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LA DORMIENTE RIPUDIATA
«E mo’ facciamo una fondazione.» Ah, sì? E per fare cosa? «Progettare un futuro per la nostra terra.» E ci vuole una fondazione? ti viene da pensare. Ma non glielo dici. Poi, capisci. C’è in questi uomini giovani, affermati nel loro lavoro, il furore delle consapevolezze acquisite di fresco, ma con ritardo; c’è ansia di recupero e rimpianto (forse senso di colpa) del tempo perso.
Siamo pochi chilometri a valle di Pontelandolfo e Casalduni, paesi martiri di un martirio dimenticato, perché risorgimentale, perché meridionale: bersaglieri contro popolazione disarmata, colta nel sonno e soppressa.
«Tornai da una vacanza in Trentino e mostrai a mia figlia piccola le foto di quei monti; le dicevo i nomi delle vette» racconta uno del gruppo. «E quella come si chiama?» domandò lei, indicando la montagna di fronte al nostro paese, Ponte. Chi racconta, imprenditore di successo, sui quaranta, viaggia molto, si chiama Libero Sica, la sua azienda produce coppe, trofei, statuette... tutta roba per premiazioni. Mi dà il catalogo: c’è buon gusto e un pizzico di fantasia. È attento a non restare indietro, rispetto all’evoluzione dei mercati («Abbiamo contatti con Cina, India, Thailandia. Il mondo cambia e dice cosa vuole»).
Ma il nome della montagna che chiude a sud l’orizzonte del suo paese, lui non lo conosceva: è il Pentime, una delle cime del Taburno. Sta sui 1.100 metri, non è la più alta del massiccio, che arriva ai 1.400. «Andai a vedere sulla cartina» confessa «per poter rispondere a mia figlia.»
L’ignoranza non è mai un caso; è figlia del disinteresse. Quanto ce ne vuole, per non chiedersi nemmeno come si chiama la tua montagna (e sì che qui ce ne sono, di ogni tipo, e pure per sciare, come in Trentino)? Niente viene dal niente (tranne l’intero universo, ma questa è un’altra storia...); da cosa può nascere tanta disistima per la propria terra, da non volerne sapere nemmeno il nome? Per scoprire dopo quasi mezzo secolo, e solo perché te lo hanno chiesto, che non lo sai!
Avrei un’idea, in proposito. Ma ho da ascoltare, adesso.
«Se penso a quanto poco sapevamo due anni fa...» dice un altro (il primo annuisce), Giuseppe Mazza. È un chimico, ramo alimentare, lavora per una multinazionale dolciaria, gira per i vari stabilimenti italiani. È di Napoli, come sua moglie Simona, ma abitano qui da molti anni. Come faccio a descrivere la sua voce? Sembra Colombo al ritorno dalle Americhe: racconta di una terra appena scoperta, e scoperta da lui: ma è la sua, quella da cui non si è mosso; sua, davvero, però, solo adesso, perché ha avvertito il bisogno di conoscerla; mentre prima ci stava e basta.
«Siamo dove l’Appennino si spezza, salendo, alle nostre spalle, sino a più di 2.000 metri, nel massiccio del Matese, con monte Miletto (dietro c’è Campitello, i campi da sci).» Lo sentite che sembra abbia imparato a memoria una voce della Garzantina? Ma il tono non posso riferirlo; ed è quello che fa la differenza. Dice: «L’Appennino si rialza solo più a sud, oltre il Beneventano, nella provincia di Avellino. In mezzo, eccola: la Dormiente del Sannio, il Taburno». Il massiccio di fronte. Dicono abbia contorni di una donna distesa. Non riesco a vederli. Ti spiegano che, per scorgerli, bisogna cambiare, di troppi chilometri, il punto di osservazione. Altri me l’hanno detto; ma il punto di osservazione giusto non era lo stesso...
«Non è vero,» insiste l’interlocutore «le montagne del Taburno-Camposauro, viste da Benevento, hanno il profilo di una donna distesa, con il capo riverso leggermente all’indietro e i capelli sciolti. I tratti decisamente femminili, di figura esile, un seno ben visibile (ma piccolo, diciamo al massimo una seconda), capelli lunghi e lineamenti gentili.»
Si parla così di un amore o di una dea, di cui forse si attende il risveglio. «La figura dà l’idea di estrema tranquillità: naturale immaginare che dorma, senza voler attribuire, a questo, significati più profondi. Tipo il sonno del demonio o altro.»
Dicevo una dea... «Allora mi devo documentare» premette il mio interlocutore. E accidenti se lo fa! «È vero, era una dea» confermerà poi, con la ricchezza delle sue fonti. «Benevento è nota come città delle streghe; per i riti, sembra, che si celebravano sotto il Noce di Benevento, e che furono proibiti dal vescovo Barbato, nel 663. Qui dominarono i Longobardi, cristiani, ma seguaci dell’arianesimo; e nei loro riti, la figura femminile era il centro. Ma già prima, fin dal 300-400 avanti Cristo, a Benevento, i Sanniti avevano importato dai tarantini l’adorazione della dea Iside (l’Ishtar babilonese) o dea Madre. Un culto talmente sentito e forte, che Domiziano, nell’88 dopo Cristo, fece erigere a Benevento il più importante tempio di Iside presente nell’impero, dopo quelli d’Egitto. Le strutture di quel tempio non sono state ancora ritrovate, ma reperti da esso tolti, dopo che andò in rovina, sì. Sicuramente i Sanniti avevano già individuato nella “Dormiente” la dea madre e successivamente Iside.»
