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DOV’È L’ALTROVE?
Sono stato ad Aliano, in Lucania, a ritirare il premio Carlo Levi, assegnato al mio Terroni, per la saggistica. Nel nome di un autore che ha segnato la mia adolescenza, mi si chiamava dove lui era stato confinato dal fascismo, perché si perdesse memoria del suo genio. E mai calcolo fu più sbagliato. Un paese sul crinale di un calanco, destinato a svuotarsi, essere dimenticato, scivolare a valle, e che ora vive ed è noto in letteratura, nell’arte, nel mondo, grazie al confinato: la memoria di uomo che si doveva perdere, ha recuperato quella persa di un luogo. Capita un po’ troppo spesso di dover esser grati alla stupidità del potere.
Un paese che diventa un premio per averlo raggiunto, esserci arrivato, in quella terra bella e semideserta che è la Lucania. Dovrò passare per la valle dell’Agri, fra due marce muraglie di terra lebbrosa, tagliata dal fiume e dai suoi affluenti, disciolta dalla pioggia, butterata dal sole, che asciuga e svuota gli alveoli di creta. E, a valle, le terre sottane. Era appena la generazione di mio padre quella che è morta, sparata da campieri, usurpatori, latifondisti, fascisti, polizia e carabinieri agli ordini della politica asservita a quei padroni... Era la terra poca, che non bastava per tutti. Ricordo i filmati d’epoca, cavati dall’archivio della Rai, quando lavoravo con Sergio Zavoli a Viaggio nel Sud: ero ammirato e commosso da quei cafoni che, in stracci indecenti (unico loro abito), erano monumento alla dignità, alla serietà; e avanzavano, come il Quarto Stato, armati solo dalla convinzione che chi è nel giusto, deve avere coraggio di dirlo, di andare, contro la «Celere, dove c’erano i tuoi figli in divisa» (furono usati pure i carri armati contro i braccianti!). Una generazione fa, i cafoni davano dignità agli stracci; una generazione dopo, doppiopetto e cachemire non riescono a nascondere l’indecenza di cafoni (non in senso bracciantile) che si fanno governo, potere e costume.
Quei senzaterra «rubavano le parole» ai padroni, annotando su un quaderno, come Peppino Di Vittorio, quelle che non capivano, per farsele spiegare; raccoglievano le carte per terra, se erano stampate, per leggere. Per smettere di essere invisibili (“gli analfabeti”, nome collettivo), andavano “a scuola di firma”, da Gaetano Salvemini, rientrato dagli Stati Uniti, alla caduta del fascismo, per imparare a scrivere il proprio nome e cognome, diventare individui, riconoscibili alla penna. E poter siglare la domanda per la terra distribuita con la riforma agraria. Salvatore Giannella ricostruisce quei giorni in un suo libro: «E ora, miei carissimi braccianti, dite con tutta sincerità: da quando avete imparato a firmare, vi sentite più sicuri?» chiedeva, ai suoi nuovi allievi, il grande professore pugliese, che aveva appena lasciato la sua cattedra ad Harvard.
Ora percorro la jonica, da Taranto, verso ovest, continuo a fermarmi nelle stazioni di servizio, nell’inutile ricerca dei giornali. «Ce li avevo, li ho tolti» mi dice uno. «Erano solo fastidio, niente guadagno e la sera troppo tempo per fare i conti delle rese.» Finché, in un immenso autogrill con albergo, una copia una, di un quotidiano locale. «Tutto qui?». «Finiti gli altri.» «Alle 11 del mattino? Accidenti quanto leggono.» «No, ne prendiamo pochi. Non si vendono.» «Io li avrei presi, li aveste avuti...»
Quando cominciai le mie prime inchieste sulla mafia della manodopera, in Puglia (mi denunciarono; fui assolto. E trovai casa devastata), vedersi raccontati su un giornale, «La Gazzetta del Mezzogiorno», che non era «l’Unità», parve la conquista di un diritto ai braccianti e ai loro sindacalisti, come Peppino Vasco, un orfano di Gioia del Colle adottato dalla Cgil: la sede della Federbraccianti fu la sua casa, poi fu mandato a studiare in Russia e, al ritorno, a organizzare gli ultimi lavoratori della terra, nella catena agricola. Peppino mi accompagnava di notte dove i “caporali” sceglievano i braccianti a cui “dare la giornata”. Poi mostrava l’articolo a quegli stessi braccianti: «Siamo sulla stampa borghese, per i diritti». E leggevano insieme. L’indifferenza al giornale è segno del suo perduto potere o di parentela ormai troppo lontana. Cambiato il giornale, o la campagna, o entrambi.
Oggi, per chilometri e chilometri, quella terra (la migliore, i piani sottani, a valle, guardati con invidia e cupidigia dai franosi paesini sugli sfasciati colli d’argilla), terra che valeva il sangue, è vuota. La vigilano, a intervalli quasi regolari (ognuno il suo aerale) splendidi nibbi reali e altri falconidi. Più falchi che uomini. «Scusate, per Aliano?» urlai a un piccolo gruppo di contadini chini sul campo (gli uomini seduti sui talloni, a estirpare fra i filari, le donne culi all’aria e capelli raccolti sulla nuca). «Sempre dritto!». «Grazie. Quanto manca?» «Non lo so, siamo rumeni.»
