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ELOGIO DELLA “RESTANZA”

«A Riace» dice Giovanni Marroccio, sindaco di Acquaformosa (paese di origine albanese, nel Cosentino) «mi ha incantato la piazza dove bambini curdi, palestinesi, eritrei, iracheni, iraniani giocavano insieme.»

I ragazzi di “Io resto in Calabria” mi hanno invitato a Reggio, per coordinare l’incontro fra protagonisti di esperienze difficili, belle e differenti, nella regione. Marroccio è il primo a raccontare.

«Chi troppo frettolosamente continua a parlare di un Sud lamentoso, compromesso e rinunciatario dovrebbe cominciare a riconsiderare questo straordinario fenomeno sociale» scrive, in Terronismo (una risposta al mio Terroni), Marco Demarco, direttore del «Corriere del Mezzogiorno», edizione meridionale del «Corriere della Sera». E parla delle centinaia di migliaia di giovani laureati meridionali che vanno via, a cercare la propria realizzazione altrove, insofferenti per i ritardi, le insufficienze, le compromissioni del Sud.

Ma, laurea a parte o persino inclusa, è da circa centotrent’anni che il Sud produce questo «straordinario fenomeno sociale» e le cose non sono migliorate: se non son bastati dai 13 ai 20 milioni di fuggitivi, il dubbio dovremmo farcelo venire: e se fosse il contrario la soluzione? Per esempio la scelta di “Io resto in Calabria” (e non solo)?

Nella sessione affidatami si va dal fondatore di una minuscola cooperativa fra disoccupati che si inventano un lavoro (piccolo, è quasi un insulto chiamarlo lavoro, ma lavoro), al rappresentante della multinazionale che gestisce il porto di Gioia Tauro. Qui sono una dozzina, a raccontarsi; nelle sale accanto altre decine; negli stand, fuori, ne incontri ancora; nell’anfiteatro del Consiglio regionale sono centinaia i giovani e no che hanno qualcosa da dire o soltanto voglia di ascoltare, esserci, farsi vedere lì; e sono un migliaio nell’area occupata da questo festoso raduno di calabresi indomiti. E quanto indomiti, lo capirò poi, a Messina, dove riferisco del mio stupore e l’ammirazione per quel che avviene nella regione più negletta e diffamata. Narravo delle cose coraggiose fatte e riferite nei pubblici interventi; del sindaco di Isola Capo Rizzuto (un grumo di oppressione mafiosa), Carolina Girasole: donna, giovane, piccolina che, mentre un fremito corre nell’anfiteatro, parla di doveri, regole, diritti, dignità, coraggio, senza un cedimento nella voce e nel tono. Altro che banalità del male, questo donnino scatenava a palle incatenate il terribile potere della normalità delle norme: civili, legali, democratiche. Infastidita solo verso la fine da un... trasudamento oculare che rimuove con gesto veloce, quasi irritato, senza abbassare lo sguardo. Lei e gli altri sapevano bene cosa stava accadendo, lì. «A Reggio sei segnalato subito,» dice un mio interlocutore messinese che molto sa e molto si dà da fare; e il termine spiega tanto «appena impugni il microfono, sei già segnalato. Tutto viene segnalato a Reggio.»

E ne hanno da segnalare, nel giorno della Calabria migliore, il Calabria-day. Quel sindaco donna, professionista e tosta, un paio di mesi dopo, a Isola Capo Rizzuto, con la cooperativa che ha preso in gestione un terreno sequestrato al potente clan degli Arena, partecipa, assieme al prefetto e al questore, al pubblico rito della trebbiatura. Gesto antico, che rimanda a quello fondante delle nuove città (la trebbiatrice l’ha fornita un giovane imprenditore locale; per capire cosa significhi: l’anno prima, avevano dovuto provvedere prefetto e Corpo Forestale, perché nessuno osò aiutare chi traeva orzo dalla terra del boss, a onta del boss. E a raccoglierlo, c’erano anche il sindaco e don Ciotti). C’è una rifondazione sociale in atto, in molte parti del Sud, nel disinteresse del Paese “che conta” (magari i soldi della mafia, a volte): ci andrebbero il Trota, la signorina Minetti, a spaccarsi la schiena su un fondo tolto alla ’ndrangheta, nella speranza di pochi euro, magari con una laurea in tasca, sapendo che già l’esser presenti, su quella terra, è una plateale umiliazione del permalosissimo potere criminale che pretende di dominare sulle vite di tutti?

Spendendovi le proprie ferie, ad affiancare questi coraggiosi ragazzi, vanno a fare “campi estivi” (cioè a lavorare), giovani quasi esclusivamente del Nord, ugualmente legati all’associazione Libera, di don Ciotti. Così, con il coraggio e il sacrificio dei migliori, si recuperano alla legalità strutture, edifici, aziende nate sul sangue e la sofferenza degli onesti. L’Italia non è solo elmi cornuti a Pontida, pernacchie padane e bunga bunga.

Mentre noi, al Calabria-day, ascoltiamo il sindaco di Acquaformosa che parla di Riace e di quanto quell’esperienza lo abbia colpito, rimbombano, nel continente, apocalittiche minacce del ministro leghista dell’Interno, Roberto Maroni: dice che l’Italia potrebbe uscire dall’Unione Europea, perché gli altri Paesi cattivoni ci hanno... “rimasti” soli nell’emergenza (tanto imprevista, che lui l’annunciava da settimane) di ventimila profughi sbarcati a Lampedusa (la Germania ne accolse centomila dai Balcani e non dette fastidio a nessuno). Il sindaco di Acquaformosa, invece, ha seguito l’esempio di Riace: ha aperto le porte ai profughi. «È nato un bimbo, quest’anno, al mio paese. Lo hanno chiamato Giovanni, come il sindaco...: è nero, figlio di una coppia di nigeriani. Le donne di Acquaformosa si informavano: quando nasce, serve niente?»

