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IL POPOLO CHE CANTA

E cantano, cantano. Vai per dibattiti, conferenze, si discute di storia, di economia, di politica. E c’è qualcuno che canta; non sempre, ma troppo spesso, perché sia soltanto un caso: complessi folk o cori di bimbi, fini cultori di musica etnica o solo ragazzi con la chitarra per Brigante se more. Ma cantano.

Quando pensavamo di essere nati per cambiare il mondo, prima che il mondo cambiasse noi, si andava dietro alla musica dei vinti (se la destra inneggia ai primi, il coro della sinistra è per gli ultimi). «Il popolo che canta non morrà» si diceva. Invece, i popoli forse sono come i cigni, che cantano una volta sola, secondo la leggenda, prima di morire o quando ci vanno vicino. «La poderosa fioritura della musica napoletana, che pure era già grande, quella che ha conquistato il mondo, esplose dopo il 1860, come sfogo artistico di un popolo sconfitto» mi aveva detto Enzo Gulì, cultore di storia meridionale (suo Il saccheggio del Sud), mentre ascoltavamo l’esecuzione di ’O sole mio, con il flauto di Pan, da parte di piccoli allievi della scuola di un quartiere degradato di Afragola, Salicelle. Parlava di una cultura musicale cui si riconosceva un primato indiscusso, per innovazioni ed eccellenze, già nel Settecento; ma che doveva la sua maggior diffusione all’uso della musica, quale possibilità di recupero offerta a bambini abbandonati, orfani, indigenti, per i quali (come a Venezia, ricorda giustamente Dora Liguori, in Quell’amara Unità d’Italia) si crearono, sin dal Cinquecento, i primi conservatori. La musica per consolazione, riscatto e mestiere per i vinti della società.

«Lo stesso ’O sole mio» mi racconterà, poi, Nando Citarella, attore, cantante, studioso della musica popolare (collabora con la cattedra di etnomusicologia di Tor Vergata, a Roma) «nasce durante la ritirata di Napoleone dalla Russia. Era un motivo sussurrato, quasi a bocca chiusa, di un meridionale che sognava il sole della sua terra, nel freddo e nella neve. Solo dopo lo hanno cantato a voce piena, riempito di acuti.» Come dire: pure la più famosa canzone napoletana di sempre, quasi confusa (talvolta è successo davvero) con l’inno nazionale italiano, è figlia di una sconfitta (ma si narra che il primo essere umano nello spazio, Jurij Gagarin, l’abbia cantata, nel cosmo, per presentare la nostra specie all’universo). È così, per dare un’idea della quantità e del livello, che abbiamo capolavori come Santa Lucia luntana, L’emigrante, Lacrime napulitane, Funiculì Funiculà, Marechiare, Era de maggio, Scetate, Comme te voglio ama’, ’E spingole frangese, Lariulà, Catarì, ’A frangese, Serenata napulitana, Maria Marì, ’O surdato ’nnammurato...

Il canto attenua il dolore, lo scioglie, come i gospel per i neri, le nenie nelle trincee della Prima guerra mondiale, o quelle funebri in Mediterraneo. Il vincitore compone due marcette e un Te Deum; il vinto, tutto il resto. Il vincitore usa tamburi, cori e squilli di tromba, ottoni in cui pompare, mento all’aria e contro il cielo, il fiato dell’orgoglio che gonfia il petto; il vinto preferisce chitarre, strumenti a corda o a tasti, che lo obbligano a chinare la testa. E a modulare temi e voce, ché se uno solo vince e detta la musica, tutti gli altri perdono; e soffre ognuno a modo suo: il dolore è fertile, perché vario.

La scelta dei toni ne è conferma: nella musica napoletana predominano accordi “minori”. Giandomenico Curi, regista e docente universitario (suoi alcuni ponderosi studi su cinema e rock), narra che musicisti, psicologi della percezione e altri studiosi, partendo da interessi differenti, sono giunti alla stessa conclusione: «il modo “minore” definisce e connota i canti della tristezza; il modo “maggiore” quelli della gioia; o, volendo dirla diversamente, del vinto e del vincitore. In questo, un posto speciale occupa l’armonizzazione della cosiddetta “scala minore napoletana”, che è una scala di sonorità insolita (tra il morbido e l’orientale), che permette il massimo dell’abbandono musicale al piacere della sconfitta».

