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NEOBORBONICO

Mille idealisti guidati da un arcangelo biondo su un cavallo bianco liberarono nove milioni di meridionali, conquistarono un regno difeso da 120.000 uomini e lo dettero ai Savoia, per far l’Italia. Non ci credi? Non credi che le navi inglesi erano a Marsala, per caso? Che quelle borboniche non riuscirono a bloccare lo sbarco, per incapacità (erano borboniche...)? Che i generali napoletani facevano suonare la ritirata quando Garibaldi rischiava di perdere, perché ne avevano paura e non per gli assegni presi? Che il Regno delle Due Sicilie era povero, arretrato e oppresso, anche se tutti i documenti e i più attendibili istituti di ricerca ed economici dimostrano il contrario?

Allora sei nostalgico dei Borbone e vuoi che tornino sul trono delle rinate Due Sicilie. Non serve dirsi contrario all’idea, inattuale, seppur legittima: lo sei e zitto. Un nipote acquisito di Benedetto Croce (ma non solo lui) me lo attribuisce nell’edizione meridionale del «Corriere della Sera»: «il Sud deve tornare nelle condizioni di allora»; questo vorrei. Ma io, in Terroni, scrivo che meridionali e settentrionali dovrebbero evitare che il Paese si spacchi, e solo se la Lega Nord riuscisse a portare a compimento il suo progetto secessionista, il Sud, per limitare i danni, piuttosto che farsi cacciare e di nuovo derubare, dovrebbe contrattare l’uscita.

La monarchia non la vorrei nemmeno se il re fossi io, figuriamoci un altro. Ma questo non vuol dire che giudichi negativamente tutto quello che è “borbonico”. E se oggi, l’ingegnere Salvatore Carreca, di Agrigento, si dichiara neoborbonico e ricostruisce la storia del Reggimento Real Marina, Unità di Élite del Regno delle Due Sicilie, perché la cosa dovrebbe disturbare? Ed è pericoloso per l’unità del Paese, se il carabiniere sannita di stanza a Como, Guglielmo Di Grezza, allenatore di judo, presiede la nazionale di calcio delle Due Sicilie e progetta la sconfitta di quella della Padania? Per me, questo equivale al monumento all’imperatrice Sissi, in piazza, a Trieste: parte della propria storia, cui non capisco perché si dovrebbe rinunciare.

Perché ne parlo? Perché trasformare un periodo storico in insulto è rivelatore, specie se a farlo è chi insegna storia, e all’università.

È disonesto definire “borbonico” tutto quello che è (o si vuol raffigurare) deteriore: nessuno è perfetto, nemmeno nel male; figuriamoci nel così così... Persino l’inferno ha i suoi lati positivi: non ci si muore di freddo! Sennò, il compito della storia si riduce alla diffamazione dei vinti, per esaltare i vincitori: è quel che si fa con i nemici (sbagliando).

La parola “neoborbonico” è usata per declassare l’interlocutore e i suoi argomenti: squalificare il primo, per non misurarsi con i secondi. Il regno borbonico è parte della nostra storia (italiana, non meridionale: italiana), comunque discutibile; e se ne discuta, per capirla, e non per demolire l’altro, ma per ascoltarlo.

Il nipote di Croce mi porta, a esempio di correttezza e attendibilità documentale, le lettere di lord Gladstone, che disgustarono l’Europa, con la descrizione delle infami condizioni di carceri e tribunali napoletani. Peccato che, distrutto il Regno delle Due Sicilie, Gladstone ammise di non aver mai messo piede in quei luoghi. E lo si insegna tuttora per vero, all’università! A Matera, un neolaureato in storia mi obietta: «Però lord Gladstone racconta altro, nelle sue lettere». «Già,» rispondo «ma sono inventate, non gliel’hanno detto all’università?» Mi guarda perplesso: non sa se credermi o pensare a un tranello dialettico. E fossero anche state vere, si trascura di dire che c’erano carceri peggiori in Piemonte, alcune delle quali così spaventose, che equivalevano a una pena di morte in pochi mesi: parola di lord inglese, pure là (Vernon, questa volta). I quali lord, censori di prigioni e plebi altrui, venivano dal Paese con le carceri più infami; «In Londra vedi sovente morti per le vie di mera fame» scriveva Giacinto de’ Sivo. E su 17 milioni di abitanti, nel regno britannico, circa il 10 per cento erano mendicanti: andatevi a rivedere le illustrazioni di Gustave Doré (London: a Pilgrimage, 1872) sulla spaventosa condizione dei poveri di sua maestà.