L’Italia ha più di ottomila Comuni, incluso metropoli quali Napoli, Milano, Roma, Torino... Se ognuno di questi avesse accolto due profughi, Lampedusa sarebbe stata svuotata in un giorno. Due, a Roma, a Milano! C’è un italiano nel mondo, per ogni italiano in Italia (60 milioni altrove, 60 qua): un Paese con questa storia non ha saputo accogliere, in “emergenza”, due profughi a Milano, a Bari o a Udine.

Riace ha 1.970 abitanti, poco meno di 300 sono extracomunitari integrati (provenienti da Ghana, Mali, Burkina Faso, Nigeria, Mauritania, Costa D’Avorio, Kurdistan, Bangladesh, Serbia, Palestina, Eritrea, Iran, Iraq...). Ad alcuni di loro è affidata la raccolta differenziata, fatta con asini autoctoni (almeno quelli...), per stradine altrimenti inaccessibili, e un carretto con la scritta: “Abituati a spingere, non a respingere”. Da quando i barconi cominciarono a spiaggiarsi, su questo tratto della Locride ne sono passati seimila. Nessuno è stato lasciato solo, tutti sono stati aiutati: una casa (nei paesini svuotati dall’emigrazione, ce ne sono), la possibilità di avviare un’attività economica, o solo riprendere fiato, rimettersi in salute, imparare l’italiano, regolarizzarsi e proseguire il viaggio, nel resto d’Europa, o fermarsi.

Il sindaco di Riace si chiama Domenico Lucano; il primo luglio del 1998, poco più che ragazzo, vide per la prima volta decine di uomini, donne, bambini «uscire dal mare». Erano curdi. Totò Matozzo, amministratore di Soverato che ha impegnato tutto quello che aveva per sostenere la squadra di volley del suo paese (con notevolissimi risultati sportivi e non solo: «La pallavolo, duecento iscritti, allontana i ragazzi dalla piazzetta in cui oziavano, nel migliore dei casi»), racconta, al Calabria-day: «C’ero, quel giorno: arrivarono in duecento, sulla spiaggia, in condizioni inimmaginabili, affetti da moltissime malattie. Li sistemammo subito, in un paese ormai fantasma, Badolato, che ora non è più tale: è abitato, i curdi gestiscono sei bar, tre ristoranti, altre attività economiche. Vengono turisti dall’estero, per vedere questo miracolo».

Badolato fu il primo passo, per iniziativa di Antonio Perna, docente di Sociologia economica a Messina. Oggi, se scorrete per quei paesini già muti e vuoti, vi trovate una sintesi dei malconci della Terra, ma risorti e attivissimi; dopo i curdi arrivarono etiopi, siriani, serbi, albanesi, iracheni, eritrei, iraniani, palestinesi, egiziani, somali, afghani... (pensa le fiaccolate che si è perse Borghezio).

E mentre Maroni ci riempiva di vergogna e ridicolo in Europa per i profughi di Lampedusa, il sindaco di Riace chiedeva, inascoltato: «Mandateli qui». Non era solo: sono diventati una quarantina i comuni calabresi che accolgono profughi e li integrano. «Noi e gli altri centri italiani del progetto Sprar (Servizio protezione richiedenti asilo e rifugiati) avremmo potuto ospitarne quasi tremila di quelli di Lampedusa; e subito» dice il sindaco di Acquaformosa. «Non ci hanno nemmeno risposto» (dal Lombardo-Veneto, dove hai redditi fra i più alti d’Europa, giungeva, per “mancanza di mezzi”, il rifiuto di accoglierne poche unità). Poi, magari (sai il sindaco di Adro, quello che dedica la scuola elementare a un razzista?), ci si batte per “i valori cristiani”, appendendo il crocifisso in ufficio.

Giovanni Marroccio ha reso Acquaformosa “primo comune deleghistizzato” ed è orgoglioso del suo decalogo dell’accoglienza, che diffonde ovunque:

1. Nel nostro paese non togliamo le panchine per gli immigrati, anzi le addobbiamo di cuscini.

2. Nel nostro paese non disinfettiamo i luoghi dove vivono gli immigrati: i nostri luoghi sono puliti naturalmente.

3. Nel nostro paese è vietato scrivere «Forza Etna» o «Forza Vesuvio»: è consentito scrivere «Fate l’amore e non la guerra».

4. Nel nostro paese è vietato fare gli esami di dialetto: nelle scuole basta l’esame di abilitazione nazionale.

5. Nel nostro paese non sono ammesse le ronde: è consentito il libero passeggio e lo “struscio”.

6. Nel nostro paese sono abolite le magliette con scritte offensive verso l’Islam: «meglio essere nudi che cretini».

7. Nel nostro paese non si possono cantare le canzoni che inneggiano alla «monnezza di Napoli», si può cantare ’O sole mio.

8. Nel nostro paese non occorre affermare di «avercelo duro»: tutti lo sanno già.

9. Nel nostro paese non si può gridare «Roma ladrona»: si può cantare Roma Capoccia.

10. Nel nostro paese Alberto da Giussano è ritenuto un dilettante al cospetto del nostro Giorgio Castriota Scanderbeg.

Alberto da Giussano è una leggenda, non è mai esistito; Giorgio Castriota Scanderbeg sì: è l’eroe nazionale albanese; per quasi un trentennio arrestò l’avanzata in Europa dell’impero ottomano, alla vigilia del 1500. Fu baluardo della cristianità e dell’Occidente. Gli albanesi d’Italia, detti arberesh, sono frutto della migrazione succeduta alla sua morte (in Puglia sorse uno stato potentissimo, che si chiamò Albania Salentina; andava da Taranto a Brindisi, giù per la provincia di Lecce. Ancora oggi, a Specchia, presso Santa Maria di Leuca, c’è il palazzo Scanderbeg). Acquaformosa è un paese arberesh e si parla albanese. Sono passati 500 anni, ma il sindaco ricorda che la sua gente fu accolta e ha il dovere di accogliere. «Quei tremila profughi di Lampedusa che avremmo potuto ospitare sarebbero costati allo Stato circa 25 milioni di euro in un anno: quanto hanno speso, se son vere le cifre, per la sola sceneggiata di Manduria» (gli immigrati portati in un campo di prima accoglienza e poi lasciati fuggire; mentre sindaco e abitanti della cittadina presso Taranto, invece di barricare le strade, si facevano in quattro per aiutare i rifugiati, perché avvertivano quale primo dovere dare una mano a chi era in difficoltà, poi protestare con il governo e il ministro leghista).