Ed è incredibile come il tono musicale del dolore, ovunque nasca, ricompaia identico nel tempo, ovunque un uomo canti la sua sofferenza. Lo scopro con “la sesta napoletana”, che percorre i secoli, da un oratorio seicentesco a Jim Morrison: «La “sesta napoletana”» mi spiega Curi, «è un accordo, anzi una sequenza di accordi, che da sempre viene utilizzata per comunicare, in maniera più forte e sentita, il pianto, il dolore, la disperazione della sconfitta. Uno dei primi esempi è nell’oratorio-capolavoro (1645), di Giacomo Carissimi, Jepthe, che racconta del condottiero costretto da un voto a sacrificare a Dio sua figlia, per ringraziarlo della vittoria. La gioia diviene tragedia, accompagnata da un accordo insistito e straziante di “sesta napoletana”. Il cui uso dilaga dall’Ottocento in poi; spunta nel jazz (Satin Doll, The man I love), sino al grande rock dei Rolling Stones (Angie), di Jimi Hendrix (Little wing), dei Doors (Summer’s almost gone)» .

Il Sud invaso, derubato e sottoposto a una strage ancora taciuta, si rifugiò nella musica: fu una fuga che coincise e si sommò ad altre fughe, oltremare. «In meno di dieci anni a cavallo fra l’Ottocento e il Novecento» spiega Citarella, per dare un’idea della portata del fenomeno «fu prodotta circa metà della musica nata nell’intero Settecento»; che pure, a Napoli, fu un secolo memorabile (grazie soprattutto al tarantino Giovanni Paisiello): tanto che Mozart si trasferì temporaneamente all’ombra del Vesuvio. Per i 150 anni dell’Italia, nessuno ha celebrato il Settecento musicale napoletano; hanno chiesto al maestro Riccardo Muti, di farlo, ma da Salisburgo, in Austria (mica è mafia, mica è monnezza...).

«Coloro che non riuscirono a essere massacrati» scrive Angelo Manna (Brigantaggio meridionale e circondario Cerretese) «scesero dai monti, deposero le armi. Si vendettero financo l’onore delle figliolette e delle madri, per togliere il disturbo [...] E fu l’emigrazione... Andò al porto di Napoli, l’Italia degli intellettuali, a vederli partire... Fu soltanto capace di cantarci sopra, di sventolare fazzoletti, di intonare canzoni lagrimose... Partono ’e bbastimente pe’ tterre assaje luntane!»

E se cantan’a bordo, allora so’ napuletane. Né aveva torto, il sanguigno Manna, a vedere nello sviluppo del canto l’accettazione della sconfitta, perché quando decide di raccontarla, invece di negarla a se stesso e agli altri, il vinto rinuncia alla speranza di ribaltarla; è come se si rivolgesse a una suprema giustizia, per avere aiuto. Domenico Modugno recuperò e riadattò (lo fece pure con Amara terra) un antico canto di protesta dei braccianti meridionali, Nu servu e nu Cristu, che chiedono a Gesù di distruggere la malarazza dei padroni. Ma il crocifisso replica che chi vuole la giustizia se la fa, non la chiede. La canzone fu vietata per legge nel 1857, rammenta Mimmo Martino, fondatore del gruppo calabrese dei Mattanza, e riammessa solo con l’aggiunta della versione di Cristo, che invita il perseguitato ad abbracciare il persecutore. Modugno vi inserì, più in linea con la versione censurata, due versi: «Tu ti lamenti, ma che ti lamenti / pigghia nu bastoni e tira fora li denti». Se impugna la chitarra il vinto ha deposto la spada; se canta ha rinunciato alla lotta. Magari incita a farla, ma non la fa.

Perché la fuga nella musica?

Il napoletano è lingua musicale di suo. Non capisci una parola, se parlato stretto, ma il senso del discorso, sì (certi monologhi di Eduardo, o di Massimo Troisi). Nessuno, o quasi, comprende cosa reciti Lina Sastri all’inizio e alla fine del film E li chiamarono briganti, di Pasquale Squitieri, su Carmine Crocco Donatelli e Ninco Nanco, eppure, mentre la sua voce sale, si rompe, s’arrochisce, diviene umida, tagliente, pietosa e poi di minaccia... e tutti sentono e capiscono cosa vuol dire.

E come, se non hanno colto una parola? La musica è forma di conoscenza non verbale: hanno compreso non per le parole, ma per i suoni delle parole. La nostra specie ha imparato a emetterli molto tempo prima di imparare a parlare: dal ruggito al verso del cuculo, sono un mezzo di comunicazione preumana.