Se l’Italia è un Paese unito, perché non è di tutti la sua storia? Se l’Italia è Nord e Sud insieme, la storia dei Savoia e quella dei Borbone dovrebbero essere indagate e insegnate con lo stesso metro, nelle loro luci e ombre; storia condivisa, “propria” ovunque, nel Paese, insieme a quella degli altoatesini, dei veneti, dei valdostani, dei sardi, dei siciliani... Come può la memoria di un Paese non essere la somma delle differenti vicende confluite nella casa comune? La curiosità della mia professione giornalistica e l’interesse che ho per gli altri mi fanno pensare alla storia di un Paese, come a una scampagnata di Pasquetta: ognuno porta quello che ha (uno il vino, l’altro la pasta al forno, qualcuno la parmigiana...); tutto viene messo al centro e tutti mangiano e bevono di tutto, ognuno fiero del suo contributo al pasto; ognuno ha portato esattamente quello che avrebbe consumato di suo, ma tutti hanno avuto di più, hanno conosciuto altro, si sono fatti conoscere: “nostro” in un’unica digestione. Che senso ha imporre peperonata per tutti?

Invece, tutta la storia che brilla è a Nord; tutta quella che puzza è a Sud: che non se ne parli, per carità di Patria, e dovendone parlare, male. Non c’è nulla che si salvi: i soli meridionali buoni sono quelli che uccisero (con Garibaldi o per Vittorio) gli altri meridionali, come gli indiani al servizio dell’uomo bianco, contro la propria tribù o quella accanto. C’è pure chi lo scrive, proprio così, commosso, su un giornale importante, oggi: i veri patrioti sparavano contro la loro Patria, in nome di una da farsi (o perché avevano capito da che parte conveniva stare); traditori erano quelli che la difendevano. E una nota prostituta, tenutaria di casini, viene elevata a eroina del Risorgimento, ancora oggi!, per aver accolto e scortato Garibaldi al suo arrivo a Napoli, insieme ai suoi amici e parenti camorristi, d’accordo con don Liborio Romano (il superministro che consegnò il Sud al Nord, per amor di Italia unita e poi morì di crepacuore, quando vide cosa ne fecero).

C’era da costruire un Paese unico e più grande (anzi, un Piemonte più grande: ufficialmente dichiarato, in Parlamento), e nell’immediato lo fai con quel che trovi: conta il risultato. Una sventolata di tricolore può pure riabilitare, all’istante, molti mafiosi e mignotte, ma dopo 150 anni potremmo smetterla e dirci le cose come stanno: stravolgere così le parole (patriota, eroina, traditore) ne distrugge il significato. L’irredentismo di italiani sotto dominazione austriaca, i lombardi, i triveneti, aveva un senso; ma i duosiciliani erano liberi e indipendenti, come i piemontesi: da chi dovevano liberarsi?

Non si pensa di offendere i veneti, per la perduta Serenissima, né i toscani per il Granducato, perché i meridionali sì, per i 127 anni di regno borbonico? Perché opposero resistenza? E cosa avrebbero dovuto fare i savoiardi, se l’esercito duosiciliano li avesse invasi, per annetterli? Lo si scrisse, all’epoca, in Piemonte, sul giornale: combattere come stanno facendo i “napolitani”.

Anche altri Paesi si sono uniti nel sangue; da noi, però, la guerra non sembra finita. Come se gli uni non avessero mai accettato la sconfitta, e gli altri l’idea che i vinti possano esser loro pari. Così, il compito datosi dalla cultura parrebbe di preservare gl’italiani dal loro passato impresentabile; una sorta di cantina buia, dove ai bimbi si dice di non mettere piede: è sporca, c’è la storia del Sud (forse per tacere o non doversi giustificare per quello che al Sud fu fatto).

«Le rappresaglie, le violenze e le altre cose che oggi suscitano tanto stupore e scandalo sono note da sempre» mi obietta uno storico, in un dibattito radiofonico. Vero. «E perché non ce ne avete mai parlato?» replico. «Ho fatto elementari, medie, superiori, ho cambiato tre facoltà universitarie, ma su Pontelandolfo, Casalduni e il resto, non ho trovato un rigo sui libri di scuola.» Potrebbe essere solo una mia mancanza, ma allora, perché la reazione più diffusa, alla lettura dei massacri e dei furti compiuti al Sud, per annetterlo al resto del Paese, è lo stupore, l’incredulità? Se non mente lo storico che parla di cose note (e non mente), e nemmeno chi manifesta il suo stupore, vuol dire che le cose note non erano adeguatamente divulgate (a questo, solitamente, provvedono i giornalisti, più che gli storici; e non solo in Italia). Tutto qui. Agli storici che hanno da ridire su come lo fanno i giornalisti, nessuno impediva di farlo meglio loro. Mentre tocca continuare a citare l’inglese Denis Mack Smith, per dire che la “liberazione” del Sud fece più morti che tutte le guerre d’indipendenza messe insieme; o aspettare che David Gilmour, un altro storico inglese, riconosca che «il sistema delle regole messo a punto dai Borboni» era «decisamente superiore rispetto a quello dei piemontesi» esteso a tutt’Italia. Purtroppo.

