passo da Belmonte Calabro, nato francese con gli Angioini, nel territorio di Amantea, per decenni emirato arabo... Ma di tal somma di popoli che da millenni si insediano negli stessi luoghi, pare non resti nulla, se non sciatte curiosità turistiche (persino poco esibite, ridotte a nomi mitologici, o addirittura calpestate dal dilagante cemento costiero, dai cimiteri di veleni in terra e in mare). E contro quel nulla amorfo, irriconoscibile come una foto molto sfocata, dominano, prepotentemente a fuoco, i Bronzi: dinanzi a quel troppo, l’accumulo di residui (o presunti poco) scompare.

Ma se spingi lo sguardo oltre il primo colpo d’occhio, ti sorprende un lavorio formicoloso per il recupero di memoria e identità. Una tale quantità di convegni, dibattiti, mostre sul tema credo non si sia vista mai. Su questo, le generazioni si incontrano, ma la differenza si vede: i padri si dividono sulle idee (sono cresciuti in un mondo ideologizzato); i figli si uniscono sui fatti. I padri hanno dovuto scrollarsi il peso del pregiudizio; i figli ne sono immuni. La parola e la figura del brigante, per dire: erano vergogna celata nel passato delle famiglie meridionali; oggi sono motivo di fierezza e rivendicazione identitaria: “brigante” è un complimento; come quando le mamme vezzeggiavano i figli, chiamandoli “brigantiello mio”.

A Belmonte, durante la cena, dopo un teso confronto sulle ragioni e i modi dell’Unità d’Italia, c’è uno one-manshow: un giovane canta, con voce educata e potente, suona tammorra e tamburello con maestria (stupisce sempre che si possa trarre tanto da uno strumento così semplice), poi chitarra, organetto e zampogna. È un antropologo, mi dicono, laureato benissimo con il professor Vito Teti, si chiama Nando Brusco. Centro della sua esibizione sono le “strine di Lago”, che per me potrebbero esser pesci d’acqua dolce, mentre sono improvvisati (... quasi) componimenti popolari in rima, dalla satira al dileggio pesante. “Strine” sta per “strenne” e Lago è il paese più in alto, verso l’interno. Qualche duello fra strinatori, scivolati un po’ troppo sul pesante, finiva a coltellate.

Le strine, mi spiega il professor Ottavio Cavalcanti, dell’Università della Calabria, al tavolo accanto al mio, non sono soltanto di Lago, ma quelle di Lago sono particolari. Lui vi ha dedicato uno studio e un libro di centinaia di pagine, Le strine atipiche di Lago. E più ne parla, più l’immagine sfocata della Calabria (se vista nel suo insieme) svela, quando scendi nel dettaglio, diversità e ricchezze insospettate; e fra paesi vicini corrono, fossilizzate, distanze di secoli. Tu ci passavi davanti ignorandolo.

Sembra quasi che le regioni del Sud abbiano deciso di riscoprirsi, dividendosi i compiti: la Sicilia è quella che per prima e più di tutti ha trasformato questi nuovi sentimenti in potere (l’arrivo alla presidenza della Regione di un autonomista, il varo della legge per l’insegnamento nelle scuole della cultura e della storia dell’isola; la proliferazione di partiti, partitini e movimenti identitari, già pronti a opporsi o sottomettersi, nel solito ruolo gregario, al potere padano). La Lucania gioca in casa e quasi da sola, all’interno dei partiti storici, esportando cultura e analisi economiche, da Raffaele Nigro a Gianni Pittella, vicepresidente del Parlamento europeo; ma senza guadagnare peso (come sempre, per scarsità di popolo, pur così interessante). La Puglia pare concentrarsi nel ruolo di produttrice di analisti, come faceva con i Gaetano Salvemini, i Tommaso Fiore, i Peppino Di Vittorio, i De Viti De Marco; oggi offre, nel folto elenco stilato dallo scrittore Marcello Veneziani, una lunga serie di numeri uno, dal cinema alla letteratura, alla tv, sino a Gianfranco Viesti, migliore studioso dell’economia “duale” italiana; a Franco Cassano, sociologo, il più intenso interprete e narratore della meridionalità; più una fitta serie di polemisti e divulgatori. La Campania, depositaria di un grande patrimonio identitario, opera (confusamente, a volte), su tutto, ma si esprime al meglio nella traduzione artistica e popolare, dal cinema di Pasquale Squitieri, Mario Martone, al teatro e, soprattutto, alla musica (a partire da Eugenio Bennato). In un certo senso, il sentimento e l’intelligenza hanno seguito, nelle regioni, il percorso della tradizione. In Calabria no, si scorge qualcosa di inedito: dei tanti movimenti culturali e politici del rinato meridionalismo, “Io resto in Calabria” (sostenuto dall’imprenditore Pippo Callipo) è unico: un progetto territoriale, identitario, affidato ai giovani (e che giovani!), con uso di tecniche moderne, manageriali, modellate sul futuro, la creazione di una scuola di politica per educare una nuova classe dirigente.