Il dolore, verrebbe da dire, spinge l’uomo ad arretrare nel mondo ancestrale in cui gli uomini non c’erano; perché sono stati i tuoi simili a farti del male; quelli che parlano. Allora meglio tornare, regredire, fra quelli che cantano. Perché è indietro che ti butta il dolore: chi soffre invoca la mamma, come i bambini; e come i bambini balbetta, si dondola, si culla, chiude gli occhi per negare la realtà nemica: se non la vedi, non c’è più; il dolore ti riduce al lamento, che è suono senza parole, modulazione del mugugno; poi, quando e se viene elaborato, il lamento evolve in canto; elementare, ma canto: una, due note, alte e basse, ossessivamente ripetute, poi complicate con variazioni di stati d’animo, in toni diversamente ordinati, sino a quella nenia funebre in cui la pena, diluita, riconquista le parole, per dire le ragioni del pianto, perché sia condiviso; e si soffra un po’ ciascuno, per soffrire meno o non da soli.

Guarda il lamento della vedova, fin dove arriva, irriconoscibile: «Le famosissime Mare maje e scure maje, in Abruzzo e in Salento (dove sono sbarcate quasi certamente dai Balcani), o Nigra me, in Sardegna, significano “Povera me, triste me, dolente me”. Sono lamentazioni funebri, narrazione di una pena. Ma non sai quanti brani di Chopin, Berlioz sono “ripresi”, per non dire copiati, da lì» racconta Citarella, e canta la versione popolare e quella di Chopin, praticamente simili, tranne la lentezza della seconda. «E Maramao perché sei morto? è ancora: Mare maje e scure maje...»

La musica fiorisce nella casa dei vinti, perché vi entra il dolore (poi, però, va dove vuole). E se la casa è quella di un intero popolo, il canto è la risposta dell’oppresso all’oppressione. Nella sintesi estrema (non mia, ma dei fondatori della psicosociologia), questa condizione è quella del carcerato (qualunque sia la ragione per cui ci si arrivi). Lo conferma il fatto che un vero e proprio genere musicale è nato dalla necessità dei carcerati di lenire la propria pena (come tutti), e far varcare ai muri della prigione almeno la loro voce («Non potete vedermi, sono escluso, ma ci sono!»), i loro bisogni.

Canzoni immortali, come Palummella zompa e vola, vennero generate o rielaborate dall’incontro fra la sofferenza dei prigionieri e quella dei familiari, e dalla necessità di comunicarsi non solo la pena, ma anche altro. Giandomenico Curi e Citarella spiegano che questi canti “carcerari” nascono come un linguaggio per iniziati, «lunghe frasi modulate con grande libertà» (almeno le frasi, parlando di detenuti...), note stirate, interrotte sino al singhiozzo, invenzioni di ritmo e altro «perché ci si intendesse solo fra chi doveva intendersi. Tanto che, quando quel gergo canoro cominciava a essere comprensibile pure da estranei, specie i carcerieri, si ricorreva a nuove varianti».

E il canto del prigioniero, lamento e comunicazione clandestina alle spalle del carceriere, può diventare, per estensione, quello dell’oppresso contro l’oppressore ed evolvere in inno di protesta, di ribellione. Accadde proprio con Palummella zompa e vola: «Il testo esprimeva l’anelito di libertà popolare divulgato dal grande interprete di Pulcinella, Antonio Petito» riferisce Gulì. «Il successo fu immediato e tutti ne intonavano il ritornello per darsi coraggio. Arrivò a essere considerata talmente pericolosa la sua diffusione popolare, che in un film di qualche decennio fa si mostrava Petito (interpretato da Eduardo De Filippo) che la cantava contro la tirannia borbonica!»

E qui si scopre un giallo storico-culturale, la cui soluzione è davvero rivelatrice su come il potere tema il libero canto, perché «Palummella zompa e vola è del 1873» osserva Gulì (la data, verifico, è tratta da Napule è ’na canzone. Antologia della canzone napoletana, di Giovanni Alfano) «cioè quando da poco la violenza dei conquistatori sabaudi aveva soffocato nel sangue l’ultima resistenza di quelli da allora in poi detti “meridionali”». L’oppressore, quindi, non poteva essere la dinastia dei Borbone in esilio da 12 anni, ormai, «ma i colonizzatori sabaudi del Nord. Le preoccupate autorità non solo vietarono spettacoli che comprendessero Palummella zompa e vola, ma addirittura proibirono di cantarla per strada; stamparono infine» racconta Gulì «una nuova versione che non accennava più alla perduta indipendenza; ed è quella giunta sino ai nostri giorni. Naturalmente la gente continuò a sussurrarla a bassa voce o intonando il motivo a bocca chiusa. Sarebbe bellissimo riuscire a ritrovare il testo originale».