Ogni volta che un dio ne sostituisce un altro, quello precedente resta, ma diviene un demone; e se dea, strega: continuano a esistere, ma in un olimpo subalterno, degradato nel male, padrone non più del cielo, ma del sottosuolo, degl’inferi. Benevento è la città delle streghe, delle dee decadute. Presenti qui come da nessun’altra parte. Hanno perso il dominio, non la forza. Sono poteri in attesa.
Per questo incuriosisce il massiccio: montagna femmina e sdraiata, che dorme. Manco fosse un vulcano, che può svegliarsi. Mentre «è un rilievo calcareo, nato per emersione dal mare, dove l’Appennino si interrompe. Sembra enorme, perché qui, nella valle, siamo a soli 100 metri sul livello del mare; e circa 200 dall’altra parte, nell’Avellinese. Sta al centro di questa enorme vallata fra Campania e Puglia, nella quale si infilano i venti tirrenici e adriatici, di cui tutte queste torri eoliche sfruttano i flussi». Dal vento prende il nome pure la città capoluogo della provincia (nata, la provincia, non la città, centocinquant’anni fa, con l’Unità d’Italia). «E sono i venti che disegnano il paesaggio: a ovest, dalla parte del Tirreno, le colline, poche centinaia di metri, vanno a vigne; a Oriente, dalla parte dell’Adriatico, verso il Foggiano, dove arrivano venti gelidi dall’Est europeo, è tutto grano duro e, in associata col grano, l’erba medica e, in associata con l’erba medica, la zootecnia. Abbiamo una razza tipica con l’IGP, nostrana, anche se si chiama “marchigiana”.»
Sembra abbiano il timore di dimenticare qualcuna delle tante cose che hanno appreso di fresco sulla loro terra. Sono protesi verso di me, durante il racconto, come volessero porgermi un vassoio. Ogni tanto, qualcuno aggiunge un nome, un dettaglio, un riferimento ulteriore alla narrazione principale. Per ospitarmi si è riaperta la chiesa di Sant’Anastasia, quel che resta dell’antica abbazia longobarda sul ponte dove, nel fiume Calore, si butta l’Alenta (o Lente, o Alente; forse divenuto, per assimilazione, da “la Lente”, “l’Alente” e poi “l’Alenta”); a dispetto del nome, vorticoso e di incostante portata, al punto che lo si ritiene un corso d’acqua torrentizio. «Invece,» interviene il primo narratore «l’Alenta è fiume; ho controllato le mappe: fiume di terza classe» (quanti ne conosco che vanno a controllare di quale classe è il rio casalingo? Un ruscello perenne fa da confine al giardino di casa mia. Ci sono pure cascato dentro, una volta. Ma mai, proprio mai mi è venuto in mente che lo si potesse classificare e ci fosse una mappa in cui andare a vedere la sua pagella. Cosa spinge a una ricerca così minuziosa questi uomini che, appena ieri, non erano interessati manco al nome della montagna che sovrasta 180 gradi e più del loro orizzonte? Più parlano, più quella mia idea si fa forte).
Ha piovuto molto i giorni scorsi; e ancora piove, a sprazzi. L’Alenta si scaglia con un ruggito nel Calore, schiumando alto sulle rocce. Non è un fiume, ma una vena di storia: nasce a Pontelandolfo, scende a Casalduni, in pochi chilometri diviene il largo signore della sua valle incassata, nei cui fianchi, sotto Ponte, si aprono sette grotte (ora inaccessibili) trasformate in rifugi nell’ultima guerra, durante i bombardamenti. Sul castello di Ponte c’erano i cannoni di una batteria tedesca.
La strada si infila con una stretta “esse” sotto l’arcata del ponte che scavalca il burrascoso incontro fra le acque dei due fiumi. La strada poggia su uno sperone di roccia. Sul suo ciglio, la piccola basilica longobarda in pietra; al cui interno, in una sezione aperta del pavimento, la tomba, ora vuota, di un guerriero sannita. Dell’abbazia ci sono altri resti, «ma sottoterra, ancora. E forse è una fortuna. Il fondo è proprietà privata».
«Le confluenze» ti spiegano «erano considerate luoghi satanici.»
L’abbazia era un esorcismo.
«Nacque prima l’abbazia, poi il castello, poi il borgo, che si chiamò Castello Ponte. Ora Ponte, Ponte e basta; mentre tutti gli altri paesi sorti dove si collegano le sponde d’un fiume, si chiamano Ponte... Qualcosa. Ci fu pure un duca di Ponte, che era parte della contea di Casalduni.»