È una fame nuova, assecondata con inesauribile voracità, si chiama «Bisogno di passato», dice il patriarca degli antropologi calabresi, il professor Luigi Maria Lombardi Satriani. Qualche decennio fa, il suo Il ponte di san Giacomo. L’ideologia della morte nella società contadina del Sud, scritto con Mariano Meligrana, ebbe lo stesso effetto rivelatore di Morte e pianto rituale, di Ernesto De Martino, nel secondo dopoguerra, ma illuminava la parte di Mezzogiorno fin lì trascurata: la Calabria (il libro irruppe dalle aule universitarie nel normale circuito commerciale; e vinse il Premio Viareggio, come quello di De Martino). Il passato del resto del Sud era già stato scoperto, indagato, riferito; e, sorpresa!, da vergognoso, residuale, perdente, venne divulgato come interessante, complesso, di pregio. Tutte quelle cose che apparivano, a chi le possedeva, arcaismi, manifestazioni di arretratezza, mutavano di segno (riti, tarantolate, magherie, superstizioni, “vattienti”, “serpari” e altre primitive forme di religiosità appena tinte di cristianesimo, per salvarle dalla condanna, scaramanzie...). Il Sud cominciò a perdere la vergogna di quel che era e, sull’onda dell’interesse altrui, e non solo, cominciò a recuperare la dignità del suo passato, ma non ancora, forse, la coscienza dei suoi diritti.

Il fenomeno riguardò il Mezzogiorno più esposto e raggiungibile: la Campania, la Puglia, la Sicilia e, per ragioni particolari (i confinati antifascisti; il territorio isolato, ma a portata di mano) la Lucania. Fu opera di grandi studiosi meridionali, ma soprattutto forestieri: Carlo Levi, Manlio Rossi Doria, Danilo Dolci, Umberto Zanotti Bianco, Edward C. Banfield... In un certo senso, furono gli altri a riscoprire e raccontare quel Sud (con i versi di Danilo Dolci, si potrebbe dir loro: «Vi sono grato / di non esservi vergognati di me / quando mi eran contro quasi tutti»).

Per la Calabria, la fine del tempo della “vergogna” è arrivata più tardi, adesso, ma (ecco la differenza) principalmente a opera degli stessi calabresi. Quello che nel resto del Sud fu un fenomeno culturale, in Calabria è un fenomeno sociale. Lombardi Satriani spiega che «l’interesse per l’antropologia, in Calabria, va oltre l’ambito universitario o il personale coinvolgimento per ragioni di studio o professione. È una necessità di sapere di sé, della propria storia, dei percorsi che ci hanno formato come siamo. È un bisogno di passato che non si era mai visto così vasto e profondo».

Lombardi Satriani è stato un precursore (ma lui comincia subito a enumerare colleghi, calabresi e no, e allievi che hanno avviato e alimentano questa potente ondata: Vito Teti, Fulvio Librandi, coideatore del Museo della ’ndrangheta, Ottavio Cavalcanti, Giovanni Sole, Maria Teresa Milicia, Maria Pascuzzi, Gualtiero Harrison, Matilde Callari Galli, Franco Fileni, Mario Bolognari... A cui bisognerebbe aggiungere lo storico della filosofia Mario Alcaro).

Oggi, Antropologia è una delle facoltà di maggior successo, fra gli studenti calabresi. Dovesse, il professore, quantificarne la crescita, nel corso della sua attività accademica? «Almeno dieci volte tanto.» «È moltissimo!» «No, è un’enormità, perché a quest’affluenza non corrisponde una possibilità altrettanto grande di trovare lavoro coerente con gli studi. Quindi, se in tanti vengono ad Antropologia, è per voglia di conoscersi, di riscattare il valore proprio, di una comunità, di una storia denigrata.»

I calabresi mostrano, in questo, la passione degli inizi, di chi recupera il terreno perso; ma il fenomeno tocca tutto il Sud, anche dove ora sembra meno forte, per averlo anticipato. Il professor Lombardi Satriani lo spiega con il mito di Odisseo: «In Omero, è uno che va ovunque e tutto conosce, ma per tornare: Itaca è povera, “petrosa”, non fertile come l’isola di Ogigia; Penelope non è giovane come Nausicaa, dell’isola dei Feaci, né potente come la maga Circe, né immortale come la ninfa Calipso. Lui passa attraverso tutto questo, ma diretto a casa, dai suoi: il futuro dell’Odisseo omerico è la sua radice. In Dante, invece, pur di sapere, Odisseo oltrepassa le Colonne d’Ercole e perde la via del ritorno. L’Odisseo calabrese e meridionale che si sta muovendo è quello omerico: ha già fatto il viaggio e ora ritrova la strada di casa, per essere completo. Nessuno lo è, senza il suo passato». Il domani del Sud è il ritorno a se stesso.

Ho chiesto a un paio di ragazze volontarie al premio Rhegium Julii, perché lo facessero: «Qui c’è poco. E quel poco è a rischio. Vogliamo tenercelo. Per tenercelo, dobbiamo restare».