Ho girato l’osservazione a Citarella, che ha coinvolto un paio di specialisti, Stefano Pogelli (storico restauratore sonoro della Rai, una sorta di archeologo della nostra musica) e Paquito Del Bosco (direttore dell’Archivio Storico della canzone napoletana). Be’, ecco la sua risposta: «Tutte le notizie combaciano». Palummella zompa e vola, la canzone che fu proibita, perché denunciava l’oppressione borbonica, nacque ben dopo che i Borbone erano stati cacciati e sostituiti dai Savoia. Quanto alle molte versioni, c’è da crederci, visto che il motivo che si ritiene “carcerario”, ha, invece, nobilissimi natali: «La cosa bella» dice Citarella «è l’origine della melodia, che fu composta da Domenico Piccinni, nel 1766, e tuttora (come aria) viene eseguita nell’opera La Molinarella detta anche Aria di Brunetta» (il ministro non c’entra niente). Citarella mi invia pure lo spartito, rielaborato e trascritto da Teodoro Cottrau: fu lui a pubblicare, nel 1873, la versione in cui le autorità scorsero «evidenti contenuti sovversivi, perché alludeva alla libertà». Il testo venne cambiato, ma, ormai, ai napoletani bastava accennarne poche note, per capirsi. Era, se vogliamo, una prova del fallimento dell’ideale unitario, se l’oppressore contro cui puntava l’ala Palummella era italiano e la dinastia liberticida Savoia. Antonio Potito (morto nel 1876, mentre recitava, nel suo teatro), caricava di significati Palummella, alludendo a lotte sociali e voglia di libertà. Mentre è di trent’anni più tardi la versione di Salvatore Di Giacomo, Palomma ’e notte «si tratterebbe», riferisce Citarella «di un adattamento, con traduzione in napoletano, di una poesia in dialetto veneto, intitolata La pavegia, scritta dalla poetessa di origine armena Vittoria Aganoor Pompilj».

Sarà interessante ricostruire i percorsi di quest’aria, secondo gli eventi storici. Ma la contorta vicenda di Palummella zompa e vola qui serve solo per mostrare come un canto di carcerati, oppressi in prigione, diviene inno di un intero popolo che si sente oppresso e vorrebbe reagire; tanto che l’oppressore deve proibirne il canto e poi riferire quell’oppressione ad altri, non a sé. Come dire: se la canzone dei vinti accusa il vincitore, taccia il canto o si cambi il nome del carceriere.

A tale genere musicale appartengono pure i canti di lavoro nei campi, di prigionieri della terra, non di una cella. Li accomuna «il carattere di intrinseca disperazione» cita Curi «capace di dare voce al senso di rabbia e di rassegnazione che si andava diffondendo nel Sud. Un tipo di canto, ornato e privo di accompagnamento, che sembra molto diffuso nei regni e negli imperi del Nordafrica, nel Mediterraneo meridionale e in Medio Oriente». Si parla di cose universali: il blues, per dire, fa parte della stessa famiglia musicale.

Nel canto ripiega persino il dolore della madre, se generare è condanna per lei e vivere condanna per il figlio. «Fu García Lorca» racconta Curi «a parlare della tristezza delle ninne nanne spagnole. Tanto che “ne trassi il parere” scrisse in Las nañas infantiles “che la Spagna adopera le sue melodie più tristi (e i suoi testi di più fonda malinconia) per accarezzare il primo sonno dei suoi bimbi”. E l’etnomusicologo Alan Lomax, avverte che anche nell’Italia del Sud è così: “Le ninne nanne dell’Italia meridionale sono dolorose” scrive in Nuova ipotesi sul canto folcloristico italiano “veri e propri gemiti di sconforto, indistinguibili dai lamenti funebri dell’intera regione”.» Perché? Lomax lo spiega con la sottomissione, la subalternità cui era costretta la donna, e l’estrema difficoltà della vita, nelle regioni povere del Sud. Ma questo valeva e vale per chiunque sia sottomesso, tenuto in stato di subalternità.

«E io canto! Canto, canto!» urla Lina Sastri, con le lacrime che le bagnano la voce. «Io canto!» L’inquadratura è a lungo fissa, vuol dire che non hanno potuto metterle le gocce negli occhi, perché lei le faccia scorrere sul volto, abbassando le palpebre, quando la telecamera torna a riprenderla: Lina recita, si strazia, s’indigna e piange davvero. La musica nasce dal dolore e talvolta tocca pure il cuore di chi lo provoca.

