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L’UOMO, IL SIGARO
E IL POSACENERE
Quella foto: guardate quella foto e buttate il mio libro e tanti altri libri. Quella foto dice tutto e lo dice meglio, perché ci sono gesti, istanti che riassumono epoche: il presidente della Regione Piemonte, Roberto Cota, regge il posacenere al ministro Umberto Bossi, che fuma il sigaro durante un incontro ufficiale alla Prefettura di Vicenza, presenti da Sua Eccellenza il Prefetto, in su, sino al capo del governo.
Quel che più mi interessa è Cota: è lui la sintesi, ma per comprenderla meglio, bisogna partire da chi e cosa gli è intorno:
1. Bossi. Il suo progetto politico, dichiarato, è distruggere il Paese chiamato Italia e conclamare la riduzione del Sud a colonia interna (federalismo che toglie al Meridione e dà al Nord) o esterna (secessione, come da articolo uno dello statuto di fondazione della Lega). Progetto sovversivo nei riguardi della Repubblica italiana; razzista nei riguardi dei meridionali.
È vietato fumare nei luoghi pubblici, per legge dello Stato che lui rappresenta, come Cota, il prefetto e i tanti funzionari pubblici presenti. L’ostentazione del gesto profanatore della norma è la ragione stessa del gesto; vuol dire: io non rispetto queste regole, perché non riconosco l’autorità che le ha emanate. E lo fa impunemente; a riprova che il suo potere è maggiore di quello offeso e lo sostituisce; e se ne nutre. Il potere di cui si è portatori si misura dalla quantità di potere altro che si può calpestare, senza subirne conseguenze. E il potere di chi calpesta cresce esattamente di quanto viene calpestato, perché il potere sale sulle macerie di quello che distrugge.
Ognuno dei pubblici funzionari presenti all’insulto di Bossi sarebbe scattato inflessibile, se un extracomunitario o un comunitario qualsiasi avesse acceso il sigaro con strafottenza, in faccia a Sua Eccellenza il Signor Prefetto, a Sua Eminenza il Presidente della Regione Piemonte e a Sua Bunga Bunghità, il Presidente del Consiglio. Perché, come avrebbe detto Cota, o il suo collega veneto, Zaia, lì accanto, o lo stesso Bossi: «La Lega è per la legalità!» e se sei in ritardo con le rette della mensa scolastica, i bambini li lasciano digiuni, mentre gli altri mangiano.
L’acquiescenza dei custodi della norma allo stupro della norma è il pubblico riconoscimento che il potere di Bossi è più grande, in certi casi, di quello della legge italiana; e lo è, perché Bossi è il capo della Lega; quindi vuol dire che le norme della Lega sostituiscono quelle dello Stato italiano; e che il nuovo potere sta già occupando gli spazi e i templi del vecchio e imponendo la nuova legge. Ogni sfondamento ne prepara uno più grande: prima fumi in luogo pubblico, poi sposti sedi ministeriali come, quando e dove ti piace; prima mandi al diavolo il prefetto, poi il presidente della Repubblica. E il tuo potere è cresciuto sin lì, proprio perché ha mostrato di poter sottomettere quello del prefetto, del presidente della Regione, del presidente del Consiglio sotto ricatto, per i suoi problemi giudiziari... (che era accanto al fumatore: zitto lui, zitti tutti, a scalare). Di volta in volta, il cumulo di macerie è più grande, come (in rapporto diretto) il potere del demolitore.
2. Il silenzio dei censori: non credono più al potere che pur rappresentano; lo amministrano per la parte che non porta disturbo ai padroni entranti e nel modo che può da loro essere apprezzato (nulla contro gl’industrialotti che impiegano manodopera clandestina; molto contro i clandestini). È l’agire servo di una fase di transizione, nella quale non si sa chi prevarrà e bisogna trovarsi pronti a salire sul treno giusto, avendo dei meriti da farsi compensare. Prefetto e pubblici funzionari hanno venduto una parte del dovere cui corrisponde il loro potere, per accreditarsi presso il nuovo, possibile padrone.
3. Cota, il reggitore. Non ricordo quale anziano collega, nel porgermi il cappotto (avevo un braccio ingessato), disse: «Un signore si riconosce quando, nel fare questo, non sembra un servo». Il gesto di Cota è eloquente in molti modi: dice che la forma di potere della Lega è monocratica, perché dipende da una sola fonte, il capo. Guardate le foto degl’incontri fra rappresentanti di volontà popolari, democraticamente conflittuali: ognuno cerca di sembrare più importante dell’altro e, comunque, mai meno dell’altro. Per questo, nelle foto di gruppo (il governo al completo, i capi di Stato del G8...), ci si rifugia in cerimoniali più asettici, anonimi possibile, in una rappresentazione che non esalta nessuno, per non diminuire qualcuno, perché a tutti attribuisce potere per il semplice fatto di esser nel gruppo, non esclusi, e a ognuno quella presenza tacitamente riconosce esattamente il potere che ha, non di più. Nella foto dei grandi del G8, Obama e Berlusconi compaiono alla pari, ma uno “è” gli Stati Uniti, l’altro l’Italia: si sta tutti alla pari, ma questo non rende pari.