La legge sull’accoglienza della Regione Calabria è forse la migliore d’Italia; l’iniziativa fu del centrosinistra, ma passò all’unanimità e venne «elogiata dal rappresentante in Italia dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), Laurens Jolles», scrive (Autointervista sul federalismo) Agazio Loiero, allora presidente della Regione. Quella legge «sta funzionando e, attraverso l’integrazione, si è trasformata la presenza di immigrati e di rifugiati in un’opportunità per il territorio» perché la civiltà dell’accoglienza può essere un affare, genera sviluppo, educazione alla convivenza. Per assistere i profughi si spendono, in media, meno di 30 euro al giorno. «Prima» spiega Marroccio «il ministero dell’Interno corrispondeva da 23 a 35 euro al giorno per ogni rifugiato assistito nel circuito dei comuni aderenti allo Sprar: normalmente, 23 al Sud, 35 al Nord! Dopo l’emergenza dell’aprile 2011, a Lampedusa, la gestione è passata alla Protezione Civile che, a trattativa privata con i proprietari, spesso sistema i rifugiati in alberghi dismessi, a far niente. Nei comuni dello Sprar, i rifugiati sono inseriti nella vita del paese, aiutati a ricostruire i documenti, i figli vanno a scuola».

Ma i soldi arrivano con tempi burocratici, mentre profughi e rifugiati ne hanno bisogno subito. Così, il sindaco di Riace, detto “Lucano l’afghano” o “Mimmo dei curdi”, ha messo in circolazione una sorta di moneta provvisoria scambiabile con l’euro: sulla “banconota” da 50 “euro provvisori” c’è Gandhi; su quella da 20, Martin Luther King; su quella da 10, Ernesto Che Guevara e il martire antimafia Peppino Impastato (il film I cento passi, ricordate? A lui era intitolata la biblioteca comunale di Ponteranica, nel Bergamasco, prima che il sindaco leghista ne cancellasse il nome; poi, anche l’ulivo dedicato a Peppino fu divelto. La giustificazione fu che non apparteneva alla cultura locale. Che, dunque, non sarebbe antimafia... I primi a protestare furono tanti cittadini di Ponteranica).

Mimmo dei curdi è stato candidato al Nobel per la pace e, con altri 22 di tutto il mondo (unico italiano), al titolo di Miglior Sindaco del pianeta (riesci a stento a farti dire che è risultato terzo. Al mondo. Sindaco senza auto di servizio, senza segretaria). In Italia, i più, non sanno nemmeno chi sia: non è un capomafia, non ha il paese pieno di monnezza: perché se ne dovrebbe parlare? E se non fosse per i Bronzi, non si saprebbe nemmeno che Riace esiste; ma Wim Wenders, il regista de Il cielo sopra Berlino, su Riace, il suo sindaco, la sua gente, i suoi ospiti e la loro meravigliosa avventura umana, ha girato un cortometraggio, Il Volo, che ha fatto il giro del mondo. L’avete visto voi?

Marroccio parla divertito dalla sorpresa che suscitano i racconti della Calabria che accoglie, in chi non ne sa nulla (quasi tutti).

E come descrivi la voce indebolita dall’emozione di Francesca Rocca? Sottile, un tono dolente nel finale delle parole, forse per l’affioramento della cadenza dialettale nell’irreprensibile italiano di laureata in Lettere a Firenze (indirizzo antropologico). L’intonazione è accentuata da un dire lento e pacato, privo di alti e bassi. Chi ascoltasse senza cogliere le parole, penserebbe a un lamento. Ma più la segui, minuta, pensosa, il giaccone serrato sino al collo come una corazza, più ne avverti la forza: persone così non le schiaccerai mai, perché forse nemmeno comprendono la possibilità di sottrarsi a quello che considerano dovere. Più l’ascolti, che enumera risultati, come dinanzi a un consiglio d’amministrazione, più sospetti che quella nota dolente possa essere l’eco del prezzo (non detto), per ottenere quei risultati: migliaia di persone assistite, regolarizzate, dai tossicodipendenti, ai malati di aids, ai profughi e rifugiati.

Solo accenna al suo benvenuto nella cooperativa Agorà Kroton, a Crotone (quanti sanno che lì c’è il più grande Centro di prima accoglienza profughi d’Europa?): gli attentati con cui la mafia distrusse i loro automezzi. Aveva ventisei anni, era appena tornata da Firenze, rinunciando a valorizzare la sua laurea in più comodi “altrove”. Eppure non sembra esserci nemmeno rimprovero nel suo racconto e nella “logica” spiegazione: «Se non fai qualcosa di buono, non ti odiano».

La cooperativa aveva aperto pure una casa famiglia, a Crotone. Fra mille problemi, funzionava, ma sono stati costretti a chiuderla: la Provincia non ha più dato contributi: «Forse la crisi, i tagli, i problemi di bilancio...» suggerisce Francesca. E guarda da dove comincia a tagliare la Provincia!