Pensate agli schiavi neri dei campi di cotone in Louisiana: dal loro patire sorsero gli spirituals; e da quelli, quasi tutto il resto. Sul quale, però, c’è qualcosa che ci riguarda. «Gli Stati Uniti dopo aver acquistato la Louisiana dalla Francia (nel 1803; nel 1812 divenne il diciottesimo Stato dell’Unione; N.d.A.) offrirono la terra gratis ai coloni. E molti si mossero dall’Italia. Ancora oggi, la più antica salsamenteria siciliana d’America è a New Orleans» racconta Renzo Arbore, che sulla città e la sua musica ha girato un sorprendente film-documento di un’ora e mezzo, per la regia di Riccardo Di Blasi. Fra il 1850 e il 1870, a New Orleans c’erano più cittadini nati in Italia, che in qualsiasi altra città degli Stati Uniti: con l’abolizione della schiavitù in America e l’estrema miseria a cui, dopo l’Unità d’Italia, fu ridotto il nostro Sud, arrivarono tanti meridionali, specie siciliani; presero il posto dei neri, nei campi di cotone: il rango di schiavo volontario era divenuto preferibile a quello di libero cittadino meridionale d’Italia. Quei contadini introdussero ed estesero coltivazioni specializzate, come le fragole, generarono ricchezza. Non fu l’unico campo in cui si fecero valere.

«C’era una nave che faceva la spola fra Sicilia e New Orleans» narra Arbore «e quale che fosse, di volta in volta, il suo nome, la chiamavano Nave-Palermo: dall’isola portava agrumi ed emigranti; dall’America, cotone. Su quel bastimento salirono pure tanti musicisti; molti di Salaparuta.»

Erano bandisti, avevano da raccontare, con la propria, la fuga e la disperazione di un popolo che non si era mai mosso dalla sua isola, e fu ridotto in condizioni tali, dopo il 1860, che un siciliano su tre se ne andò. A New Orleans incontrarono altri musicanti, nati lì da genitori italiani. La città era feroce con i nostri connazionali: «Gli individui più abietti, più pigri, più depravati, più violenti e più indegni che esistano al mondo. Peggiori dei negri, più indesiderabili dei polacchi» secondo il sindaco. La più seria crisi diplomatica di sempre, fra Stati Uniti e Italia, durata anni, con il ritiro del nostro ambasciatore, si ebbe allora, per il linciaggio di undici connazionali, avvenuto in carcere, a opera di migliaia di “onesti” e impuniti cittadini, delusi per l’assoluzione degl’italiani accusati dell’uccisione dello sceriffo (amico e forse qualcosa più, di mafiosi siciliani tesi alla conquista del controllo delle operazioni di carico e scarico nel porto).

E quei nostri musicanti, quasi tutti siciliani, considerati come i neri, come i neri suonavano e i neri sfidavano, nella mitica Congo Square. E fu così che, improvvisando, improvvisando, inventarono il jazz. «Avevano nomi... pensa, c’era pure un Riina» mi dice Arbore «e Leon Rappolo, Salvatore Sbarbaro, Frank Signorelli, Tony Massaro, Louis Prima (quello di Bonasera, segnorina, bonasera...), Peter Rugolo. Si facevano chiamare, magari, e bada che non vado in ordine cronologico, Eddie Lang o Tony Scott, al secolo Antonio Sciacca, o Jack “Papa” Laine, ovvero George Vitale. Il primo al mondo a usare la chitarra per il jazz fu Salvatore Massaro, di origine molisana; con lui capitò, chissà come, uno di Bergamo, Joe Venuti: fu il primo violinista jazz. Ho avuto il piacere di suonare con lui. Erano tanti, una settantina e anche più, in band diverse. Ma il più famoso fu Nick La Rocca, trombettista e cornettista geniale, dal difficile carattere, leader della Original Dixieland Jass (solo in seguito divenne Jazz, per impedire, pare, con ass, “culo”, sconci giochi di parole) Band. Il primo disco jazz della storia è suo: facciata A Livery Stable Blues, facciata B Dixieland Jass Band; è suo Tiger Rag, un classico. Gli Stati Uniti hanno sottaciuto l’apporto italiano alla nascita del jazz, per far risaltare di più il proprio. E qualcuno si stupisce, quando sente dire che il jazz italiano è ancora oggi il primo o il secondo del mondo. Per forza, sono stati loro a inventarlo, con i neri di Congo Square, a New Orleans!»