Quel popolo dignitoso e lacero non c’è più; inurbato altrove e non più lacero. Ha perso gli stracci, e forse pure qualcos’altro che lo rendeva epico; ha i figli all’università; quasi sempre fuori, con buone carriere, magari, ma non qui. E siccome questa terra pare venga fecondata solo dalla povertà, si importano i poveri: dalla Romania, dall’Africa, domani chissà. Altre storie costruiranno una più ampia anima collettiva; e si cercherà nei Fuochi del Basento, di Raffaele Nigro, il respiro omerico di questi luoghi e di quei piccoli giganti silenziosi, forse estinti.
«Non siamo una regione, ma un popolo, pur se pochi» spiegherà, con riferimenti accademici, storici, antropologici, il presidente della Basilicata, Vito di Filippo, durante la premiazione. «Ma basta una riga tracciata per terra a fermarci...» mormora il mio vicino, Giuseppe Tralli, della Confindustria regionale (e cita, poi, una mia osservazione in Terroni). Non capisco. «Non ricordi cosa diceva Leonardo Sinisgalli?» suggerisce. Ricordo Gente di Lucania, ma questa storia della riga per terra... Tralli pesca il brano sul suo BlackBerry. Ah, già! Gran poeta e manager (Pirelli, Finmeccanica, ENI, Alitalia, Olivetti), Sinisgalli spiegò i suoi corregionali come nessuno: «Girano tanti lucani per il mondo, ma nessuno li vede, non sono esibizionisti. Il lucano, più di ogni altro popolo, vive bene all’ombra. Dove arriva fa il nido, non mette in subbuglio il vicinato con le minacce e neppure i “mumciupì” con le rivendicazioni. È di poche parole. Quando cammina preferisce togliersi le scarpe, andare a piedi nudi. Quando lavora non parla, non canta. Non si capisce dove mai abbia attinto tanta pazienza, tanta sopportazione. Abituato a contentarsi del meno possibile si meraviglierà sempre dell’allegria dei vicini, dell’esuberanza dei compagni, dell’eccitazione del prossimo. Lucano si nasce e si resta. Gli emigranti che tornano dalla Colombia o dal Brasile, dall’Argentina o dall’Australia, dal Venezuela o dagli Stati Uniti, dopo quaranta anni di assenza, non raccontano mai nulla della vita che hanno trascorso da esuli».
Un contegno che cela orgoglio estremo: «Il lucano non si consola mai di quello che ha fatto, non gli basta mai quello che fa. Il lucano è perseguitato dal demone della insoddisfazione [...]. Questo è un popolo che la saggezza ha portato alle soglie dell’insensatezza. Come una gallina che s’impunta davanti alla riga tracciata col gesso, l’intelligenza dei lucani si distoglie per un niente, si blocca appena sente volare una mosca».
«Il nostro male è “u fuec d’i ginest”, il fuoco delle ginestre» dice Vincenzo Folino, presidente del Consiglio regionale «che bruciano di violenta ed effimera fiammata, subito estinta; e lasciano una cenere finissima e leggera, che il primo lieve fiato di vento porta via, cancellando persino la traccia di quel rogo.» Poi, dice qualcosa che mi distrae: «Terroni ci riporta a Levi e al Levismo». C’è anche il professor Guido Sacerdoti (nipote del medico e scrittorepoeta-pittore) presidente della Fondazione Carlo Levi, a Roma. Come potevo immaginare questo momento, quando, adolescente, continuavo a tornare sulle pagine già lette di Cristo si è fermato a Eboli, incantato dalla perfezione, allontanandomi dalla fine del libro, invece di avvicinarmici?
«Con noi ti sei fatto i soldi; ad Aliano, cosa hai dato?» spiattellò un contadino a Carlo Levi, quando il torinese ammalato di Sud tornò da candidato senatore. Li aveva raccontati, gli alianesi, e ritratti: li aveva fatti esistere, «fece sapere che ci siamo» dicono ora. E oggi presentano l’ultima traduzione del libro, già volto in 37 lingue, adesso in 38: in alianese: Criste se jete fermete a Ebele. Ma Aliano restava per me un luogo letterario. Un po’ come Itaca: ho fatto vacanze e navigato nel mare e nelle isole intorno a Itaca, ma non ci ho mai messo piede, nel timore che la realtà me la banalizzasse (e poi, avevo già letto il poeta Costantino Kavafis, che dice di non andarci).