Agorà Kroton occupa il villaggio di Sovereto, abbandonato dall’ente bonifica dell’Opera Sila, passato al vescovado di Crotone e ceduto in comodato gratuito alla cooperativa (nata da alcuni fedeli della chiesa di Fondo Gesù). Negli anni, quei ruderi sono stati resi agibili. Poi è scaduto il contratto e il vescovo nuovo ha chiesto affitto e arretrati, oppure lo sfratto. Pare che il Vaticano abbia disposto che nessuna proprietà della Chiesa resti infruttuosa. E tu guarda da dove si va a cominciare! Ci sono stati appelli dei cittadini di Crotone; alla fine, il vescovo si è accontentato di mille euro al mese. Sia lodato Gesù Cristo.

Così, versando l’obolo al Tempio, il buon samaritano può continuare a soccorrere gli ultimi della Terra. Francesca indica ogni tanto, in sala, «il nostro presidente», Pino De Lucia: con altri ex parrocchiani di Fondo Gesù, il quartiere più degradato di Crotone, addosso alla “fabbrica della morte” della Montedison (ora chiusa: il cancro continua a mietere), accolse la richiesta di aiuto di un tossicodipendente. Non avevano intenzione né coscienza di quello che ne sarebbe nato: «Stavamo avviando un progetto importante, il nostro progetto» leggo in una sua intervista. E non lo sapevano. Perché dopo quel tossicomane, ne venne un altro, e un altro... Attrezzarono una casa, poi non bastò. Poi il vescovo Giuseppe Agostino permise loro di sistemarsi in quei ruderi, trasformati, riferisce «Il Crotonese», «in un angolo di paradiso, ogni ospite, straniero o tossicodipendente, ha dato il suo contributo, costruendo, lavorando, ripulendo». «A Sovereto,» dice De Lucia «ogni pietra racconta storie, sofferenze... Qui abbiamo celebrato i funerali dei nostri ragazzi, ma anche matrimoni, battesimi. Ogni angolo è un pezzo di un cammino in cui abbiamo creduto per anni, in cui ci siamo buttati a capofitto, dimenticando ciò che eravamo prima, quando eravamo uomini insoddisfatti del nostro modo di vivere, quando ancora dovevamo trovare la strada» (vi viene da togliervi il cappello, vero? E non ne avevate mai sentito parlare. Nemmeno io: mica è mafia, mica è monnezza).

Non sapevano neanche di essere una cooperativa, De Lucia e gli altri: solo nel 1989 lo divennero effettivamente. E nel 1999 aderirono al circuito Sprar, per l’assistenza ai rifugiati. «Il nostro presidente,» narra Francesca «incontrò dei curdi per strada, a Crotone, smarriti, non sapevano dove andare. E disse: “Venite con me”» (Sono ateo, ma una frase così mi pare di averla letta già. Cos’era, il Vangelo?). Quelli di Agorà Kroton fanno anche “animazione” per i 1.500 profughi e rifugiati del CPA: «Ma fuori del Centro, non hanno nulla, manco i bagni chimici. Il loro primo problema è dove fare i bisogni. L’unica cosa che trovano è la statale 106 e tanti ne sono morti, investiti».

Francesca racconta senza mutare tono e postura. Due anni fa le proposero un lavoro, lavoro vero: contratto a tempo in-de-ter-mi-na-to, persino i buoni pasto! Il sogno di ogni precario (roba che neanche il candidato al Nobel degli insulti, ministro Brunetta, avrebbe più potuto chiamarla “Italia peggiore”). E lei accettò: aveva fatto tanto per gli altri (questo non lo dice lei, lo dico io), forse poteva pensare un po’ al suo futuro, aveva ventinove anni, progetti matrimoniali. Resistette qualche settimana: non poteva risolvere il suo problema, allontanandosi da quelli degli altri. Si dimise e tornò a combattere con lo scarso, il niente e il forse per sé, in cambio del molto da dare agli ultimi della Terra. Un anno fa si è sposata.

«I miei colleghi sono un etiope e un marocchino.»

Spio come la guarda Daniele Testi, responsabile del marketing della Contship, la multinazionale che gestisce, con quello di Gioia Tauro, una mezza dozzina di porti nel Mediterraneo. «Quanti di voi sono entrati almeno una volta nel porto di Gioia Tauro?» chiede. In sala si alzano solo due mani. Gli rammento che Mimmo Cersosimo, docente di economia all’università calabrese di Arcavacata, disse che quel porto è collegato con tutto il mondo, meno la Calabria. Testi spiega che la Contship ha avviato un programma, Portolab, per far vedere ai bambini calabresi che nella loro regione c’è il porto più grande del Mediterraneo. «Ne sono passati, sinora, più di seimila, in cinque anni: vengono e studiano storia, geografia (un porto è il luogo più indicato); ma l’entusiasmo è quando si collegano, in tempo reale con i loro coetanei nei porti di Cagliari, Tangeri, La Spezia, Ravenna e gl’interporti di Rho e Melzo, dove arrivano i treni, i camion. Poi, molti di loro scrivono i loro commenti sul nostro blog. Vale la pena darvi un’occhiata...» Lo faccio; ha ragione.

Alessandra Tuzza, che dirige Europe Direct (ottiene finanziamenti europei per progetti, senza l’intermediazione politica) gli dice che lei provò a mostrare il porto di Gioia Tauro a una delegazione spagnola, ma non li fecero entrare. Testi ancora non c’era...

Quando il primo genovese, un Costa, venne a Gioia Tauro, per valutare se fosse il caso di investirvi, si accesero molte speranze: quel deserto d’acqua costato tanto poteva finalmente diventare pane. Lessi che Costa trovò due file silenziose di calabresi, dinanzi al municipio. Poi uno di loro gli si avvicinò: «Qui c’è gente onesta» gli disse. Lo ricordo a Testi. Lui risponde che lo fece pure un altro, un giovane: «Sono laureato in ingegneria dei trasporti». Si chiamava Domenico Bagalà. Oggi ha quarantadue anni, è l’amministratore delegato della Contship, per il porto di Gioia Tauro, dopo aver fatto tutta la trafila dirigenziale in azienda, avviato il porto di Tangeri, diretto quello di Cagliari.