Renzo ha ricostruito l’epopea di quei nostri musicisti emigrati e ripercorso i luoghi della loro impresa, da studioso del tema (e praticante con la sua Orchestra Italiana) e da pellegrino identitario; in Italia non li conosce quasi nessuno, ma nel cimitero di New Orleans le tombe dei terroni che fecero il jazz sono onorate. «Lo stesso Louis Armstrong, nella sua biografia, scrive che uno dei modelli a cui si ispirò, per diventare il Grande Satchmo, fu Nick La Rocca» ricorda Arbore. Di quei disperati che (specie dopo il 1870) fuggivano da un Sud reso invivibile dalla violenza con cui fu trattato, l’Italia sembra non voglia sapere nemmeno i successi. Immaginate cosa farebbero i francesi (e ce n’erano che suonavano a Congo Square), se il jazz avesse avuto padri marsigliesi o bretoni.

Ma pure questo, nel generale moto di recupero della propria storia, viene riscoperto e rivalutato. A Salaparuta, da dove mossero molti di quei musicisti, ogni anno, organizzano una festa-concerto. «Il figlio di Nick La Rocca, 70 anni, trombettista, è degno di cotanto padre» assicura Arbore «e io vado a suonare con lui.» Renzo ama proporsi come uno scanzonato adolescente a vita, ma lo avete capito tutti che non è così, vero? La storia del suo paese e del Sud la conosce bene, ne cerca le eccellenze.

E si è fatto ambasciatore della musica che nacque da quei meridionali costretti a emigrare: dal primo jazz dei neri di Sicilia, alle melodie dei napoletani sradicati («Ma i due italiani più amati degli Stati Uniti erano pugliesi: Rodolfo Valentino, di Castellaneta, Taranto, e Fiorello La Guardia, di Foggia, primo sindaco italiano di New York, figlio del direttore della banda dell’Aeronautica, originario di Cerignola. Fu lui a finanziare la costruzione dell’ospedale di San Giovanni Rotondo, voluto da padre Pio. Con i soldi dei fedeli americani, dissero. Ma, allora, del frate con le stimmate, non sapevamo niente noi, a Foggia, figurati a New York. Poi venne fuori che l’ospedale avrebbe dovuto servire ai militari della NATO e degli Stati Uniti, in caso di guerra con l’Unione Sovietica: il più importante aeroporto militare intercontinentale, Amendola, è a soli 10 chilometri da San Giovanni Rotondo.»).

C’è un dettaglio che sembra fatto apposta per collegare l’esperienza canora partenopea di quegli anni a quella, distantissima, dei siciliani di New Orleans. «Il jazz» spiega Renzo «nasce per evoluzione degli spirituals, dei gospel, ma la sua fonte primaria furono i calls, i richiami “di lavoro” cantati nei campi di cotone. Come quelli degli acquaioli, a Napoli, per dire, dei venditori d’acqua (’a fronn’e limone) e non solo. Le elaborazioni di quei richiami potevano portare, e lo fecero, a risultati impensabili. Il personalissimo stile di Sergio Bruni, per esempio, derivava da quelli.» In particolare, a partorire il genere e la tecnica era «la vierola,» spiega Citarella «che è la modulazione di chiusura dei richiami degli ambulanti. A fare i pignoli, trattasi della “espressione declinante del vibrato”».

Capito, sì? Gli acquaioli a Napoli e i neri in Louisiana.

Fra i valori persi dal nostro Paese con la diaspora dei meridionali, metteteci pure questo. Anche se la musica nasce con un passaporto, ma diventa apolide, di tutti. «Un pugliese, di nome Eugenio, emigrò a Nizza. Faceva un lavoro poverissimo: raccattava e legava fascine al mercato dei fiori. Ma era un grande suonatore di mandolino; e nel 1886 fondò un’orchestra di mandolini. Ancora oggi, a Nizza, c’è la più grande scuola per mandolinisti: ce ne sono circa 150.000, nel solo quadrilatero Nizza-Arles-Marsiglia-Bordeaux» narra Citarella, in partenza per un concerto, proprio lì.

