45
IL SUD CHE PERSE IL TRENO
Ma che, di nuovo delle ferrovie nel Regno delle Due Sicilie? Me lo chiedono, è il dibattito che segue il convegno, che faccio, non rispondo? Siete stufi di sentirne parlare? Sapeste io! Sono appena 150 anni che ci raccontano che il Sud era arretrato, perché aveva un decimo delle linee ferroviarie del Nord; non c’è articolo, conferenza, libro di editorialisti e dotti docenti, meridionali e non, di inclinazione, come dire...?, padan-ferroviaria, in cui non si usi questo dato come risolutivo.
E, ogni volta, tocca dire del Borbone che punta, con la flotta, sullo sviluppo delle più ampie ed economiche vie del mare piuttosto che sul treno. Una sera, in Calabria, all’ennesimo intervento del genere, ma diluito in un tempo che parve eccessivo, il moderatore pregò di venire al dunque; ottenne una reazione sdegnata dell’offeso, abbandono della sala e urla di intollerabile censura (è successo pure a una conferenza dello scrittore Mimmo Gangemi; e pare sia sempre lo stesso). Qualche giorno dopo, su un giornale locale, si potevano leggere le prove, inconfutabili, dell’arretratezza del Regno delle Due Sicilie: un decimo delle ferrovie; serve dire altro?
Chi non ne può più, salti queste pagine. Io non posso (ho già preso l’anticipo dall’editore). Quindi, tema: Allora com’è la storia delle ferrovie duosiciliane? Svolgimento: quando arrivarono i piemontesi, nel 1860, «c’erano nel Regno delle Due Sicilie 130 km di linee operative», copio da Le costruzioni ferroviarie nel Sud dal 1843 ad oggi, di Angelo Mangone, edito da «Tecniche&Economie» dell’aprile 1987. Angelo Mangone deve saperne qualcosa, perché ha scritto anche L’industria del Regno di Napoli 1859-60. Naturalmente ci dice che prima nacque la Napoli-Portici, nel 1839 (il resto d’Italia, per vedere un treno doveva andare all’estero) e che nel 1845, la Napoli-Capua era già a doppio binario. Non solo, ma i treni, i napoletani, se li facevano da soli. Mangone, però, ci dice pure che, al momento dell’Unità, quei 130 chilometri di linee già operative non erano i soli: ce n’erano altri «132 km (fra cui la Capua-Presenzano-Ceprano e la Sarno-Mercato S. Severino) in avanzata costruzione, talché furono aperte al traffico pochi mesi dopo l’annessione». Come dire che i nuovi venuti si limitarono a inaugurarle. E quel decimo, rispetto allo sviluppo ferroviario del Nord, diventa un quinto, quasi un quarto. Che cambia? Poco. Un poco che è il doppio, però.
«Era inoltre praticamente avviata la costruzione di tre linee da Napoli: per Brindisi (attraverso la Basilicata), per Bari (via Avellino), e per Pescara, secondo uno schema radiale che avrebbe determinato una proficua integrazione delle regioni meridionali.»
Di nuovo: che cambia? Cambia che quel poco (il famoso decimo della vergogna) è il doppio, e, però, più un altro poco. Ma, soprattutto, cambia lo scopo per cui erano costruite le ferrovie: il Borbone mirava a innervare tutto il Sud, collegandolo con la capitale; i nuovi venuti fermano quei progetti e ne avviano altri, isolando Napoli: «dopo il 1860, la filosofia ferroviaria privilegiò i collegamenti Nord-Sud». Bisognava unire l’Italia, no?
Dici? Senza volerlo (si capisce), le linee veloci Nord-Sud servirono subito a trasportare i soldati che tennero il Paese meridionale in ginocchio; e sempre non volendo (si capisce), consentirono poi alle merci del Nord di raggiungere il Sud, prima che quelle del Sud raggiungessero il... Sud: se prodotte nel Mezzogiorno, per esempio sul Tirreno, non riuscivano ad arrivare sull’Adriatico, prima di quelle che partivano dalle Alpi. Se ne lamentavano già più di un secolo fa. Naturalmente, oggi è lo stesso, se non peggio. E ancora se ne lamentano, i meridionali. I quali sanno solo lamentarsi, invece di rimboccarsi le maniche (e prendere a sberle gli amministratori delegati delle Ferrovie dello Stato a metà? E i loro padrini politici?).