Michele Ferraro, dirigente della società sportiva Volley Tonno Callipo, chiederà, poi, a Testi: «Un giorno, lei andrà altrove. La domanda è: chi verrà dopo di lei? Perché, ogni volta che nasce qualcosa di buono, la domanda è questa: e poi?». E la domanda è più grande di quel che sembra, per l’incerto domani che la crisi propria e generale disegna per il porto calabrese.

Ferraro è abituato a programmare futuro, a partire dal niente: «Dieci anni fa era impensabile che avessimo un palazzetto dello sport. Oggi ne abbiamo tre, e pure la piscina; e la scuola di pallavolo e una squadra che milita nella prima serie, ma anche altre nelle serie minori, e in quelle giovanili. Centinaia di ragazzini di 12, 13 anni frequentano la nostra scuola, giocano, girano l’Italia, affidati a dei tutor... Non è più sport, ma operare nel sociale. Se hai un progetto e volontà, puoi cambiare molto anche con poco».

Carmensissi Malferà lo ha fatto. È una donna giovane e di molte doti: a sedici anni, vinto un concorso dell’Europa unita, era già a Strasburgo, per collaborare alla scrittura della carta dei diritti degli europei, poi firmata dai capi di Stato, a Nizza, nel 2000 (è di Pizzo Calabro, ma fu eletta portavoce della Puglia, del Trentino, del Veneto e del Friuli, non solo della sua regione). I suoi studi furono all’altezza degli esordi. Ma un giorno, a Pizzo, una persona disabile chiese il suo aiuto per superare un ostacolo impossibile per una sedia a rotelle. E lei vide il mondo in un altro modo. «Mi promisi che da allora mi sarei educata a guardarlo con gli occhi di un bambino e la forza di un vecchio.» Decise di specializzarsi, all’università, nell’eliminazione di barriere architettoniche. I suoi vecchi e i suoi disabili divennero troppi; allora con i soldi di una borsa di studio, creò l’associazione di volontariato ArtigianFamiglia, sede legale nel negozio di papà: «Volevo che la nostra storia, le nostre tradizioni non andassero perse». Edita anche un periodico: «Pensiero artigiano».

E, per conciliare le due cose, varò un progetto, unico in Europa, di leaving history (ricostruzione animata di eventi storici, con scientifico, maniacale rispetto di fatti e dettagli) e reactment (archeologia sperimentale: insegnare storia, facendola rivivere), affidato soltanto a disabili, mentali e no, per favorirne integrazione e recupero: «Abiti e oggetti usati sono originali, o ricostruiti con materiali d’epoca (stoffe di due secoli fa, per dire) o comunque riprodotti identici».

Carmensissi presiede pure l’associazione Due Sicilie Tirrenica, per il recupero e la divulgazione della storia del periodo borbonico (e con il suo libro sulla rivelazione dei messaggi nascosti della chiesetta di Piedigrotta, che non sta a Napoli, ma a Pizzo, realizzata nella roccia, e nella quale ogni pietra, ogni linea, ogni apertura ha un significato da scoprire, si è classificata terza al premio letterario Europa, a Lugano).

Racconta di competenze artigianali che si pensavano estinte, scoperte in paesini dell’interno, quale il ricamo con filo di oro (sapete quei paramenti sacri che indossa il papa?): lo faceva ancora una signora di Vezzano, l’unica da Salerno in giù. Dalla ceramica alla sartoria, affiancò i disabili mentali agli artigiani. Oggi, a scuola, i disabili trasferiscono le competenze apprese ai normodotati. «Che li chiamano: “Signor maestro”.»

Carmensissi organizza fiere-laboratorio, perché quaranta, cinquanta, vecchi artigiani alla volta mostrino la bellezza e il segreto del proprio lavoro ai bambini. Come dire: non solo playstation. E nel laboratorio creativo di un’altra sua associazione, la Nemo, i disabili imparano realizzando oggetti, alcuni dei quali sono poi venduti per l’acquisto dei materiali. «Quest’anno, per la prima volta nella loro vita,» dice come se mi mostrasse un diamantino «i miei disabili potranno andare in spiaggia e fare il bagno: sono riuscita a far comprare, da Confindustria e Centro servizi volontariato di Vibo, quattro sedie-job». «Job? Non vuol dire “lavoro”, in inglese? Che c’entra il mare?» «Sono sedie molto particolari, per disabili: con cui ci si può muovere pure sulla sabbia ed entrare in mare. Le hanno inventate a Napoli, e job sta per “Jamm’o bagne”.»

Segue personalmente 53 disabili sparsi nella provincia di Vibo Valentia (gratis, con i suoi soldi). È vice presidente dell’associazione Don Gnocchi Calabria, per l’aiuto psicologico alle famiglie. Ha fondato pure una cooperativa per l’assistenza agli anziani: «Riusciamo a fare poco»; le cooperative ricevono contributi e hanno spesso un traino politico che lei non cerca e non vuole. Preferisce le associazioni, più libere; i soldi li mette lei. Il problema è trovarli. In un modo o nell’altro, ci riesce.