Gli oppressi cantano. E il popolo del Sud d’Italia non è il solo ad aver partorito grande musica da grande dolore. La musica conserva il ricordo del danno e, nel tramandarlo, diviene, a volte, inno di guerra: «Leonardo Sciascia» riferisce Giandomenico Curi «racconta che quello dei rivoltosi di Bronte, sui quali si abbatté, poi, la rappresaglia di Nino Bixio, era il Canto della messe, con cui i contadini potevano permettersi, solo durante la mietitura, di dire male di chiunque». La musica della sconfitta irlandese (conoscete Foggy Dew, vero?), in patria divenne un’arma, per gli irredentisti antibritannici, mentre gli emigrati negli Stati Uniti, non sottomessi, la elaborarono e fusero nel country e poi nel rock. Le eccellenze musicali americane del Nord son figlie del canto di molti vinti dai neri fatti schiavi, ai meridionali italiani, agli irlandesi. Per altre vie e altri oppressi, è sorto qualcosa di analogo nel Sud America.

Chi ama i gorgheggi dei canarini (li allevava anche il capo di uno dei peggiori campi di sterminio nazisti), sa che deve farli soffrire per spingerli ad avventurarsi nelle loro più ardite e dolci melodie.

Per questo li accecano: gli togli la luce, gli sciogli la voce.

La musica che il mondo conosce come italiana viene dal dolore di Napoli; e quella celebrata come invenzione dei neri d’America deve gli esordi a siciliani e meridionali in fuga, per disperazione. Nascono, l’una e l’altra, da una ferita. Pensate quanto profonda, per produrre tanta arte.

«E io canto, canto, canto!» grida e piange Lina.

Basterebbe la nostra musica a misurare il male che ci è stato fatto.

Basterebbe il recupero di quella musica a misurare quanto sia cambiato il Sud e la percezione della propria storia, da parte dei meridionali. «Ancora nel dopoguerra, alle canzoni della tradizione meridionale si associavano sentimenti di vergogna, rimorso... Erano simbolo di povertà. Si deve arrivare agli anni Settanta, perché se ne riscopra il valore» rammenta Curi.

I giovani si innamoravano di Ernesto de Martino, che ritrovava ballate e miti del Salento, le voci delle “terre del rimorso”, come se rovistando nei bauli dimenticati in soffitta, apparissero, nelle vecchie foto, i volti persi dei nonni, dei loro genitori, per sorprenderci con la comunanza dei tratti, le somiglianze. Lo stupore fu grande per lo sbarco, a metà degli anni Sessanta, sul palco del festival di Spoleto, di un Omero contadino del Tavoliere, da cui tutti hanno imparato: Matteo Salvatore. E Rosa Balistreri che spendeva la sua voce negra sulla Sicilia dei vinti; come Ignazio Buttitta, con i suoi versi. La cosa appariva, ai più, opera meritoria (ridava dignità a una cultura e a una storia denigrate), ma di retroguardia; come chi colleziona vecchie mappe: un sapere interessante, ma ormai inutile, al tempo del tom-tom.

La vicenda dei fratelli Bennato la sintetizza in un lampo: Edoardo, portatore sano di cultura musicale napoletana, gira l’Europa, armato di armonica a bocca e chitarra, assorbe, fonde, rielabora e partorisce canzoni che non moriranno. Il genere è quello dei tempi: rock, ma partenopeo. Eugenio, portatore sano (ma non ne sono sicuro, secondo me è contagioso) di musica napoletana, gira per il Sud, scova tesori musicali, nel Gargano, nel Salento, in Campania... li salva e li ripropone. È motore di molte cose: La Nuova Compagnia di canto popolare, vera incubatrice di talenti, il Taranta Power, i Musicanova. E compone canzoni che non moriranno. Ma così pregne di identità musicale del Sud, da essere ritenute antiche e riciclate. Una, scritta con Carlo D’Angiò, per lo sceneggiato televisivo L’eredità della priora, diventerà l’inno nazionale del Sud risorgente: Brigante se more. (A proposito di inni nazionali: quello italiano, definitivo, doveva essere La leggenda del Piave, del napoletano E.A. Mario, pseudonimo di Giovanni Ermete Gaeta. Ma non se ne fece più niente, perché l’autore rifiutò di comporre l’inno della Democrazia cristiana, riferisce Luigi Giova, in Mangiapolenta licco, e il capo del governo, Alcide De Gasperi, se la legò al dito.)