Il sindaco, Antonio Colajacovo, ha puntato sul business della memoria. Mentre intorno i paesi (belli, inarrivabili e vuoti, erti e lesionati su valli spettrali e precipiti) diventano fantasmi che aziende straniere progettano di acquisire, riattare, per farne buen retiro di pensionati nordeuropei (Craco vecchia, Alianello...), ad Aliano, un migliaio di abitanti, giovane sindaco e anziano parroco, don Pietro Di Lenge, stanno compiendo un miracolo, con il recupero delle case (svuotate dagli emigranti e rotte dal terremoto o rotte dal terremoto e svuotate dagli emigranti); la rinascita di attività commerciali («Ora c’è il bar!»; «Abbiamo “i” ristoranti!»: due); iniziative culturali (la pinacoteca, il premio Levi, l’anfiteatro sul filo di un lunare strapiombo d’argilla); turistiche, con l’albergo diffuso (ne sono ospite) e le “didascalie” in ogni angolo del paese, a indicare personaggi, episodi descritti in Cristo si è fermato a Eboli. La suggestione del racconto di Levi, e dei volti che dipinse e resero immortali gli sguardi antichi e severi degli alianesi è ovunque.
«Questa terra confinata, poi di emigrazione, divenne terra di confino» riassume (e bene, con passione) Vincenzo Folino. Dell’isolamento dei paesi lucani la tirannia fascista fece un’arma: «Ne mandarono qui duemilacinquecento». Fu l’incontro fra Italie e italiani che ignoravano tutto gli uni degli altri. Si innamorarono. La fascinazione del Sud cambiò la vita a tanti di quei colti e indomiti antifascisti; nemmeno la caduta della dittatura riuscì più a staccarli da quei luoghi, a cui dedicarono (come Levi o Manlio Rossi Doria) i loro studi, la loro azione politica, il resto della loro esistenza.
«E noi, ora, della nostra storia misera di case di pietra, abbiamo fatto un tesoro, per trarne futuro» dice Folino, con un linguaggio che non ha nulla di politichese nella forma, ma molto di politico nella sostanza, e la cadenza addolcita, contadina, le “t” che diventano “d”, idee alte rese con una parlata popolare, quella che ci rimproveravano, ragazzini, a scuola, perché era “l’indialetto” (ci si può esprimere in modo popolare, anche senza rutti, pernacchie e va’ da via el cul).
E non è il solo, se poi senti Vito Di Filippo raccontare dei lucani «esposti al vento e al gelo della storia», parte di quella «Questione meridionale che è ormai diventato l’irrisolto divario sociale ed economico più antico del mondo».
Tutti più bravi di noi, possibile? I tedeschi con la Germania Est, gli spagnoli con l’Andalusia, i britannici con la Scozia, l’Irlanda..., e ora persino il ritardo di storici Paesi del Terzo Mondo si colma, sino al rischio-sorpasso sui primi! C’è bisogno di dire ancora che l’unica differenza è che, altrove, si è voluta riconoscere la ragione di quei divari e sanarli, e da noi no? E che l’economia italiana si regge da 150 anni sul mantenimento del dislivello a danno del Sud?
La Lucania è la sintesi: regione dimenticata, tranne per il suo petrolio (i giacimenti in terraferma più grandi d’Europa), portato via a compensi da rapina: royalties del 7 per cento, contro il 35, il 50 e persino di più, che le stesse compagnie petrolifere riconoscono a Paesi africani. Di Filippo spiega che la sua regione è grande un quinto più del Friuli Venezia Giulia, ma ha meno della metà degli abitanti (scarsi 600.000), più dell’Umbria, il doppio della Liguria (tre volte più popolata) o del Molise, quanto l’Abruzzo... ma continua a svuotarsi e dei più giovani, ovvero di futuro.
«Come dice uno scrittore meridionale, noi al Sud siamo ormai “rimanenti”, non “residenti”.» Non rassegnati, perché è proprio di quelle rimanenze, dimenticanze che vedono intessuto il domani.
Sul ciglio di Aliano, a scavalco di due orridi belli e paurosi, a destra e sinistra (c’è pure quello “del bersagliere”, a ricordo di come finì, e soprattutto: dove, quel tale venuto qui in nome dell’Unità d’Italia; dicono avesse molestato delle donne); calanchi profondi in fuga per chilometri: tu sei quel puntino pieno di stupore e di pensieri, fra due baratri. Non esiste più il tempo, le distanze perdono significato; i valori dell’uomo sono ridotti all’essenziale: al suo carattere. Ci vorrebbe una capatina qui, ogni tanto, a riprendere le misure dell’anima e dell’inutile distanza fra noi e gli altri. Su quel ciglio, ti senti osservato da molto lontano, da molto in alto e la dimensione che avverti di avere è quella minuscola che appare a chi ti guarda così.
Mio nipote Giorgio, non aveva sei anni, mi chiese una volta: «Nonno, chi ha inventato l’Altrove?». Gli detti una risposta “utile”, logica. Sul ciglio di Aliano, ho deciso di portarlo lì e dirgli: «Eccolo, l’Altrove. È qui, e ovunque ti guardi da qui intorno. E tutto il resto è altrove. Di cui si può persino fare a meno. Il tempo piano piano si mangia i calanchi. E l’Altrove finisce. È solo un momento diverso da questo; ma sembra un posto».
Non so se son riuscito a dirlo bene; temo di no. Ma ci vuole uno più bravo di me, per raccontare cosa senti su quel ciglio. O bisogna andarci.