Uno dei disabili desiderava vestirsi da soldato borbonico, per sparare a Gioacchino Murat (fucilato a Pizzo Calabro, dopo lo sbarco in Calabria per tentare la riconquista del trono perso). Ma togliersi la soddisfazione di farlo fuori, evidentemente non gli bastò: propose di partecipare alla battaglia di Tolentino, che Murat perdette contro gli austriaci (e fu la fine sua e del suo sogno di unificare l’Italia), nel 1815. Lo scontro viene ricostruito ogni anno, a Tolentino. «Ma ci volevano 35.000 euro per vestire tutti i protagonisti della scena» narra Carmensissi «e non avevamo i soldi.» Quali sacrifici non farebbe, lei, per i suoi disabili? «Dissi al mio fidanzato di sposarmi. Con i regali del matrimonio si pagarono gli abiti storici per tutti e prima ci sposammo in costumi ottocenteschi, poi partimmo in viaggio di nozze. A Tolentino. In trentacinque» (mai sentito parlare, prima, di Carmensissi? Nemmeno io: mica è mafia, mica è monnezza).

Simpatico, il marito. «Sei un uomo prudente» gli dico. «Ubbidisci...» «Sempre» assicura lui e stringe la moglie per la vita. Carmensissi spiega che il suo nome significa: “Dono del giardino di Dio”. Lo è per molti. Per lui, di più. Questa ragazza ha ventisette anni.

Marco Demarco, in Terronismo, tesse le lodi dei giovani meridionali che rifiutano i mali del Sud e vanno via, per un agire libero, senza padrini, senza attese, senza un prezzo di dignità da pagare. Sono quelli che non restano attaccati allo scoglio, secondo la metafora di Vittorio Nisticò, che Demarco ricorda, ad aspettare l’onda che li bagni, ma si spingono in mare aperto. Hanno “piedi leggeri”, “piedi veloci”.

«I dati Istat» riporto dal libro di Demarco «parlano ormai di quasi quattro giovani disoccupati su dieci, aumentano anche gli “inattivi”, quelli che hanno smesso di cercare lavoro, e sale anche il tasso di disoccupazione di lungo periodo, ma i giovani laureati del Sud se ne vanno non tanto per questo, ma perché non ne possono più del clima generale. Non ne possono più delle famiglie e del familismo amorale; non ne possono più delle piccole e grandi arroganze di paese; non ne possono più delle caste professionali, chiuse e immobili come ascensori bloccati tra un piano sociale e l’altro. Non ne possono più dei corsi di formazione infinita, degli esami regalati, dei concorsi fasulli, delle élites asfittiche e consociative più che ai tempi di Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto. Non ne possono più del paternalismo dei Gaspari e dei Colombo, che hanno mortificato i genitori, dei Bassolino e dei Loiero, che invece hanno mortificato le loro speranze, e in genere di tutti i leader, i capicorrente e perfino i portavoce che hanno popolato il panpoliticismo meridionale, quell’informe garbuglio in cui la politica controlla ogni assunzione, ogni progetto a termine, ogni passaggio di carriera, ogni posto in ospedale, ogni appalto, ogni assegno di ricerca. Non ne possono più, direbbe Piero Barucci, di un Mezzogiorno “dalle intermediazioni multiple, impropriamente svolte da soggetti non autorizzati, senza alcun riconoscimento di professionalità e senza controlli”. E non ne possono più, anche, di quelle cene a casa organizzate per chiedere la raccomandazione al notabile di turno, o dei fiori o dei cioccolatini inviati a ogni festa comandata alla signora tal dei tali per commuovere il potente marito.»

Qui avrei da rammentare che è tutto vero, ma non tutto meridionale, se si guarda ai meneghini criteri di selezione a mezzo bunga bunga; servilismo garantito in difesa giornalistica, legale, politica, persino religiosa (contestualizzando, s’intende) di ogni vizio e difetto del capo; e renzi bossi, per la cultura ai tempi della Gelmini e delle pari opportunità carfagnane. Ma restiamo all’argomento.

«Tra il 1997 e il 2008» prosegue Demarco «circa 700.000 meridionali hanno preso un aereo o un treno per trasferirsi altrove. Nel solo 2008, il Sud ha perso oltre 122.000 residenti. Sono andati in cerca di un altro mondo, molto meno angusto di quello meridionale [...]. Questi ragazzi sono i nostri Luftmenschen, come li chiama George Steiner. Sono gli “uomini dai piedi leggeri”, i nuovi cosmopoliti. Francesco Saverio Nitti li chiamava invece “gli spostati” e oltre un secolo fa li vedeva come il “peggior pericolo per l’Italia”. Fino a quando non troveranno un lavoro o un guadagno sicuro, diceva Nitti, questi giovani “non potranno fare a meno di coltivare le loro velleità rivoluzionarie”. Gli “spostati” di oggi sono apparentemente meno pericolosi, eppure la loro rivoluzione, seppur silenziosa, non è meno dirompente. Sono gli stessi ragazzi di cui ha scritto Franco La Cecla sul “Sole 24 Ore”, consapevoli del fatto che le complicazioni burocratiche, il clima fatiscente e ricattatorio dell’università italiana e lo strangolamento delle potenzialità giovanili sono una malattia ormai cronica. E allora lo scossone provocato dal loro lucido e consapevole distacco non potrà essere privo di conseguenze. Chi troppo frettolosamente continua a parlare di un Sud lamentoso, compromesso e rinunciatario dovrebbe cominciare a riconsiderare questo straordinario fenomeno sociale.»

Che io non riesco a considerare tale, visto che inutilmente svuota e non risolve. Ma scusate l’interruzione e seguiamo cosa scrive Demarco.