Sanno troppo, tutto insieme, pure l’inutile, del proprio paese. Citano l’anno, il secolo, come da una guida. Suona esagerato il valore che attribuiscono alle rovinate casette del borgo, sull’acropoli, agganciate ai bastioni del castello e (dis)abitate da una cinquantina di nativi e qualche extracomunitario. Il recupero degli ambienti procede lento e discutibile: muri intonacati, dove c’era pietra viva («Sindaco, io rivoglio le pietre» dice un vecchio); strade a chianche, dov’erano i sassi dell’Alenta («Sindaco, su queste lastre si scivola» dice una vecchia. E non è una caduta da poco: con niente, salti il ciglio e finisci a valle. Il sindaco annuisce e scuote le spalle: è arrivato a cose fatte); persino alluminio anodizzato a incorniciare porte e finestre nel centro storico.
Mentre loro, i miei interlocutori, hanno riscoperto l’antico e il suo valore. E in quello intendono ritrovarsi: «Questa è terra di vite e ulivo. Il vino è la Falanghina e l’olio è il migliore».
Sul tema, da pugliese, sono preparato; chiunque parli di olio, sa qual è il migliore: quello di casa sua. Ma chi mi accompagna ha degli argomenti: «Negli ultimi dieci anni, i nostri produttori hanno vinto cinque volte l’Ercole Oleario, a Perugia. E agli altri non ha fatto molto piacere...».
Anche qui, il valore è nel passato riscoperto. «I cultivar della nostra zona sono l’Ortice e il Rappulella, o Racioppella (si chiama così, perché le olive si presentano piccole, a grappoli). Anni fa, cominciarono a tagliare gli alberi secolari, per sostituirli con i cultivar Frantoiano e Leccino, che in Puglia danno 50 chili di olive all’anno, contro i 30 delle nostre specie locali. L’avidità... Ma il clima e la terra, da noi, non sono quelli della Puglia. E i nuovi cultivar, qui, rendono meno di 30, persino 10. I nostri vecchi non erano scemi; se, in tante generazioni, avevano selezionato Ortice e Racioppella, la ragione c’era. E ora ci stanno tornando. Vuol dire, per allargare il discorso, che per andare avanti, dobbiamo ripartire da quel che eravamo e da quel che sapevamo, no?»
Uno porge il cestello con i taralli; aveva taciuto sinora: «Assaggiali: perché il nostro tarallo non è lo stesso degli altri. E mo’ ce ne siamo accorti». Si lancia in una dissertazione che va dal dialetto alle canzoni, alle fiabe, alle storie di paese e che si può tradurre così: cos’è una cultura se non la somma di tante differenze? E loro si son dati il compito di ritrovare le proprie.
Adesso, per dirne una, tutti loro sanno che la montagna davanti si chiama Pentime.
Ma io mi chiedo come abbia potuto ignorarlo per tanto tempo qualcuno che vive qui, ha buona istruzione, un’attività imprenditoriale importante, gira il mondo, sa i nomi dei monti del Trentino. E non so darmi altra spiegazione che questa: la Dormiente del Taburno, signora del luogo, è la terra che non ha saputo difenderti e smette, così, di essere tua madre. La disconosci. Imperi immensi sono caduti da un giorno all’altro, dinanzi a nemici risibili per numero e mezzi, perché un popolo non ha retto alla scoperta che il suo dio ha mentito, non era onnipotente; i suoi rappresentanti in terra, sovrani e sacerdoti, perdono il rapporto con il cielo, che si rivela vuoto. E questo svuota anche la terra, che si riduce da patria, casa, a superficie. È la fine del grande inganno; non importa quanto grande e forte sia la comunità così colpita, il cedimento è istantaneo (mi sa che così dovrò tornare sull’argomento). E qui accadde qualcosa di simile.
L’Alenta, il 14 agosto 1861, portò nel Calore il sangue delle molte centinaia di abitanti di Pontelandolfo e Casalduni che i bersaglieri mandati dal generale Cialdini trucidarono dopo averli seviziati, stuprati, derubati. Questa valle è terra di vinti. Mentre i miei interlocutori sono uomini di successo. Erano abituati a vedersi disgiunti dal destino degli sconfitti, perché, ognuno di loro, nel proprio campo, ha raggiunto risultati. Così, ognuno di loro è legittimato a vedere, nell’eccezione della propria riuscita, l’insufficienza degli altri e la conferma che chi vuole, può.
Ma la memoria lunga della Dormiente ripudiata li ha raggiunti: per quanto tu voglia allontanare la madre, dimenticartene, lei resta il punto di partenza. E quando ogni riferimento identitario è perduto, non ne hai un altro cui tornare. Ora, dopo tanto tempo, hanno fretta. Vedono un destino persino nei nomi: «Siamo di Ponte: che non è un nome, ma una vocazione».
L’industriale ha disegnato un logo: due uomini stilizzati, uno blu, l’altro rosso, a gambe larghe (i piloni, le arcate) protendono le braccia l’un verso l’altro, sino al contatto. «A noi tocca unire.»