Quel che aggiunge una di loro, Josephine Condemi, sembra una risposta alla mia sensazione che il nuovo si muova ancora sottotraccia, ma possa cambiare tutto: «La chimica dei sistemi dissipativi dice che solo da una regione periferica può insorgere, a determinate condizioni, un’oscillazione “anomala” che, anziché regredire, invade tutto il sistema e lo rinnova. È successo in male (intende: dalla Calabria, con la ’ndrangheta; N.d.A.); può succedere in bene».

Lo spiega Nicholas Nassin Taleb (uno dei due o tre analisti a prevedere il crollo di Wall Street), in Il cigno nero: il mondo cambia all’improvviso, velocemente e in modo imprevedibile. Mentre tutti guardano alla Padania e, se a Sud, alla Puglia, alla Sicilia, alla Calabria, perché no?, potrebbe arrivarci quel che rifarà l’Italia. In bene, dice Josephine.

Credo abbia ragione, perché in Calabria, più che in altre regioni del Sud, si rafforza un fenomeno che riguarda tutto il Meridione e somiglia (da non credersi) a quello da cui scaturì il popolo che fece l’Unità d’Italia: la mortificazione delle classi medio-alte e colte; la sproporzione fra il numero di persone che ne fanno parte e le possibilità di occupazione adeguate; la consapevolezza delle proprie capacità e la legittima aspirazione a gestire il potere, la cosa pubblica, da protagonisti, non da subordinati. Martin Clark, in Il Risorgimento italiano, racconta l’insoddisfazione dei nobili lombardi, tenuti ai margini dagli occupanti austriaci; le difficoltà di lavoro per i professionisti (avvocati, medici), lì come in Veneto; le schiere dei democratici, in Toscana, folte di avvocati e giornalisti; nel Regno delle Due Sicilie, la restaurazione nel primo quarto dell’800, comportò l’epurazione di funzionari, intellettuali e professionisti convertiti alle idee liberali e “francesi”; in Piemonte, i nobili si tenevano stretti i posti di potere, e sui giornali regnava una rigida censura: «perfino termini come “Italia” e “nazione” erano tabù» (in Piemonte), scrive Clark.

La somma di troppe capacità e volontà compresse trovò sfogo nell’ideale unitario e si tradusse in azione, offrendo a quella sparsa, ma sempre più numerosa classe dirigente a cui non si dava nulla o poco da dirigere, un’impresa, un compito, un Paese e un futuro in cui trovare il ruolo fin lì negato. Il loro luogo d’incontro furono le associazioni segrete, specie la massoneria (o la carboneria, la Giovane Italia...). Ancora oggi, avvocati, professori, giornalisti sono i più rappresentati in Parlamento (e i massoni pure).

La “produzione” di scolarizzati, al Sud, subito dopo l’Unità, risentì degli anni necessari per reprimere la resistenza armata all’invasione piemontese (chiamata “brigantaggio”, per nasconderne e infamarne la natura); patì per la chiusura degl’istituti superiori già esistenti a Napoli, da parte dei nuovi arrivati, e per le leggi sulla costruzione di scuole, concepite in modo da privilegiare il Nord e ignorare il Sud (allora come oggi...). L’emigrazione massiva fece il resto. Il Mezzogiorno divenne riserva di braccia per il Nord e di funzionari pubblici. Sono del ’50 (secolo scorso, non quell’altro...), ma ricordo che mio padre, primo di nove figli, suscitava commenti, in famiglia, perché insisteva nel farci studiare, nonostante le difficoltà economiche, invece di mandarci a lavorare, come i nostri cugini. Pareva, il suo, una sorta di atto di presunzione.

La conquista del titolo di studio era il passaporto per affrancarsi dalla condizione minoritaria (specie meridionale, ma non solo meridionale). Su quello, le famiglie investivano: con sacrificio di tutti, si “mandava avanti” il figlio più portato ai libri (gli altri producevano reddito). Ma oggi, al Sud, più che braccia proletarie, tocca fornire teste proletarizzate, a centinaia di migliaia: ci si svena per produrle, poi le si cedono a basso prezzo, ché di più il mercato non dà, offrendo il giusto a pochi, poco a molti, niente a tutti gli altri.

Condizione analoga a quella delle classi medie e medioalte negli Stati italiani pre-Risorgimento. E come quei professionisti mortificati da rapporti di tipo coloniale, comunque a sovranità limitata (allora al Nord, ora al Sud) anche questi, non potendo cambiare la propria condizione in un Paese così fatto, né potendola tollerare oltre, non hanno altra scelta che cambiare le condizioni del Paese.

Per questo, saranno i giovani terroni a salvare l’Italia: nessuno ha più interesse (e bisogno) di loro a farlo. Al Nord non conviene cambiare: al più la forma, non la sostanza; e tende a perpetuare (con sempre maggior fatica), una situazione ormai insostenibile, da cui però trae vantaggio, pur se a spese degli altri. Ma l’età coloniale è un retaggio ottocentesco: è finita; il ladro che ruba sempre nella stessa casa, trova sempre meno e prima o poi la trova vuota. Se il Sud fallirà nell’azione di recupero del Paese, tutta l’Italia continuerà a scivolare sempre più indietro nella graduatoria delle nazioni civili e progredite. E non è detto che resti una.

Aprile Pino - 2011 - Giù Al Sud
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