«È impressionante, a leggere il libro di Pezzulli (In fuga dal Sud; N.d.A.), mettere in fila il modo in cui gli intervistati descrivono il contesto di provenienza: “Mi innervosiva”, “cominciava ad ammorbarmi”, “un orizzonte chiuso, troppo claustrofobico, insopportabile”, “arrogante e incivile”, “odioso, deprimente, castrante”, “ristretto e senza prospettive”, “affollato di gente corrotta e di malaffare”, “c’erano solo briciole, ci saremmo ammazzati a vicenda”. E ciò spiega, dice l’autore, la prima differenza tra questa emigrazione e quella di un secolo fa. Rispetto ai loro nonni, rispetto al Totò di Nuovo cinema Paradiso a cui il vecchio Alfredo urla vattinni e rispetto ai ’uaglioni napoletani a cui Eduardo dice fujtevenne, i giovani d’oggi partono “senza alcun rancore”. Il che vuol dire anche, ed ecco una seconda differenza, che quest’ultima generazione di migranti non ha alcuna intenzione di tornare. “Il rischio di impantanamento sarebbe molto elevato” confessa un ricercatore felicemente approdato in un’università americana. Rientrare? “Soltanto se la mia famiglia avesse necessità della mia presenza” è la risposta più frequente. Malinconici? Mammisti? Languidamente distesi al sole a discettare di pensiero meridiano? Tutto si può dire di loro tranne che questo. I nuovi meridionali di mare aperto o dai piedi veloci sono gli unici, veri rivoluzionari dei nostri tempi. Altro che Masaniello, altro che Pisacane, altro che Eleonora Pimentel Fonseca. O Caccioppoli, che come Cesare Pavese si ammazzò con un colpo alla testa. Questi, almeno, non faranno una brutta fine.»

È vero: questi, almeno, non faranno una brutta fine. Tu cosa vuoi per tuo figlio? Ecco, anch’io. E lo capisco; nel mio egoismo, faccio più che capirlo: lo voglio; voglio che le mie figlie vivano una buona vita, non facciano una brutta fine. E se la soluzione fosse stata affidarsi, con “piedi leggeri”, al “mare aperto”, l’avrei accettata e ne sarei stato lieto, alleggerito anch’io (hanno scelto altro, di far diversamente la propria parte, precarie ancora a trentasette e trentacinque anni).

Ricordo un imprenditore pugliese, giovane, famiglia importante e solidissima, studi eccellenti, concupito da grandi società per il suo valore e le personali possibilità di compartecipazione a investimenti con molti zeri. Legato al Salento, ma sfiduciato da ostacoli, compromissioni politiche, mentre esaminava proposte giuntegli dall’estero, si rivolse a un grande manager, suo riferimento professionale e morale: «Che faccio, cambio Paese?». «No,» rispose quello, che pure era stato per anni alla guida di un grande gruppo europeo e poi era tornato in Italia «cambia il Paese». E lui restò. A volte gli cascano le braccia, ma resiste.

E Carmensissi, dai piedi tanto leggeri, che a sedici anni era già a Strasburgo e poi decide di tornare a Pizzo Calabro? E Francesca Rocca, che era già fuori, a Firenze, ma rientra a Crotone, dove trova tutte quelle cose appena elencate che fanno “brutto” il Sud, ma non solo il Sud, e invece di fuggirle, cerca di cambiarle; e lascia “il posto fisso”, per andare a schivare le bombe della ’ndrangheta, pur di rendersi utile agli ultimi? E tutti gli altri, qui al Calabriaday, di cui non ho potuto raccontare le storie, perché sono meravigliosamente troppi? E tanti ancora, da Annalaura Orrico che organizza questa festa dei “folli e giusti”, allo stesso Pippo Callipo (che, appena nominato commissario-presidente della Confindustria di Reggio Calabria, ha espulso tredici imprese sospettate di mafia. Immaginate lo facesse la Confindustria nazionale) e suo figlio, che potrebbero essere industriali più ricchi e tranquilli al Nord; e gl’infiniti altri come loro che fanno altrettanto? E la lista spaventosamente lunga degli sconosciuti cronisti calabresi antimafia che vivono minacciati, magari sfruttati per la promessa di un tesserino da pubblicista o di un contratto ai minimi, e scrivono a proprio rischio quello che domani leggerà il vicino di casa capo della cosca? Ne avete mai saputo niente? Nemmeno io: mica è monnezza, mica è mafia. Anzi, è mafia, ma “anti”, quindi chissene. Solo «Il Fatto», e Attilio Bolzoni su «la Repubblica», hanno dedicato delle pagine a questi eroi dell’informazione, quando uno di loro fu pure licenziato per eccesso di antimafia (molti, me compreso, l’hanno capita così. Saremo puniti per la malizia, nell’aldilà. Ma qualche girone più sotto, sospetto che troveremo quelli che l’hanno licenziato); si chiamano, questi coraggiosi dai piedi pesanti, che restano e lottano, magari con un blog, per essere liberi: Michele Albanese, Francesco Mobilio, Michele Inserra, Lucio Musolino, Pietro Comito, Angela Corica, Agostino Pantano, Ferdinando Piccolo, Antonino Monteleone, Giuseppe Baldessarro... e chiedo scusa a tutti gli altri che non nomino. Hanno fra i venti e i trent’anni; uno solo più di quaranta. Angelo Sisca, il loro decano, ne ha sessantaquattro. In soli nove mesi, documenta Bolzoni, ventuno giornalisti sono stati “avvisati”: pallottole arrivate per posta o sparate contro l’auto, o l’auto incendiata... Possibile che nessuno di loro abbia capito che sarebbe stato meglio lasciare il Sud alla sua mafia e andarsene?

E Leo Aiello, ingegnere, trent’anni, che da Roma rientra in Calabria e fonda Nuova Era, associazione di giovani per lo sport e il sociale? E Otello Vizzino, che realizza un redditizio progetto di turismo sportivo in Spagna e lo importa in Calabria, al suo paese, dove ritorna? E Giovanni Pileggi, fondatore di Talità Kum, cooperativa fra disoccupati che s’inventano lavori? E tutti gli altri che scelgono il mondo scomodo e potrebbero averlo facile altrove: gli dico che sbagliano? Che dovevano andarsene?