Quella “filosofia ferroviaria” nordista, secondo Mangone (e dagli torto!) fu ed è «non ultima causa dello scollamento e del degrado delle regioni del Sud disarticolate in sostanza fra loro e collegate al Nord come appendici di questo. Non a caso infatti la linea Bologna-Foggia (circa 550 chilometri; N.d.A.) fu aperta al traffico dieci anni prima della Caserta-Foggia (circa 180 chilometri, ma con lunga deviazione irpina; N.d.A.)! Non a caso, oggi, da Napoli si arriva a Firenze in meno ore che a Taranto!».
Mangone lo scriveva nel 1987. Oggi, 2011, a Firenze, da Napoli, si arriva ancora più presto (2 ore e 35, il treno più veloce, per oltre 470 chilometri); e a Taranto, ancora più tardi (più di quattro ore, e si tratta del treno più veloce, per 310 chilometri).
Quella “filosofia” (non sarà troppo nobile la parola, per una tale porcata?) non riguardava solo i treni e sfida i secoli: oggi continua nelle ferrovie (nel senso che si continua a farle al Nord, anche con i soldi del Sud; e a non farle al Sud, perché sono finiti i soldi); e, per equità, è stata applicata pure alle autostrade e agli aeroporti (par condicio). Così, al Sud, c’è un modo indecente di andare da qui a lì, se “lì” è a Nord; mentre se “lì” è sempre Sud, il modo può non esserci e basta, manco indecente.
Ci sarebbe ancora qualcosa da dire, circa la prova dell’arretratezza del Sud, dimostrata dal «decimo della vergogna». E Mangone lo dice: «Le ferrovie napoletane, nel 1860, avevano una dotazione di una locomotiva ogni 1,3 km contro una disponibilità di una locomotiva per 2 km delle ferrovie sarde» (ma il 1860, ho scoperto, è l’anno in cui le cose cominciarono a cambiare; dev’essere successo qualcosa...). E non basta, perché quando Torino volle varare la sua ferrovia, riferisce Nicola Zitara, in L’invenzione del Mezzogiorno, le locomotive dovette andarle a comprare a Napoli (essendo il Sud arretrato, perché solo un decimo... Qualcuno ve ne ha mai parlato?). Tanto indietro era il Meridione, che dal 1839 al 1860, gli stabilimenti di Pietrarsa costruirono 46 locomotive, incluse tre di particolare potenza e interesse tecnologico; la Guppy ne fece 10, più un prototipo da montagna; la Zino&Henry solo due, ma aveva iniziato nel 1859: l’anno dopo arrivarono i liberatori e...; altre due ne fece l’Officina di Capua.
Mentre il vanto dell’industria nordica, la Ansaldo di Genova, sino al 1860 «aveva costruito in tutto solo 10 o 12 locomotive e le Officine di Verona solo un paio (8 secondo altra fonte)». Fino al 1860, le varie aziende ferroviarie in tutta Italia acquistarono 75 locomotive fabbricate nella Penisola, «quindi all’epoca» riassume Mangone «le industrie napoletane avevano prodotto i quattro quinti delle locomotive nazionali». Arretrate, sia chiaro; e il Piemonte, ma si può?, proprio quelle di Napoli andava a comprare (pensa quant’era più arretrato...)!
Poi arrivano i bersaglieri e l’industria ferroviaria del Sud ha qualche problema: sparano sulle maestranze dell’Officina di Pietrarsa, che vorrebbero continuare a fare locomotive; e spostano tutte le commesse dalle aziende del Mezzogiorno a quelle del Nord. «Il contributo del Sud al totale delle costruzioni ferroviarie italiane che era di oltre il 50 per cento nel 1860, ancora del 35 per cento nel 1870», scese al 4, 5 per cento nel 1880, riporta Mangone. Salirà poi di qualche punto e lì si fermerà. Arretrarono, le ferrovie del Sud, ma dopo l’Unità, non prima!
L’argomento «poche ferrovie, quindi arretratezza», però, non è solo falso nei dati, è soprattutto disonesto nel concetto. È comprensibile che il Piemonte, pur partito dopo, sviluppasse rapidamente una più ampia rete ferroviaria: poteva collegarla direttamente a quella degli ambìti mercati del Nord Europa; della Francia, con cui confina, e dei Paesi del futuro Stato germanico, osserva Martin Clark (Il Risorgimento italiano. Una storia ancora controversa): «Ormai era evidente che le ferrovie avrebbero trasformato l’economia italiana ampliando considerevolmente il mercato potenziale».