«Ma le sembra il momento di rievocare queste vicende, mentre si celebrano i 150 anni dell’Unità d’Italia e la situazione politica è così delicata?» mi chiede l’accademico di gran nome. E questa, non l’avrei indovinata. «Scusi, professore,» balbetto sbigottito «sono passati 150 anni... e ancora non bastano?» Sono giornalista, la prima regola della mia educazione professionale è: “Quando sai una cosa, dilla” (infatti, i cattivi giornalisti e veri ricattatori, quando sanno una cosa, per dirla, aspettano il momento più adatto, per loro o per chi li paga). Tale la sorpresa, che perdo il filo; vorrei obiettare: «Chi vi ha delegato a decidere qual è il momento in cui noi dobbiamo sapere i fatti nostri?». Ma il conduttore ormai chiude con i saluti, mentre lo storico mi fa: «Lei avrebbe voluto che vincessero quegli altri?».

Accidenti: ma “quegli altri” eravamo noi; italiani, solo un po’ meridionali (come il professore, del resto. Scusate se non cito i nomi, non è discrezione; quello che mi preme mostrare sono gli argomenti).

Si parlava della reazione armata del Sud, a riprova della delusione e dell’ostilità meridionale, se non all’Unità (e si può discutere), al modo in cui fu fatta (e ancora ne vogliamo discutere?): campi di sterminio, paesi rasi al suolo, esecuzioni di massa, teste tagliate da porre in scatole da collezionare o regalare agli “scienziati” del Nord. Tanti, tantissimi accolsero Garibaldi con la gioia e la speranza di maggiore giustizia e furono gabbati (molti ex garibaldini poi divennero briganti, come il più grande, Carmine Crocco Donatelli). Ma più dell’obiezione del mio illustre interlocutore, è il tono che mi sorprende: partecipato (di parte); un docente di storia! È allo stadio (e nelle trincee) che diviene insulto («Borbonico!», «Neoborbonico!», «Terrone!») l’identità dell’avversario. Sono passati 150 anni e siamo ancora sugli spalti a fare il tifo? La partita è finita; qualcuno ha giocato sporco, è entrato in campo prima del fischio d’inizio, si è comprato arbitro e portiere avversario, ha spaccato le rotule ai raccattapalle, violato ogni regola (accusando gli sconfitti di averlo fatto) e ha vinto. Ma la partita è finita; forse si potrebbe smettere di continuarla sugli spalti e iniziare a raccontarla davvero, senza preoccuparsi di giustificare (nascondendole) le infamie del vincitore, esasperando quelle del vinto o addirittura attribuendogli anche quelle subite. Siamo creature sporche dotate della capacità e possibilità (ma da cogliere) di ripulirsi. Nasciamo fra piscio e merda, ricordava un padre della Chiesa, lordi del sangue di nostra madre; e dovendo scegliere con quale materiale farci, Dio preferì il fango; da ateo mi chiedo: voleva dirci qualcosa? E dovrei credere che i soli senza difetti furono quelli che scesero a emendare una terra con tutti i difetti? (E siccome, per risorgere, bisogna prima morire, furono costretti a preventiva strage...) Anche Roma nacque dallo stupro delle Sabine, ma poi non si fece distinzione fra i figli. Divennero famiglia.

C’era un “perché” di cui dovevo ricordarmi... Eccolo: perché persone colte, responsabili, nient’affatto superficiali, quale il mio titolato e accademico interlocutore, sono così prudenti su quelle porcherie unitarie a loro (e ci mancherebbe) note? Sospetto che gli storici (non tutti; ma forse non a caso quelli che vengono da famiglie votate a tale disciplina da generazioni, a partire, quasi sempre, proprio dagli anni del Risorgimento) avvertano su di sé una responsabilità in più, sproporzionata, rispetto ai loro colleghi di altri Paesi; ed è una responsabilità che deriva, ancora una volta, dalla nostra fragilissima Unità.