La forza di Eugenio Bennato è percepire un sentimento di tutti, sepolto nell’inconscio reso silente dal tempo, ma vivo. Lui coglie la profonda radice comune e la canta. Chi non sapeva di averla, la riconosce come sua, quando qualcuno gliela mostra; e scatta un moto di riappropriazione: come se Eugenio avesse soltanto ripreso quanto agli altri apparteneva già. In un certo senso, è vero, e credo non ci possa essere conferma più grande della riuscita dell’opera originale di un artista. La riappropriazione popolare può essere così forte, da strappare all’artista la paternità dell’opera: a Brigante se more han cambiato le parole, e non si capiva più quale fosse l’originale; e la presenza di una doppia versione era diventata prova non della contaminazione, ma del plagio compiuto da Eugenio (che, stufo, è ricorso persino agli avvocati)! Capisco che all’artista girino i gabasini, ma l’omaggio più grande che si può ricevere è vedere la propria opera diventare di tutti, quasi fosse, la sua, solo una restituzione.

Ora, provo a riassumere, per fermare un significato: in nome della costruzione di un Paese unico, il Mezzogiorno è saccheggiato, ridotto a colonia interna ed escluso quando altrove si fanno strade, ferrovie, aeroporti, università, aziende pubbliche (meno due brevi periodi a inizio e a metà Novecento); i meridionali sono costretti a un ruolo di minorità per diritti e cittadinanza. La loro società è distrutta, la nuova li vuole a capo chino. Il dolore partorisce musica che va in giro per il mondo, insieme ai fuggiaschi: un modo per ricordare e chiedere a Dio, al mondo e a se stessi, il riconoscimento dell’ingiustizia e del danno subiti. E come spesso accade, col tempo, quel canto diventa inno di rivendicazione, talvolta di guerra, in senso lato o no, quando lo sconfitto smette di vergognarsi di aver perso e recupera il rispetto per la propria storia.

La fase della vergogna, al Sud ha cominciato a declinare negli avanzati anni Sessanta (una sorta di linea sotterranea, in realtà, era stata sempre viva, nelle catacombe della cultura popolare); si è infranta negli anni Settanta e, da allora, continua a lasciare spazio a quella del recupero identitario, della fierezza. Soprattutto a opera delle giovani generazioni.

Detto con parole grosse: il lamento è, adesso, sempre più spesso una voce piena, alta e ragionata. Specie dove più profondamente ha pesato la sottomissione. La regione che più recupera valore ai propri occhi è la Calabria: fra i testi di etnomusicologia, resterete sorpresi dalla quantità e diversità di quelli dedicati alla musica identitaria calabrese. Potreste innamorarvi di alcune perle in grecanico (contro lo ius primae noctis) o dialetto ellonofono.

Quando la voce si scioglie o erompe in canto, bisogna stare attenti, tendere l’orecchio, perché c’è da capire (ricordate cosa accadde a fine anni Sessanta? Un’intera generazione si mosse e ancora se ne canta). Un sentimento profondo dilaga a Sud, riempie spazio e anime, chiede di essere assecondato e riconosciuto in piena coscienza e dalla società, non più il silenzio inconsapevole dei vinti. Quando questo succede, qualcosa è cambiato. Io non so come sarà, qualcosa immagino, qualcosa spero; so cosa dice questa musica, perché l’ascolto: non sarà più come prima, non è già più come prima. Pensate a quale rivoluzione è nata dalla riscoperta della musica “etnica” salentina, la Pizzica. L’annuale appuntamento di Melpignano (Lecce) ha fatto del Tacco d’Italia «una delle capitali mondiali della musica estiva», secondo «DjMag», la più autorevole rivista specializzata del mondo. Ma l’ex sindaco Sergio Blasi, che fu tra i promotori della “Notte della Taranta”, dice di essere felice, perché «Melpignano è, in Salento, al primo posto per la raccolta differenziata dei rifiuti». C’è un nesso?, gli chiede Pierfrancesco Pacodo, per «La Stampa». «Quando una piccola comunità riscopre l’orgoglio delle proprie radici, delle tradizioni che esprimono una musica riconosciuta e amata ovunque cura con maggior attenzione il proprio territorio.»

Ma rischiano di non accorgersene, a volte, persino gli stessi protagonisti di tale potentissimo fenomeno, perché ognuno vede il suo albero. Bisogna allontanarsi dai fatti, ripeto, dopo esserci stati dentro, e guardarli come i forestieri, che vedono l’insieme, la foresta. Quello che accade nella musica, accade in letteratura, nella ricerca storica, nei rapporti sociali, nel bisogno di nuova rappresentanza politica, nell’idea e nella stima di sé.

Sì, dicevamo «il popolo che canta non morrà»; è una bella frase, ma, onestamente, non so se è vero. Di sicuro, il popolo che canta non è morto, se Pure a Calabria mo’ s’è arrivutaata!

Aprile Pino - 2011 - Giù Al Sud
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