Io sono qui, con un microfono in mano a “tirare le conclusioni”, dopo aver ascoltato le loro storie, essermi sentito piccolo, egoista, superficiale, perché tu te ne vai dopo esserti turbato per il loro coraggio, ma loro restano; e il mondo in cui restano è quello brutto descritto da Demarco. Io devo dire qualcosa a questa gente. Gli spiego che sono il lato storto della soluzione? Che se avessero i piedi leggeri navigherebbero in mare aperto, invece di pigliarsi le mareggiate che li schiantano sugli scogli, mentre cercano di impedire che uno sconosciuto affoghi o di tendere la mano, loro con tutti quei problemi, a chi ha più problemi di loro? Che il mio egoismo è tale che non vorrei le mie figlie avessero il loro coraggio e i loro guai? Tanto coraggio, da andarseli a cercare i guai, per tentare di rimuoverli?

Io una cosa so: chi ha il problema è la soluzione. E capisco quelli dai piedi leggeri che se ne vanno e lo risolvono. Ma perché ammiro chi resta? Chi se ne va risolve un problema: il suo, un pezzo di quello di tutti; e se ognuno risolvesse il suo, tutti i problemi sarebbero risolti.

Quindi, dal Sud dovrebbero andarsene tutti? Perché “tanti” non è sufficiente, se venti milioni di fuggiaschi non sono bastati. Arriveremmo alla soluzione per assurdo: il problema del Meridione si risolve svuotandolo dei meridionali migliori; riducendolo, per espulsione di quelli perbene, a una sorta di colonia penale abitata da quelli permale e quelli perniente (cosa che sarebbe già adesso, secondo la vulgata leghista e tremontian-gelminian-brunettiana).

Con un ulteriore, piccolo sforzo, si può arrivare all’espulsione di tutto il Sud (secessione) o, almeno, dei suoi residui, impresentabili abitanti permale e perniente, in una “landa desolata” della Patagonia o del Borneo, come già cercò di fare l’Italia appena unita, per iniziativa del ministero degli Esteri, per circa dieci anni, sino a che il fastidio, l’irritazione e persino il disgusto di mezzo mondo indusse i “fratelli d’Italia” ad abbandonare il progetto. Mi ricorda la battuta che compare nella Storia d’Italia a fumetti di Enzo Biagi (mi pare lo faccia dire a Cavour): «Noi volevamo il Sud, ma non ci avevano detto che era abitato!».

Mi sa che chi va via risolve un problema, ma chi resta risolve il problema: non lo sfugge, lo affronta, o, almeno, ci prova. Talvolta, sempre più spesso, ci riesce, perché chi viene dopo fa minor fatica di quanti l’hanno preceduto: non deve più trovare la strada, ma percorrerla; altri, a più caro prezzo, l’hanno tracciata. E nessuno di loro ha avuto paura di essere il solo, ma si è avviato sperando di essere il primo, in compagnia ideale di quanti sarebbero venuti dopo, per continuare.

Ma c’è un argomento che mi pare ancor più trascurato, quanto all’idea di cos’è risorsa: il futuro. E il futuro sono i giovani. Il Sud è quella terra da dove i giovani vanno via e dove i pensionati restano o sono addirittura importati, a migliaia, dal resto d’Europa (pur se il fenomeno non ha ancora le dimensioni che ha raggiunto già altrove), a riempire a poco prezzo, le case rimaste vuote. Per carità: sempre un’economia, un’alternativa al vuoto. Ma il disvalore dello scambio è evidente: si perde futuro, si acquista passato: dai “tempo a crescere”, in cambio di “tempo a termine”. È la risorsa dei Paesi del terzo mondo.

Se questo è il presepe che mi vogliono far piacere, ’o presepe nun me piace.

«Siete bravi, siamo orgogliosi di voi» diceva il professore dell’Università di Arcavacata a mio nipote e altri eccellenti neolaureati in Ingegneria, nel consegnar loro la meritata pergamena. «È stato un onore avervi allievi. Siete il pregio delle vostre famiglie e della nostra terra. Ma non lo sarete più, se andate via. Per favore, restate, anche se è difficile.» Ci vuole coraggio, per parlare così a dei giovani. Io ringrazio chi ce l’ha; e chi li ascolta. Il professor Vito Teti, nel suo recentissimo Pietre di pane. Un’antropologia del restare, analizza splendidamente (e come scrive!) questo trascuratissimo fenomeno, la Restanza, la crescente tribù di quelli che restano. Ma è calabrese e insegna in Calabria: «Sono nato in una terra in cui partenza e attesa hanno costituito una nuova mentalità, una nuova identità». Dice che bisogna «ripensare le concezioni e le pratiche del restare», anche se, nella cultura occidentale vale «l’erranza più della permanenza». (Nonostante, come spiegò Eric J. Leed in La mente del viaggiatore, dover andare non era solo frutto di necessità, ma persino condanna, espiazione, prima di diventare turismo.)

Eppure, «Ulisse non avrebbe senso, senza l’attesa di Penelope» scrive Teti. E, per l’emigrazione massiva degli uomini, l’attesa delle donne calabresi «si è tradotta in capacità organizzativa, assunzione di un nuovo ruolo». Così, «l’antropologo che resta incontra i rimasti» e «analizza il proprio territorio, mentre diventa territorio di frontiera». Perché le generazioni, le circostanze, i mezzi cambiano e l’antropologo della Restanza studia «chi si sente appartenere a una tradizione immutabile, mentre, a tutti gli effetti, è preso nelle dinamiche della globalizzazione».

Il valore dei popoli è questo (come per le famiglie): qualcuno paga, perché altri riscuotano. Ma, per farlo (è la lezione dell’ulivo, la nostra pianta), devi proiettare il senso e il pregio di quello che fai, nel futuro e nella vita degli altri.

È un dono. Ma mentre lo fai, lo ricevi. Lo dice Francesca, lo dice Carmensissi. Io che ne so: ero di quelli con i piedi leggeri, appesantiti con l’età.

Aprile Pino - 2011 - Giù Al Sud
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