Appena fatta, per come fu fatta, l’edificio era talmente precario, che si può comprendere il timore di vederlo franare, se quelle terribili verità fossero state rese pubbliche. Spesso, lettori increduli obiettano: «E come mai parlamentari e intellettuali del Sud non denunciarono quegli scempi?». Lo fecero eccome, del Sud e del Nord, dal milenese Giuseppe Ferrari al campano duca di Maddaloni, da Nino Bixio e Giuseppe Garibaldi, ai siciliani Francesco Crispi, Vito D’Ondes Reggio e tanti altri. La stessa relazione della Commissione parlamentare sul brigantaggio, nel 1863, fu letta in seduta segreta; i documenti smembrati, dispersi, non dati in consultazione nemmeno ai deputati; chi tentò di raccontare in Parlamento cos’avveniva al Sud, fu messo a tacere, gli si volle negare la pubblicazione negli atti della Camera. Chi osò insistere, dovette lasciare il Parlamento e qualcuno, anche l’Italia (Giacinto de’ Sivo, il suo libro su quegli scempi, dopo gli ostracismi sofferti in Italia, dovette pubblicarlo a Trieste, che allora era terra austriaca, “estero”). E poi lo raccontarono tanti altri, dal comunista Antonio Gramsci, agli inizi del secolo scorso, sino al missino Angelo Manna, alla fine del secolo scorso; dai testi di Carlo Alianello sono stati tratti persino sceneggiati televisivi di successo; ma tutti, proprio tutti, quando non vennero zittiti, rimasero inascoltati.

Conclusa l’epopea risorgimentale, con il suo enorme strascico di problemi conseguenti (fame e fuga dal Sud), ci fu la Prima guerra mondiale. E non era il momento migliore di mettersi a discutere di altre faccende; meno ancora, durante il fascismo, con la sua mistica nazionalista alla vaccinara, insensibile persino al ridicolo, che divenne la caricatura dell’amor di patria.

Quindi, un’altra guerra mondiale, durante la quale i nazisti fecero quel che i piemontesi avevano già fatto al Sud.

Poi, ci trovammo un Paese in macerie, da ricostruire, nei mattoni e nell’anima, dopo essere stato diviso in due parti opposte e combattenti, sia geograficamente sia ideologicamente, dalla guerra anche fra fascisti e antifascisti. Grande momento, la Ricostruzione: prendemmo tale rincorsa, che quando ci fermammo per rifiatare, scoprimmo di aver realizzato il miracolo economico, la lira veniva premiata nel mondo per la sua stabilità; eravamo il quinto o sesto Paese della Terra. Insomma: in 150 anni, abbiamo avuto quasi sempre qualcosa di più urgente da fare, che lavare i panni sporchi (di sangue) del Risorgimento. Ma non sono bastati a dimenticarsene.

Un sospetto, però, è legittimo: per un altro mio libro, Elogio dell’errore, dovetti documentarmi particolarmente sulla storia del Giappone. È “dimostrato”, scoprii, che il primo uomo apparso sulla Terra, era giapponese. Come lo sappiamo? Lo comunicò un sovrano del “Paese centrale delle canne”; e disse pure quando avvenne: 1.792.470 anni prima. Osereste smentire l’imperatore? No? Be’, e figuratevi i giapponesi. E se emergono prove del contrario (durante scavi o altro), può accadere che siano viste con diffidenza; persino sottaciute. L’archeologia rischia di proporsi come disciplina sovversiva, in Giappone, perché può intaccare le radici dell’identità nazionale. Così, il sapere, in merito, non è detto coincida con la sua diffusione. Anzi.

Temo che qualcosa del genere succeda con la storia del Risorgimento, nel timore che sapere cose brutte di noi, possa farci male. Non sono d’accordo. Mentre scrivo, in Germania (in Germania, non in Israele...), riscuote grande successo una mostra che prova l’adesione dei tedeschi alla follia hitleriana, a smentire la nota affermazione autoassolutoria, secondo la quale essa fu “la prima vittima del nazismo”. È sacrosanto chiedere la verità sulle foibe in cui furono buttati gl’italiani dagli iugoslavi, nell’immediato dopoguerra, ma bisogna pretenderla anche su quanto facemmo noi, di analogo e prima, nei Balcani; e in Africa (senza il coraggio e l’onestà di un Angelo Del Boca, saremmo ancora a “italiani brava gente”).

E così su quanto facemmo a noi stessi, a partire dal Risorgimento (e anche prima, vedi a Genova), al Sud, e altrove. Potremo solo uscirne migliori, più consapevoli. Il passato non ha fretta, sa aspettare, ma prima o poi bisognerà farci i conti. Con o senza custodi della memoria “possibile”. Con tutto il rispetto.

E adesso mi diranno di nuovo: «Neoborbonico!».

«Non c’è nulla di male a esserlo. Ma io non lo sono» replicai a un collega napoletano.

«Tu lo sei» sentenziò lui. «Te lo dico io.»

«Parli bene l’italiano, pur essendo turco, complimenti!» gli feci.

«Ma che dici? Sono napoletano!» obiettò lui, sorpreso.

«Sei turco. Te lo dico io.»

Aprile Pino - 2011 - Giù Al Sud
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