La “cortesia” di Cota a Bossi dice che il presidente del Piemonte non deve quel che è ai suoi elettori, ma all’indicazione di Bossi (esplicita o no) agli elettori. Per assurdo, se Cota vuol rimanere in sella, può rischiare di deludere i suoi elettori, non Bossi. In un partito più democratico, ognuno è forte non per la benevolenza del capo, ma per il proprio seguito di votanti e capo diviene chi offre il miglior equilibrio possibile fra i diversi potentati (la Lega, in realtà, può essere meno monarchica di quel che sembra, ma solo quando il tocco del suo fondatore mostra di perdere la magia e sulla debolezza del sire, qualche vassallo progetta ascese).
Il gesto di Cota dichiara anche complicità formale e sostanziale nella profanazione del luogo pubblico e della norma. Bossi avrebbe forse preferito fare a meno della cortesia cotiana: l’insulto sarebbe stato completo, più rozzo e simigliante a lui, se lo scudiero non gli avesse impedito di spandere, a braccio largo e dito percussore, le scorie del sigaro sul pavimento del palazzo del governo di Vicenza. L’uomo del posacenere, così, da una parte ha preservato il luogo dall’estremo scherno, dall’altro si è reso partecipe della prepotenza, condividendo la colpa del capo, e quindi, anche il suo dissacrante potere. Se Cota fosse rimasto al suo posto, fingendo di non vedere la cialtronata del boss, avrebbe spartito con gli altri il peccato di omissione; porgendogli il posacenere, ha scelto un ruolo attivo, di prendersi, con la cenere, un po’ di colpa e del potere che da quella colpa deriva, per essersi schierato.
Badate che lì, proprio alle spalle di Bossi padre, c’era Bossi figlio, il Trota; e lui, il posacenere, a papà non gliel’ha retto. Quindi, Cota ha fatto, per il boss, più del figlio. Perché proprio lui?
Roberto Cota è nato a Novara, dove suo padre, avvocato, si trasferì da San Severo, in provincia di Foggia. La madre è piemontese. Ho letto che Roberto Cota si sente solo settentrionale: vero o no che sia, tecnicamente lo è, nulla di male (a parte dover discutere di latitudine, come se questa potesse influire sulle qualità umane). Ma quel gesto in più compiuto in Prefettura mi dà l’idea che senta il bisogno di sottolinearlo, per dimostrarsi lontano dall’origine meridionale, estraneo. È solo una mia impressione? Può darsi, certo non dissipata dalla decisione del presidente del Piemonte di escludere gli studenti del Sud dall’assegnazione di borse di studio, nelle università della sua regione. E forse è impressione non solo mia, se a San Severo raccontano (ne trovi tracce sul web) che lui avrebbe rifiutato la cittadinanza onoraria, informalmente propostagli dal presidente del Consiglio comunale, Luigi Damone (non è vero, lo stesso Damone mi assicura di non aver mai incontrato Cota, ma che, volendo, la proposta può essere fatta, perché no?); raccontano che avrebbe smentito di avere radici meridionali, in un incontro occasionale, a Torino, con consiglieri comunali di San Severo (salvo poi rivendicarla in televisione, in un confronto con il presidente della Puglia, Nichi Vendola?); di vero, ci sarebbe che nessuno ricorda di averlo mai visto a San Severo (e sarà pure padrone di andare dove gli pare...), anche se vi ha ancora dei parenti. Il cognome sembra persino un altro, perché la pronuncia settentrionale allarga la “o”; mentre quella meridionale la chiude: Couta, e la finale sfuma, quasi in una “e” atonica, Cout(e), che vuol dire: “coda”.
Ora, qualunque sia il modo in cui Roberto Cota vive il suo stato di “meticcio italiano” (un quarto della popolazione del Paese è tale), quel modo non mi pare estraneo al gesto del posacenere: ogni nostra azione, ogni nostra parola è figlia di quel che siamo e sentiamo. L’esasperata manifestazione di appartenenza identitaria al Nord, con l’atto (servile, per eccesso di attenzione) nei riguardi di chi la incarna, forse svela la fragilità della radice di quell’appartenenza e sospetto che Roberto Cota, faccia pulita, linguaggio corretto (altro che Borghezio e Calderoli), la viva con inquietudine palese o inconscia.
C’era, lì, anche il presidente del Veneto, Zaia, ma i posacenere li ha lasciati stare (l’orgoglio veneto che raccoglie il mozzicone del lombardo... mah!).
Non volendo, Cota, con il suo gesto, ha confermato l’idea del ruolo e della sudditanza meridionale, nella peggiore delle sintesi razziste della Lega (e non solo). Come per Rosy Mauro, terrona inclusa nel “cerchio magico” dei più stretti collaboratori di Bossi, vicinissimi ai padroni, ma terrona.
A me, il gesto di Cota ha detto questo. Se mi sbaglio, chiedo scusa: immediatamente dopo le scuse di Bossi, per l’offesa alle leggi che a noi tutti tocca rispettare, e quelle di Cota (forse l’unico leghista che non riuscirà a diventare cafone e antipatico), che invece di impedire l’insulto, lo ha agevolato.