Mentre il Regno di Napoli, per conquistare i ricchi mercati nordeuropei e dell’America, poteva scegliere soltanto il mare. Per questo, in soli quindici anni, sviluppò una flotta commerciale che divenne una delle prime al mondo, e avviò traffici pure con la Cina.
Al contrario, con la via ferrata, il Regno delle Due Sicilie avrebbe potuto collegarsi solo con se stesso. Per raggiungere il resto dell’Italia e l’Europa, avrebbe prima dovuto convincere gli altri Stati preunitari (Pontificio, Granducato di Toscana, Ducato di Modena e Piacenza, Ducato di Parma, Piemonte e l’Austria del Lombardo-Veneto), a costruire ferrovie contemporaneamente e con lo stesso scartamento dei suoi binari. E avrebbe anche dovuto stringere rapporti commerciali clamorosamente innovativi, per quei tempi, per l’abolizione dei dazi sulle merci in transito. «Come sarebbe avvenuto per la Comunità Europea oltre un secolo dopo» nota Clark «un’unione doganale italiana avrebbe dovuto stabilire non solo dazi uguali, ma anche un sistema comune di pesi e misure, organi di controllo e gestione comuni e forse anche una moneta unica.»
E non è detto che sarebbe bastato: l’Austria ostacolava i commerci dei lombardi, impedendogli di servirsi del porto di Genova e persino di quello di Venezia e costringendoli a raggiungere Trieste (chiari ostacoli alle iniziative imprenditoriali di regioni che voleva continuare a tenere in condizioni semicoloniali: non produttrici, ma consumatrici di merci. Austriache. Chi di voi ha detto che la cosa sembra analoga a quanto avviene da 150 anni in Italia, con il Nord nella parte dell’Austria e il Sud in quella del Lombardo-Veneto? Bravo: ha vinto un biglietto per un viaggio in treno Milano-Matera, prima classe). E perché mai l’Austria, per tacere degli altri, avrebbe dovuto dare a Napoli i vantaggi che negava a Milano, che pure era parte del proprio impero?
Insomma, il Regno delle Due Sicilie doveva prima fare l’Italia, per poter stendere i binari per il treno che la risalisse: nel pur breve tratto fra Lucca e Bologna c’erano ben sette barriere doganali. «Non era concepibile» commenta Clark «che i treni dovessero fermarsi per i controlli doganali ogni pochi chilometri.»
Ma, volete la prova che il Meridione era più arretrato, anche se aveva una flotta che cominciava a fare concorrenza a quella inglese, costruiva i quattro quinti delle locomotive italiane e ne vendeva anche all’estero, e viaggiò in treno prima di tutti gli altri italiani? Napoli, nel 1860, aveva un decimo delle linee ferroviarie del Nord, che poi non erano un decimo, ma il doppio, e più qualcos’altro, perché...
Mo’ basta però, eh?
Anzi, post scriptum: il Mezzogiorno ci ha guadagnato dall’invasione e annessione al Piemonte (ma non sarebbe stato meglio fare l’Italia unita?), sostengono quelli che parlano della scarsità di ferrovie al Sud arretrato. Ora, se un argomento del genere giustifica, per il trionfo della civiltà ferroviaria, l’invasione di uno Stato senza nemmeno dichiarazione di guerra, allora stiamo attenti: il Mezzogiorno oggi ha, in proporzione, meno ferrovie, rispetto al Nord, che nel 1860; treni, linee e tempi di percorrenza (vabbe’, si fa per dire) sono, e stavolta è vero, sicuramente arretrati, da Terzo Mondo (diciamo che potete avere la sorpresa di trovare ancora quelli del 1860, più o meno, sempre che l’immaginifico amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato Penoso non abbia deciso di tagliare pure quelle linee, considerato che già ne hanno soppresse circa mille chilometri, a Sud, negli ultimi settant’anni). Quindi, se la Francia, per farvi le ferrovie, occupasse l’ex Regno delle Due Sicilie, per darlo a un erede di Gioacchino Murat (il progetto c’era già, nel 1860, e Napoleone III fu lì lì per metterlo in pratica), non dovremmo lamentarci. Non ci accorgeremmo nemmeno della differenza: pure loro parlano francese, come i piemontesi, quando, per il nostro ferroviario bene, vennero a liberare chi manco si rendeva conto di averne bisogno (hanno ragione: proprio arretrati!). I sostenitori del diritto altrui a invadere Paesi ferroviariamente poco dotati, avrebbero già l’argomento pronto a giustificare anche quest’altra invasione: gli toccherebbe solo cambiare i nomi...